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Obiettivo Sudan

di Stefano Vernole - 17/06/2006



Dopo la recente presa di Mogadiscio, mercoledì scorso - 14 giugno
2006 - le milizie sostenute dalle corti islamiche hanno conquistato
un altra città strategica della Somalia, Jowhar, che si trova a
circa 90 km. dalla capitale.
Lo smacco subito in questa nazione dagli Stati Uniti, che invano con
il loro sostegno ai "signori della guerra" somali hanno provato a
recuperare terreno dopo la figuraccia rimediata nel 1994 con
l'operazione "Restore Hope", assume una doppia rilevanza.

Il controllo formale della Somalia, nella quale le compagnie
petrolifere nordamericane hanno cospicui interessi, permetterebbe
infatti a Washington di gestire la ridefinizione delle frontiere
della regione, e attraverso la presenza in Eritrea ed Etiopia, di
gettare un'ipoteca sul Sudan, il cui governo islamico è da tempo nel
mirino dell'Occidente.
In previsione dell'inevitabile innalzamento della tensione nella
zona del Golfo Persico, le vie marittime del Mar Rosso e i loro
cruciali stretti dove Africa e Asia convergono, sono al centro delle
manovre geopolitiche della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato.
Così si spiega la fortissima pressione che il governo di Khartoum ha
dovuto subire negli ultimi mesi, a causa di una campagna mediatica
assordante non solo ad opera della stampa statunitense ma anche di
quella europea(1).

Al centro di questa nuova crisi internazionale, ovviamente, la
regione del Darfur, nella quale la propaganda occidentale parla di
un' inesistente pulizia etnica di milizie arabo-musulmane (i cd.
janjaweed) nei confronti della popolazione nera e cristiana (in
realtà anch'essa musulmana).

Si tratta perciò dell'ennesima strumentalizzazione di un conflitto
civile, che vede in lotta tra di loro alcune delle 35 tribù presenti
nel sud del Paese e dovuto alle difficoltà economiche provocate
dalla siccità.
Peraltro, buona parte delle sofferenze sanitarie del popolo sudanese
sono giustificate dagli effetti del bombardamento voluto nel 1998
dall'ex inquilino della Casa Bianca Bill Clinton, le cui conseguenze
furono la distruzione dell'impianto farmaceutico di El Shifa -
struttura che forniva il 60% dei medicinali del paese -, un crimine
per il quale il Sudan non venne mai risarcito(2).
Eppure la grancassa mediatica sulla necessità di un intervento sotto
l'egida dell'ONU, della NATO o degli Stati Uniti pare non conoscere
soste.

I gruppi sionisti e nordamericani sono in prima fila a dirigere
l'orchestra, lasciando configurare gli interessi strategici che il
Sudan riveste per Tel Aviv e Washington, i cui addestratori da tempo
lavorano a favore dei ribelli contro il governo di Khartoum.
Dal Jerusalem Post al New York Times(3), passando per l'Associazione
Nazionale Evangelica, il Museo dell'Olocausto, Democray Now e
l'Osservatorio dei diritti umani, è tutto un coro volto a sostenere
la campagna "Salvare il Darfur".
Qui già operano 7.000 soldati dell'Unione Africana, il cui sostegno
logistico è fornito dalle forze armate dell'Alleanza Atlantica, ai
quali vanno aggiunti migliaia di osservatori delle Nazioni Unite e
rappresentanti di ONG, il cui ruolo è tutt'altro che neutrale.
Malgrado tutto, il piano di pace stilato dall'Unione Africana e
proposto il 30 aprile scorso ad Abuja, capitale della Nigeria, è
stato firmato solo dal governo sudanese.
A causa di questo stallo e dopo le pressioni di Washington, si torna
ora a parlare di "genocidio", una formula che secondo lo statuto
dell'ONU prevede la possibilità di far intervenire truppe
internazionali anche senza il via libera del Consiglio di Sicurezza.
L'urgenza è dovuta anche alla "manovra di disturbo" che Cina e India
stanno conducendo in Sudan; i due giganti asiatici hanno infatti
stretto importanti rapporti di cooperazione con l'esecutivo di
Khartoum, al quale hanno fornito impianti per l'esplorazione,
trivellazione ed estrazione del petrolio, nonché la loro
partecipazione alla costruzione di un oleodotto.
Stante le difficoltà degli alleati statunitensi in Somalia, nonché
la combattività sempre più accesa della guerriglia antiamericana in
Afghanistan e in Iraq, sembra più probabile che per ora il
Dipartimento di Stato si limiti a chiedere sanzioni economiche nei
confronti del governo sudanese, allo scopo d'impedire l'esportazione
di quel petrolio del quale Pechino è oggi il principale acquirente.


Note

1)Dalla Francia si è levata alta la voce del solito, ineffabile,
Bernard-Henri Lévy, riportata in Italia dal "Corriere della Sera"
del 01/05/2006: "E' ora che l'Occidente intervenga in Darfur".
2)Sull'episodio di legga il mio "Clinton: una vita da bugiardo" su
www.disinformazione.it
3)Cfr. Sara Flounders, "Il ruolo degli Stati Uniti nel Darfur"
su "Warkers World".