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L’arte negra e il nostro nero più profondo

di Claudio Ughetto - 15/09/2011


 
 
 

L’aneddoto sulla scoperta dell’arte negra è ormai così noto da essere diventato un luogo comune: scoperta in un bistrot parigino una scultura negra, Vlaminck l’avrebbe portata dal suo amico Derain per sistemarla su un cavalletto e dire che era quasi bella come la Venere di Milo. – No, è bella allo stesso modo – avrebbe risposto l’altro. Così i due andarono a chiedere il parere di Picasso che sentenziò: – Avete torto tutt’e due: è molto più bella! – Più probabilmente, fu Matisse a scoprire la scultura, anche se Picasso ne fu effettivamente folgorato[1].
Comunque sia andata, la letteratura ci ha messo del suo, mitizzando e semplificando un insieme di eventi che hanno segnato per sempre la storia dell’arte occidentale. Pur dando origine ad una rivoluzione artistica senza precedenti (insieme a un curioso fraintendimento) ci vorranno anni perché l’arte africana, e la sua storia non scritta, si prendano il giusto riconoscimento. Più che l’arte stessa o la letteratura, a darglielo sarà l’antropologia culturale, che per sua stessa ammissione ha incarnato quell’atteggiamento contraddittorio che sta alla base della coscienza occidentale.
Se, per dirla con Edward W. Said, esiste un orientalismo, ovvero “un modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza europea occidentale”[2], allora mi chiedo se è possibile sostenere che in arte sia esistito una sorta d’africanismo che dell’Africa non ha espresso ciò che l’Africa è stata, ma piuttosto l’avversione e il desiderio d’alterità che gli artisti esprimevano verso l’Occidente stesso. Col senno di poi, anziché un ritorno alle origini o una ricerca di primitivismo finalizzata a una purificazione dalla deriva borghese e dal capitalismo rampante, l’arte negra e il ritorno all’arcaico che segnarono i primi anni dello scorso secolo andrebbero piuttosto attribuiti al bisogno di rispecchiarsi in ciò che di più brutale ed oscuro, nonché lussureggiante, la cultura e l’epoca già avevano in sé. “Tutto ciò che era barbaro, tutto ciò che non era Grecia classica o Rinascimento o tradizione a esso collegata”, scrive Mario De Micheli, “attirava con un’insolita violenza”[3]. Oggigiorno, dopo gli studi di Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne, è evidente che gli uomini di allora avevano della Grecia un’idea abbastanza fuorviante. Il Neoclassicismo aveva segnato la cultura appena precedente con dei parametri di bellezza che adesso apparivano artefatti, quindi andavano sovvertiti, eppure non occorreva rivolgersi all’Africa per ritrovare “un’anima collettiva libera da ogni vincolo di schiavitù civile”[4]. Con i suoi libri Nietzsche, aveva sondato il “lato oscuro” degli uomini greci, segnati dal dolore proprio come quelli di qualsiasi epoca, meglio di qualsiasi antropologo. Più tardi, un antropologo di raffinata verve letteraria, scriverà dell’arte africana ciò che Picasso, Apollinaire  e Paul Guillame non immaginavano neppure. Ovvero, che anche l’arte negra ha una storia, sebbene non scritta. Scrivendo dell’arte d’Ife, “altrettanto raffinata e sapiente di quella del Rinascimento europeo, ma forse ad esso anteriore di tre o quattro secoli”, Claude Lévi-Strauss sostiene che ormai siamo portati a vedere le recenti arti dell’Africa nera e le culture corrispondenti come “repliche impoverite, e quasi rustiche, di forme d’arte e di civiltà elevate”[5].  
Al di là delle semplificazioni, si è scoperto che l’Africa è un continente vasto che ha avuto una storia, e che in questa storia si muovevano etnie differenti, popoli con differenti culture e civiltà più o meno evolute. Esattamente com’era successo in Europa, sebbene con aspetti e modi dissimili. Niente di riconducibile al mito del Buon Selvaggio o alla retorica colonialista di una specie umana incivile da erudire e rendere produttiva per il nostro benessere. Nel 1907, anche degli artisti in buona fede, che sinceramente apprezzavano quelle opere da cui trarre spunto per sovvertire la mentalità dell’epoca, cercavano in esse ciò che a priori erano convinti di scorgervi. Aspiravano a “diventare selvaggi”, senza chiedersi se fosse davvero quella l’aspirazione di alcuni degli uomini che avevano realizzato quelle opere apparentemente primordiali. Il presupposto che stava alla base del loro giudizio sull’arte negra era lo stesso che pochi anni prima li aveva mandati in estasi per “il mondo candido” di Rousseau il doganiere o l’istintività di certi pittori dilettanti che fino ad allora nessun professionista avrebbe degnato di uno sguardo. In realtà, scrive De Micheli, “in tale interpretazione della scultura negra (…) gli artisti europei non facevano che proiettare i propri problemi, i problemi che più li assillavano”[6]. Nemmeno passava per la loro testa che anche in Africa potessero esserci state un’arte migliore e peggiore, artisti competenti come i loro colleghi europei ed altri riconducibili agli imbrattatele. D’altronde, non possiamo negare che da questo fraintendimento è nata la miglior arte del ‘900. Si tratta, infine, di un fraintendimento soggettivo. A Picasso e Paul Klee poco importava che anche l’Africa, in certe zone, avesse avuto un suo Rinascimento, e molti secoli prima del nostro. Per loro era arte negra “sia la scultura africana che quella dei popoli dell’Oceania, in particolare della Polinesia”[7]. Più interessante è capire come buona parte di ciò che l’Occidente ha prodotto negli ultimi secoli, anche d’ottimo, sembra nascere da una nevrosi che si radica nella sua stessa coscienza, permettendogli di comprendere le culture altrui solo quando le ha ormai alienate e assimilate secondo i propri gusti. L’Occidente è riuscito meglio nella sua opera di riduzione ad unicum con civiltà persino raffinate, ma non dotate di cultura scritta: è sufficiente pensare a come sono stati annullati i nativi americani e gli aborigeni australiani. Dove esisteva una cultura scritta, come in Cina o in India, il rapporto è stato più dialettico. Dove non c’è scrittura, è molto più istintivo convincersi che niente è mutato dall’inizio dei tempi e che gli uomini di quel gruppo etnico sono rimasti gli stessi da sempre, come usi e costumi. È stata l’antropologia, disciplina occidentale per eccellenza, a interrogarsi sui gruppi umani incontrati e a fissare, proprio attraverso la scrittura e altri strumenti, le testimonianze visive, orali e documentarie della loro storia. Non scritta, eppure avvenuta. Semmai è proprio stato l’Occidente, con le sue convinzioni sviluppiste e progressiste, a spegnere definitivamente l’evoluzione di troppi popoli.

NOTE
[1] Traggo l’aneddoto da Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento, Feltrinelli 1994.
[2] Edward W. Said, Orientalismo, Feltrinelli 1999.
[3] Mario De Micheli, op. cit.
[4] Mario De Micheli, op. cit.
[5] Claude Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, Einaudi 2008.
[6] Mario De Micheli, op. cit.
[7] Mario De Micheli, op. cit.