A coloro cui piace fare delle analogie con il sessantotto e gli anni settanta, consiglio anche di non dimenticare che in quegli anni alla guida dell’organismo semiclandestino “Commissione Quaranta” c’era un criminale di nome Henry Kissinger, e a distanza di tanti anni non riuscire a collegare le “influenze” di certe politiche criminali sui “desideri” dei “giovvani”, come pure sulle scelte di lotta, è quantomeno sospetto.
La manifestazione d’impotenza di sabato ha messo in luce il carattere strumentale di certe posizioni alternative emerse dalla degenerazione dei partiti cosiddetti comunisti, a loro volta nati dalla degenerazione del PCI.
Questi “alternativi” hanno evitato, per ragioni d’opportunità dettate da un entrismo che vorrebbe inserire il discorso alternativo all’interno dello stesso orizzonte contro il quale dicono di battersi, di cogliere nell’essenza la strumentalità dell’obiettivo politico che stava alla base della manifestazione, rinunciando a contrapporsi a questa area reazionaria.
Tale rinuncia è figlia dell’accanimento irresistibile a riaffermare e a preservare il mito dell’unità dei partiti cosiddetti estremi, nonostante sia noto a tutti la mancanza di coerenza tra le varie posizioni.
Il mito dell’unità, sebbene vi sia chi lo neghi o addirittura se ne distanzi risulta, ad un’attenta analisi, essere il motore principale che mantiene indissolubilmente unito il fronte della reazione.
Determinate scelte politiche suicide sono spiegabili se inserite in un quadro più ampio, andando a cogliere il compito che i vari soggetti in campo svolgono attraverso la politica di liquidazione di ogni possibile linea antimperialista che colleghi le cause provenienti dalla strategia criminale degli Usa agli effetti sugli stati spogliati delle loro prerogative nazionali e, quindi, delle conseguenze sulla formazione sociale emersa da questa politica di sudditanza.
Il discorso sofistico valorizza l’esposizione delle masse a discapito dell’analisi politica, legittimando l’uso indiscriminato della forza reazionaria nel pretendere di contrastarla partecipandovi. Naturalmente il tutto si riduce in pratica all’alibi della guerra di posizione, sempre in nome della “rivoluzione, la quale giustifica sul piano pragmatico qualsiasi riformismo d’accatto.
Se i “desideri” abilmente fatti passare come “forza di cambiamento” in quanto non solo innocui, ma funzionali alla transizione criminale messa in atto (vedi la Libia e non solo), alla fine coincidono con la posizione ideale e politica degli “alternativi”, vuol dire che si vorrebbe far passare una strumentalità soggettiva per una politica oggettiva.
Stare dalla parte delle “masse” non significa cadere nella trappola riservata alle “masse”, e soprattutto non portare altre persone all’ammasso.
In questi momenti di transizione stare dalla parte delle “masse”, quando si conoscono benissimo i meccanismi che sono stati messi in moto per consentire la grande affluenza mediatica, è stare dalla parte dei dominanti contro i dominati.
Avere paura di essere minoranza equivale ad ammettere di lavorare per la propria inconsistenza politica senza preoccuparsi degli effetti reazionari che tale scelta provoca.
Ancora adesso, con grande piacere dei strateghi della manifestazione, la contrapposizione sarebbe tra professionisti della passeggiata romana e coloro che gliela hanno rovinata.
Essendo le conseguenze all’altezza delle premesse è inutile che ci si affanni a fornire spiegazioni sulla tipologia della propria partecipazione.
Quando la farsa supera la tragedia i sentimenti soggettivi sono orpelli, quello che emerge è il dato di fatto, e in politica è ciò che fa la differenza.
Si può sempre scegliere di agitare le mani in alto come farfalle. Dicono funzioni di questi tempi e soprattutto ci si mette in sintonia con le masse.