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Capitalismo. Verso la fine?

di Umberto Bianchi - 04/10/2011

Crisi di un sistema. In questi giorni si fa un gran parlare di crisi. Sembra che un’ondata di panico e sfiducia generalizzata abbia travolto tutto e tutti: borse, mercati, operatori economici in genere e financo istituzioni governative. Tutti sembrano oramai essere impotenti di fronte al conto alla rovescia di una catastrofe annunciata dai sinistri prodromi dei recenti eventi di Grecia. Quegli stessi provvedimenti che tanto parevano ricalcare le orme di un tardivo ed insperato keynesismo e che, in una massiccia iniezione di denaro pubblico, in soccorso a quanto mai decotte istituzioni bancarie, vedevano la miracolosa panacea con tanta enfasi strombazzata, dai vari Obama e dai nostrani Tremonti, hanno dimostrato la propria natura meramente palliativa rispetto a quella che, più che essere una delle tante e fisiologiche crisi dello sviluppo economico, sembra invece essere una vera e propria crisi sistemica.

Storia di una crisi. Ma procediamo con ordine. Sin dalle sue prime fasi di sviluppo, l’economia capitalista conosce dei naturali momenti di crisi. L’incremento della produzione industriale, accompagnato dall’espansione dei commerci internazionali (come nel caso delle economie europee e nord americane, nel momento a cavallo del 19°e del 20° secolo) nell’alimentare la competitività tra i vari blocchi nazionali, determinano il progressivo aumento dell’instabilità valutaria e finanziaria, che sarà poi alla base di crisi come quelle del ’29 sino a concorrere pesantemente all’esplosione del Secondo conflitto mondiale. Qui a farla inizialmente da padrone sarà l’aspirazione anglo-francese a contenere ed a neutralizzare la spinta delle due potenze geoeconomiche allora emergenti sul proscenio mondiale e cioè: Germania, Italia. A partire dalla fine del Secondo conflitto mondiale, gli accordi di Bretton Woods che agganciavano l’intero sistema economico e finanziario mondiale al valore del dollaro e dell’oro, furono in grado di regalare un quindicennio di relativa stabilità economica poiché, con tutto il sistema di vincoli e barriere economiche di cui erano costituiti, riuscì a favorire la ripresa delle varie economie in un modo tale da portare ad un vertiginoso aumento dell’interscambio commerciale tra USA ed Europa. Ma, contrariamente a quanto si possa pensare, il nuovo equilibrio mondiale conoscerà un sempre maggior numero di momenti di crisi ed instabilità. Tanto per cominciare, nel 1971, sotto la presidenza di R. Nixon, le autorità monetarie americane sono costrette a sganciare il valore del dollaro da quello dell’oro, provocando de facto, la fine di Bretton Woods. Nel 1974-75 si verifica la più grave crisi economica del dopoguerra. Il repentino aumento del costo delle materie prime (idrocarburi in primis) genera un’inflazione spesso a due cifre, che brucia tutti gli sforzi di crescita del Terzo Mondo e destabilizza il contesto politico economico dell’Europa Occidentale. Nel 1982 Messico ed Argentina, in preda ad un’eccezionale crisi di liquidità, arrivano a sospendere i pagamenti dei rispettivi debiti esteri.Tutti questi eventi non possono però essere compresi se non si analizza l’intrinseca natura dei mutamenti dell’economia capitalista degli ultimi centoventi anni. Iniziamo con il dire anzitutto che il secolo XX e la parte sino ad ora trascorsa del XXI, sono caratterizzati da una marcata tendenza alla sovrapproduzione. Fattori questi che nelle economie industriali pre-produzionistiche del XIX  secolo sarebbero stati perfettamente superabili ma che, invece, i modelli fordisti e tayloristi successivamente adottati non avrebbero permesso di ovviare, se non attraverso la tendenza all’indebitamento sia interno che estero e ad un voluminoso aumento delle esportazioni quale valvola di sfogo per economie affette da crescite ipertrofiche, affiancate dall’affacciarsi della spirale inflattiva. L’adozione di misure economiche keynesiane quali la nazionalizzazione dei settori strategici della produzione industriale,  il controllo delle imprese e del commercio estero, altro non hanno fatto che portare ad un esponenziale aumento dell’inflazione e ad un forte rallentamento del commercio internazionale. Tutto questo però, a causa del parassitario ed inefficiente burocratismo con cui queste misure sono per lo più state recepite, determinato, tra l’altro, dalla tendenza dei partiti politici occidentali ad attingere a piene mani (ovverosia a fregarsi, sic!) a quelle risorse statali che, secondo i dettami del keynesismo, invece, sarebbero dovute servire a rifinanziare e rinvigorire la crescita delle singole economie nazionali. Corruzione, burocrazia ed inefficienza segneranno così la fine del keynesismo in Europa, portando invece alla disgraziata adozione delle politiche liberiste della “Lady di ferro” Tatcher e del suo omologo USA Reagan che costituiranno il classico salto “dalla padella alla brace”. Prima conseguenza di queste “sane” misure economiche, sarà  lo smantellamento di quei settori dell’apparato pubblico non considerati produttivi e quindi un’ondata di licenziamenti senza precedenti. All’insegna dell’ “esternalizzazione” invece, molti pubblici servizi saranno sub appaltati a privati, a detrimento delle tanto richieste esigenze di qualità ed efficienza. Gli Stati Uniti si dimostreranno, anche qui, all’avanguardia, arrivando all’assurdo di privatizzare i servizi carcerari e di subappaltare parte delle proprie missioni militari estere a vere e proprie agenzie mercenarie private, i famigerati “contractors”. Ma la mossa più micidiale si avrà con la trasformazione del debito pubblico in credito speculativo, attraverso la cosiddetta “titolarizzazione” verso singoli acquirenti, ma anche verso banche ed istituzioni finanziarie varie, trasformando in breve tempo tali crediti in titoli rischiosi e deprezzati. Il primo, clamoroso crac di Wall Street nel 1987 e la caduta delle casse di risparmio USA dell’89 testimoniano quanto sin qui detto. Questa politica continua anche negli anni 90 ma, l’instabilità finanziaria sembra annidarsi insidiosa tra le maglie di un’Europa Occidentale che con la caduta del Muro di Berlino, sperava nella fine dei propri problemi e della storia, così come preconizzato da F. Fukuyama. Il biennio 1992-1993 assiste ad una tale caduta di valore da parte di molte valute europee, tanto da portare l’allora Ministro del Tesoro Ciampi ad intraprendere una ancor più disastrosa svalutazione della lira di fronte al dollaro. Da allora avrà inizio una fase di strisciante recessione che non mollerà più il continente europeo, sino ai giorni nostri. In questa fase, a causa del pesante indebitamento  delle singole economie nazionali, sempre più pressante si farà l’esigenza di alleggerire i costi di produzione, con politiche di sviluppo della produttività, attraverso l’infame strumento delle delocalizzazioni. Cina ed India, oltre a tanti altri paesi del Terzo Mondo, diverranno la meta di coloro che desidereranno produrre a basso costo in loco e poi rivendere la propria merce nel Primo Mondo, realizzando così dei profitti astronomici. A dare la stura a tutta questa situazione saranno gli accordi Gatt che, attraverso l’istituzione del WTO, con l’Uruguay Round del 1994 ed il Doha Round del 2001, cercheranno di arrivare alla quasi completa liberalizzazione del commercio e dei servizi mondiali, dando così inizio alla fase più spinta della Globalizzazione economica. Con l’abolizione delle barriere protezionistiche le grandi economie occidentali, affette da sovrapproduzione potranno inondare dei propri prodotti tutte quelle realtà dalle economie più deboli, deprimendone o addirittura cancellandone qualsiasi velleità di autosufficienza economica. Tra il 1997 ed il 1998 le cosiddette “Tigri asiatiche” e cioè Malesia, Singapore, Indonesia, ma anche il Giappone, lanciate in una corsa apparentemente inarrestabile, subiranno un primo pesante scossone alle proprie economie. “Qualcosa” inizia a scricchiolare in quello che sembrava un meccanismo perfettamente oliato e collaudato. All’indomani del nuovo millennio grandi masse di capitali vengono spinte sul settore informatico, ma ben presto tale scelta si rivelerà fallace, spingendo alla speculazione sui “subprime”, cioè su quei titoli-mondezza rappresentati da mutui immobiliari a basso costo che, di lì a poco si svaluteranno scatenando una crisi finanziaria che dura tuttora.

Natura di una crisi. La differenza che marca profondamente questa ultima crisi è che, anzitutto, rispetto alle precedenti (eccezion fatta per quella petrolifera degli anni 70) è di una durata fuori del comune. Non solo. Le precedenti crisi sono state tutte caratterizzate dalla spirale dell’inflazione a una o più cifre, ora invece è sostituita da una recessione e da una sfiducia generalizzata dei mercati che indeboliscono il sistema bancario mondiale, paralizzandone il credito. Alla base di tale generalizzata sfiducia stanno i dubbi sulla veridicità degli attivi delle stesse banche, su patrimoni immobiliari svalutati e deprezzati e su tanto conclamati attivi finanziari, dietro cui si nasconde un’intossicazione da debito. Il fatto è che il capitalismo “di stato” liberale non può funzionare senza un forte sistema creditizio, in grado di garantire quei flussi di capitale senza i quali si va verso la paralisi produttiva.  La stessa frenetica competizione per chi possiede maggiori garanzie sui propri depositi bancari, rivela una disperata ricerca di fondi. E qui siamo al nodo del problema. L’intero sistema economico è oggi arroccato su una terapia del debito che comincia a non funzionare più.  Pensare di uscire dalla crisi rifinanziando le banche, cioè le teste di ponte di quella speculazione finanziaria oramai fuori controllo, per editto e non certo per arbitrio, è quanto di più sciocco ed illusorio si possa fare. Illusorio è riattivare il fondo salva-stati per l’UE riguardo al problema Grecia, quanto le generose iniezioni di liquido concesse da Obama alla Lehman Brothers ed altri ancora. Il fatto è che il capitalismo ha oramai dimostrato di essere arrivato ad una fase terminale del proprio ciclo vitale. Diciamo che, con l’andare del tempo, quel meccanismo che alimenta sé stesso tramite il debito ad interesse ha cominciato ad andare incontro sempre più frequentemente a crisi la cui intensità e forza destabilizzante va aumentando di volta in volta, in una irrefrenabile spirale da cui non sono affatto esenti altri aspetti della vicenda occidentale. L’erogare liquidità ad una banca in crisi, corrisponde né più né meno che al gettare una tanica di benzina su un incendio. “Sic stantibus rebus”, a questo punto rimangono due scenari: o si prende atto del fenomeno e vi si cerca di convivere, all’insegna di una precarietà ed una provvisorietà assoluti, lasciando alle varie consorterie finanziarie il tempo per arricchirsi ulteriormente, prima del “Big One” che prima o poi azzererà l’intero sistema.

Le alternative. A questo punto la domanda su uno scenario alternativo è d’uopo. Al di là delle analisi sulla Post Modernità dei vari Lyotard, Vattimo, Deleuze, Baumann e compagnia bella che, nel prefigurare l’idea di un pensiero aperto al molteplice, non riescono però a dare una risposta esaustiva ad un quesito epocale, rimane da un lato chi, come Slavoj Zizek, propone un ritorno alle suggestioni di un pensiero marxista, magari depurato e riattualizzato secondo le attuali dinamiche epocali. Dall’altro c’è chi del marxismo ripropone addirittura un ritorno all’insegna di richiami hegeliani di prima maniera, senza contare coloro che ne vorrebbero un ritorno all’insegna di Engels e dell’ “Anti-Duhring”, nella prospettiva di una definitiva eliminazione dello Stato. Ci si dimentica, però, che l’insufficienza di alcune delle categorie fondanti del pensiero marxista (quale quella di classe, per esempio…) fu già notata in epoca ben anteriore alla nostra da pensatori quali Proudhon, Bernstein o Sorel, per citarne solo alcuni. Il marxismo come scienza esatta della rivoluzione rientra oramai tra quelle categorie della metafisica occidentale le quali, proprio in quanto trasformate in inamovibili asserzioni di principi, sono divenute incapaci di farsi interpreti delle dinamiche del divenire storico. Lo Stato stesso costituisce la rappresentazione dell’assetto  comunitario di un popolo, di cui sottolinea la complessità ed il radicamento spaziotemporale. Quindi più che di abolizione dello Stato, bisognerebbe parlare di un suo diverso assetto. Permane invece una scuola di pensiero costituita da Clifford Hugh Douglas, Silvio Gesell, Ezra Pound, Domenico De Simone, Giacinto Auriti ed altri ancora, che identificano nella tassazione sull’emissione valutaria e sui redditi finanziari, la soluzione ottimale al problema dell’economia. Diciamo allora, che sarebbe già sufficiente iniziare partendo dalla proposta-chock di non pagare più a banche e mediatori finanziari gli interessi sul debito pubblico, sino al raggiungimento di un suo saldo attivo, accompagnata dalla proposta di nazionalizzare le varie Banche Centrali e dall’idea di imporre una tassa sul circolante da cui sarebbero esenti i cittadini, (ma non le banche e le istituzioni finanziarie) per calmare le eccessive fluttuazioni della speculazione finanziaria. La proposta di una totale revisione in senso restrittivo degli accordi GATT, costituirebbe un ulteriore passo in avanti. Va osservato, però, che i tempi per esercitare una simile azione su vari fronti sono, per così dire, ristretti. Quello che dovrebbe essere il fronte di opposizione alla Globalizzazione altro non è che  un coacervo di gruppi e gruppetti tra loro slegati e lontani dal possedere qualunque capacità di operare assieme, quale risultato di una comune determinazione strategica. Ed allora rimane l’alternativa della caduta “motu propriu” del capitalismo e della fine dell’Occidente. Una fine che potrebbe benissimo non essere traumatica o repentina, in quanto frutto di quella inusitata capacità alla contraddizione che l’Occidente ha saputo già mostrare nei secoli. Un vero e proprio “cambiamento di stato”, che potrebbe portare alla nascita di nuove idee e nuove modalità di agire, al di là quindi, degli attuali logori criteri di interpretazione della realtà.