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Steve Jobs, Wu Ming, Antonio Pennacchi e… altre storie

di Graziano Lanzidei - 11/10/2011

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A me i Wu Ming piacevano. Q è un bel libro, un’affascinante sfida epistolare che racconta le vicende degli anabattisti, vittime della Riforma e della Controriforma. Un po’ meno 54, è discreto invece Asce di guerra, almeno per chi come me si aspettava, da sinistra, una frustata all’immagine edulcorata della Resistenza. I romanzi solisti – Wu Ming 1, Wu Ming 2, Wu Ming 4 – non mi sono piaciuti nemmeno un po’. Sarà che i fabolous four – da quando è uscito Wu Ming 3, sono rimasti in quattro, a dispetto della numerazione – da soli perdono un po’ di smalto, come se non riuscissero a ridare la stessa complessità agli scritti. Non so come lavorano, perché la loro scrittura collettiva – ma il discorso è valido in generale – è ammantata dal segreto un po’ come la ricetta della Coca Cola. Ma da un po’, dicevo, i fabolous four della narrativa collettiva italiana hanno perso un po’ di quello smalto che in passato ne era valsa la nomina a enfant terrible.

Ultima, rumorosissima, creazione di rilievo è il New Italian Epic. Da tempo la letteratura italiana aveva bisogno di novità e loro, volenti o nolenti, sono riusciti a spostare il dibattito teorico. Qualcuno potrà dire che si tratta di spostamento artificiale, che di fatto hanno inventato una teoria estetica ex post, che non c’è niente di avanguardistico nel sottolineare i caratteri comuni di oggetti narrativi non identificati aka romanzi, docu-romanzi e quant’altro. Mi piace pensare che la colpa sia stata, per una buona parte, di Antonio Pennacchi. Il premio Strega 2010 ha dimostrato come l’epica, l’epopea, il romanzo storico o quello che vi pare a voi, non devono necessariamente essere ispirate da fatti chissà quanto lontani sull’asse diatopico o diacronico. Ci sono tanti fatti, anche relativamente recenti, tutti avvenuti in Italia e in territori vicini a chi scrive, che possono essere d’ispirazione, fornire materiale letterario e metaletterario e metastorico e metaquellochevvepare. Perché andare a cercare qualcosa che non si conosce nemmeno alla perfezione? Ecco il limite di Manituana e di tutto quel filone letterario che attraverso l’America, sia del Nord o del Sud, vuol raccontare allegoricamente le questioni italiane. Non serve andare fin laggiù per raccontare le cose che abbiamo sotto gli occhi, ha dimostrato e ricordato Pennacchi. Punto e basta.

Non è possibile giudicare i Wu Ming soltanto dal punto di vista estetico-letterario. Perché chi ne ha seguito da vicino le gesta, come il sottoscritto, non può non riconoscere che, volontariamente o involontariamente, siano soliti prestare parecchia attenzione al marketing. Il loro pubblico è di nicchia – sinistra extraparlamentare o parlamentarista estrema – e i Wu Ming riescono a coccolarlo in maniere sempre nuove, affascinanti, alternative. Dai Disobbedienti fino agli Arditi del Popolo, non c’è un antro della sinistra ‘cattiva’ che non sia stato rivisitato, ristudiato o rivisto. Sempre con un occhio rivolto all’attualità, magari per analizzarla da un punto di vista diverso e insolito. Un passo sempre più in là di quel che pensa la massa. Segno di un forte spirito critico – che per carità va bene – ma che alla lunga, quando diventa sistematico, qualche dubbio lo suscita. Sempre sul pezzo insomma, per far parlare di sé.

E’ morto Steve Jobs, abbasso Steve Jobs.

Sono un accanito consumatore di prodotti Apple. Grazie a questi prodotti mi sono riappropriato del giusto rapporto persona-computer. Se devo scrivere un articolo: accendo il computer, apro il programma di videoscrittura, scrivo, salvo, spedisco via email e spengo il computer. Senza sapere una mazza di hardware, memoria, memoria virtuale, DDR e cazziammazzi. Tu compri un Mac e pensi a quel che devi fare, senza altri pensieri. Quando me lo disse il rivenditore autorizzato da cui l’ho comperato, pensai alla solita trovata pubblicitaria. Sono due anni che ho comprato un Mac e funziona come fosse il primo giorno. Forse per questo un po’ m’è dispiaciuto quando Steve Jobs non ce l’ha fatta. Forse per questo, quando vedo il suo volto, penso al genio che ha saputo coniugare tecnica, estetica e funzionalità. Se oggi i computer sono quel che sono, se nessuno ne può fare a meno, il merito è in particolar modo di Steve Jobs.

Non sto qui a ripetere per le millesima volta la sua biografia. Arriviamo alle conclusioni senza preamboli: Jobs non era un santo. Penso lo sapesse lui per primo. E trovo ridicola la condivisione postuma del suo discorso come se fosse la Bibbia, non mi piace la gente che s’è cambiata la foto del profilo di Facebook, non tollero quelli che la mela mozzicata – detta così mi ricorda un volgare coro da stadio – se la sono appiccicata un po’ ovunque. Ci mancano solo i tatuaggi, ma non posso escludere che qualcuno l’abbia già fatto. Per farla breve, non sopporto la beatificazione di Steve Jobs. Come non sopporto chi, specularmente e per gli stessi motivi di chi lo beatifica, è adesso pronto a depredare le sue invenzioni, ribaltandole di senso. Cercando di demonizzarlo ad ogni costo. E magari rovescia la mela, così come i satanisti rovesciano la croce. La Apple diventa le Bad Apples. Può esser satira questa? Parodia? Pastiche? C’è qualcosa di artistico o di estetico? No. E’ marketing, e pure di seconda mano.

I Wu Ming, che per tutta l’estate avevano parlato di libri, hanno avviato una campagna – due post in nemmeno 5 giorni – attraverso la quale prima hanno denunciato Apple e Amazon di sfruttare i lavoratori, riprendendo spunti altrui. Ci sono le pratiche antisindacali di Amazon come i suicidi nella fabbrica dove vengono fabbricati iPhone, iPad ecc. E fin qui, niente di male. Avrebbero potuto far di più, ma ognuno parla di quel che vuole. Poi, solo cinque giorni dopo, hanno partecipato alla campagna di Steve Workers e delle Bad Apples (le mele marce). Perché se Jobs significa ‘lavori’ allora Workers significa ‘lavoratori’. E rappresenta gli sfruttati di tutto il mondo, dal bambino che cuce i palloni in qualche sperduto sobborgo in Asia alla trentenne laureata statunitense costretta a lavorare nei call center. Tutto è diventato più chiaro. Da quel che dicono, sembra che questo Steve Workers sia il fratello piccolo di Luther Blisseth e il cugino di San Precario. Come se stessimo parlando di Barbie e Big Jim. Personaggi collettivi, intellettuali al grado estremo, pure un bel po’ provocatori, che hanno sempre il loro fascino sulla nicchia della sinistra extraparlamentare. Identità collettive, strutture virtuali, battaglie perse in partenza che garantiscono successo sì, ma solo d’immagine. Per rifare il verso a Jobs, è come un cloud della personalità. C’è un profilo remoto che ognuno carica sulla sua persona quando non ha il coraggio di dire o fare cose che pensa in maniera diretta. Duri e puri, grazie ad una maschera virtuale. Se gliel’avessero detto a Jobs, chissà che si sarebbe inventato. Ti firmi San Precario o Luther Blisseth e passa la paura. Come se io mi chiamo Lanzidei e qualcuno, quando morirò, si inventa Graziano Lanzidiavoli. Ecco, se dovesse mai accadere, tirategli una zampata ai coglioni da parte mia.

Siamo alle solite. Si cerca di parlare dell’Italia passando, in questo caso, per gli Stati Uniti. E si tenta di fare quest’operazione quando gli argomenti d’attualità lo consentono. Come se Steve Jobs fosse vissuto un solo giorno, come se la Apple non fosse già un colosso. Come se in Italia non avessimo altre cose, altrettanto gravi, a cui pensare. Nei giorni in cui il co-inventore della Apple esalava l’ultimo respiro, a Barletta quattro donne sfruttate morivano per il crollo di una palazzina pericolante. Morti bianche, una dopo l’altra, un’eccidio sotto gli occhi di tutti a cui in troppi, al momento, riservano solo trascuratezza e menefreghismo. I Wu Ming hanno preferito accodarsi al carro dello sfruttamento dei lavoratori negli States e in Cina – come se fosse una novità e come se coinvolgesse solo imprese come Amazon e Apple –, proprio quando poteva fare più rumore, comportando un ritorno di immagine. Non c’è nemmeno il peso di chi deve portare un messaggio terribile al Mondo. Che la Cina e gli States non siano il paradiso dei lavoratori era risaputo. Fa piacere che la notizia si diffonda.

Non sarebbe stato più corretto spendere qualche riga sui morti nostrani?

Perché altrimenti viene il sospetto che si sia passati dall’internazionalismo operaio alla paraculaggine.