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Per una nuova proposta politica

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 18/10/2011

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1) La crisi economica ha accentuato nel 2011 la decadenza istituzionale italiana: oggi non è sufficiente sostituire un governo con un altro, ma si deve rifondare un intero sistema, al fine di restituire alla politica il suo ruolo primario, il governo dello stato. Dinanzi ad un Berlusconi in declino, l’alternativa è Bersani, la politica attuale non offre altro. La sovranità degli stati europei è stata progressivamente erosa dalla UE, che, oltre ad avere espropriato gli stati della loro sovranità monetaria, ne ha assunto, tramite la BCE, la direzione economica. Il debito pubblico italiano (e di alcuni paesi europei), è sottoposto a manovre speculative internazionali che aggravano di giorno in giorno la condizione economica del paese. Il sostegno della BCE all’Italia comporta la adozione di politiche economiche incentrate sui tagli alla spesa sociale e inasprimenti della pressione fiscale: l’Italia nel prossimo futuro dovrà sacrificare una ingente percentuale delle proprie risorse al sostegno del debito. Saranno pertanto i creditori della BCE a imporre all’Italia la politica economica e il definitivo smantellamento dello stato sociale. La sovranità italiana è stata espropriata dai mercati finanziari e dalla BCE. L’Europa è vittima di assalti speculativi contro l’euro cui la UE, chiusa nel suo monetarismo assoluto, non ha saputo opporre valide strategie di difesa. Occorrono dunque nuove proposte politiche, dinanzi alla decadenza economica, politica e morale degli stati. Il novecento è ormai alle nostre spalle e le ideologie internazionaliste incentrate sulla lotta di classe tra borghesia e proletariato, non sono adeguate ad interpretare la realtà del XXI° secolo. La progressiva proletarizzazione dei ceti medi conduce è conseguenza della espulsione di masse di lavoratori dal processo produttivo. Una classe subalterna può ribellarsi ed imporre le proprie ragioni, nella misura in cui esercita un ruolo strategico nella struttura economica capitalista e, pertanto, è dotata di una consistente capacità contrastativa nei confronti della classe dominante. Le masse di disoccupati e/o precari, costituiscono solo “l’esercito industriale di riserva”, non in grado di reagire alla forza preponderante del capitalismo. Nuove soluzioni possono essere ricercate solo nell’ambito geopolitico. Nella attuale geopolitica infatti, si evidenzia una netta linea di demarcazione fra gli stati economicamente e politicamente preponderanti, in quanto detentori dei debiti sovrani, sfruttatori delle riserve di materie prime del terzo mondo, cui fanno riscontro altri stati schiacciati da un debito pubblico insolvibile, espropriati delle proprie risorse e della propria sovranità mediante la schiavitù del debito. Quindi, un processo di ribaltamento degli equilibri geopolitici esistenti, non potrà che coinvolgere gli stati vittime del neocolonialismo capitalista. Solo gli stati infatti, attraverso la rivendicazione della propria sovranità, possono mutare gli squilibri esistenti. Occorrerebbe quindi eliminare la schiavitù del debito mediante la fuoriuscita di molti paesi europei dall’euro o, imporre radicali riforme della UE, per ora impensabili. Il default degli stati debitori e la conseguente svalutazione del debito, porrebbe gli stati europei in grado di creare sviluppo economico. Nessuno stato potrebbe da solo porre in essere tali strategie. Pertanto bisognerebbe pervenire a vasti accordi tra gli stati strangolati dalla schiavitù del debito, dando luogo ad un nuovo internazionalismo che abbia come soggetti gli stati nazionali, da contrapporre alla globalizzazione finanziaria che rappresenta invece la morte degli stati stessi.


Invitandomi a parlare di politica, mi metti in difficoltà. Perché non so da che parte cominciare. E’ l’incipit che è difficile. Il saggio filosofico più difficile che esista, la  Scienza della Logica di Hegel, in confronto è come Topolino. Tutti cominciano dal Berlusca in fuga, inseguito da giudici vendicativi e partigiani (in genere di centro-sinistra moderata tipo “Repubblica”, da lui confusa con il comunismo staliniano) e da puttanelle ricattatrici. Come Riccardo III di Shakespeare, anche Berlusconi prima o poi dirà “Il mio regno per un aereo che mi porti alla Isla des lo Ricos nei Caraibi!”. Ma dopo non verrà il regno dei giustizieri (Di Pietro), dei poeti meridionali furbacchioni (Vendola), dei popolani emiliani che parlano come mangiano (Bersani), ma il regno del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Centrale Europea (BCE). La sotto-casta più corrotta di tutte, quella mediatico-giornalistica, dovrà cambiare scenario, ma essi sono esperti in rapidi mutamenti di scenografia.
Per chi rifiuta lo scenario manipolato, è molto difficile l’incipit. Tu stesso fai molte considerazioni macro-economiche. Sulla base del trinomio sfida della globalizzazione, giudizio dei mercati, ricatto del debito è assolutamente impossibile partire dalla decisione politica, non importa se di centro, destra o sinistra.
L’Italia è completamente commissionata dal duopolio Draghi-Napolitano. Un banchiere ed un ex-comunista riciclato in rappresentante degli interessi militari dell’impero americano e dei parametri oligarchici dei poteri finanziari. Dilettanti privi di fantasia come Orwell e Huxley non lo avrebbero mai immaginato. La fantascienza si diletta di imperi stellari, feudalesimi spaziali, vermi giganti, eccetera, ma nessun scrittore di fantascienza avrebbe mai potuto immaginare l’ex-comunista Napolitano e l’ex-fascista La Russa che baciano insieme la bandiera delle truppe NATO in Afganistan. Quelli che dicono che la realtà supera sempre la fantasia stanno sistematicamente al di sotto della realtà stessa.
Per discutere di politica ci vogliono due premesse: la sovranità e la rappresentanza. Su queste basi ci si può ovviamente dividere, ma queste basi devono essere presupposte. Se al loro posto si installa la cosiddetta governace, allora ogni discussione diventa inutile, e la parola passa alla casta degli economisti. Ma gli economisti non sono una specializzazione (come o medici, gli ingegneri, i giuristi, gli autisti, gli infermieri, eccetera). Sono un partito politico neo-liberale, ed insieme un sacerdozio della diseguaglianza allargata.  Essi non “rappresentano” se non gli interessi globali della riproduzione capitalistico-finanziaria complessiva, ed hanno occupato in pianta stabile gli schermi televisivi in prima serata, relegando i preti, i documentari ecologici, i film pornografici soft e la cosiddetta “cultura” in seconda e terza serata.
Se si potessero fare passare radicali riforme all’Unione Europea, non è dubbio che ciò sarebbe “realisticamente” una via preferibile e meno avventuristica dell’uscita dall’Euro e della sospensione del debito (o anche solo di una sua radicale rinegoziazione). Ma questo mi sembra per ora più impossibile dell’Utopia di Tommaso Moro, della Città del Sole di Tommaso Campanella e di tutti i progetto ultracomunisti dello scorso secolo. In Europa si è formata nell’ultimo trentennio una classe politica ed intellettuale, mediatica ed universitaria, pienamente e totalmente omologata al neoliberismo in economia, al neoliberalismo in politica e al Politicamente Corretto nella cultura. Questo coperchio asfissiante si è per ora richiuso, ed esso mi sembra realisticamente irriformabile. Si dirà che la rivoluzione è ancora più impensabile, mancando di soggetti potenzialmente interessati ad essa e soprattutto politicamente organizzabili. La situazione è in effetti strategicamente bloccata, ed allora sono costretto, se voglio evitare una poetica fuga in avanti, a tornare al piccolo cabotaggio italiano, che pure mi ripugna profondamente. Nella mia terza risposta analizzerò meglio il problema della cosiddetta “casta”, che oggi il concerto mediatico manipolatore individua come il problema centrale della società italiana. Anche se ripugnate, la “casta” non è il problema centrale della società italiana, come non lo è neppure la pur laida ed indifendibile persona di Berlusconi. Il problema fondamentale è un sistema produttivo asfittico, concepito negli anni cinquanta e sessanta per produzioni di massa di media intensità tecnologica, oggi prodotte ormai in tutto il mondo a costi minori. La torta è diminuita, le fette sono più piccole, e ci raccontano che tutti mangeremmo meglio e di più se la “casta” fosse colpita e se le spigole al ristorante del senato costassero venti euro anzichè il prezzo protetto di tre. Non c’è veramente limite alla babbioneria umana. Siamo sempre alla facile ricerca del “capro espiatorio”. In un sistema costruito sulla valorizzazione sistematica del lavoro e sulla valorizzazione del solo capitale finanziario è il lavoro italiano che deve essere svalorizzato, sia nella forma diretta (lavoro temporaneo, flessibile, precario e diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori sul posto di lavoro), sia nella forma indiretta (servizi erogati dal welfare). A questo punto, esaminiamo brevemente “a volo d’uccello” il mercato politico.
Il centro-destra ed io centro-sinistra ufficiali (considero Casini, Fini e Rutelli, ufficialmente “pontieri”, degli antiberlusconiani di centro-destra più che riserve elettorali del centro-sinistra) hanno smesso da tempo di essere formazioni politiche di rappresentanza per trasformarsi in strutture di governante del tutto eterodirette dal FMI e dalla BCE (la sfida della globalizzazione, il giudizio dei mercati, il vincolo del debito, eccetera). I cosiddetti “indignati” hanno cominciato a capirlo, ma il loro analfabetismo politico e progettuale è tale (venti anni di desertificazione della cultura politica non sono passati per nulla!) da non lasciare soverchie speranze. In Italia l’antiberlusconismo ha sedimentato una protesta legalitaria a base giudiziaria politicamente del tutto analfabeta.  Stante il carattere del Partito Democratico come partito di governance e non più di rappresentanza tutti i suoi fiancheggiatori, da Di Pietro a Vendola, da Diliberto a Ferrero, appaiono del tutto inutili. Essi si limitano a “rappresentare” non interessi sociali, ma clientele di estremisti anti-berlusconiani, il cui grido resta quello del comico Totò (“in galera ti voglio!”). Di Beppe Grillo non intendo neppure parlare. Ho recentemente assistito ad un suo show davanti al parlamento con ceste di cozze per indicare la casta che si attacca agli scogli. In quanto ai radicali (Pannella und Bonino) non li considero personalmente una forza politica, ma un elemento culturale di profonda corruzione civile ed umana, avanguardia di un individualismo estremo ed anomico. In parola semplici, ripugnanti.
So che presto verrà riproposto un “nuovo partito comunista”. Sebbene in esso siano impegnate persone che stimo (Domenico Losurdo, Andrea Catone), sono del tutto estraneo e questa prospettiva. Mettendo al centro la dicotomia Destra/Sinistra, esso non potrà che fare da stampella elettorale al Partito Democratico, fingendo che sia ancora un partito di rappresentanza popolare, e non di semplice governance finanziaria (FMI e BCE) e militare (USA e NATO). Dato il carattere fatuo e confusionario del cosiddetto “popolo di sinistra” (un’adunata non dei refrattari, ma dei babbioni politicamente corretti) esso non avrà neppure un seguito elettorale, perché gli sarà preferito Vendola, sponsorizzato dal “Manifesto” e dalla FIOM.
Inoltre, riproporre il partito comunista (con la triade Marx, Lenin e Gramsci) significa riproporre uno strumento concepito nel novecento per la rivoluzione incentrata sulla classe operaia, salariata e proletaria. Questa rivoluzione è già stata fatta nel novecento (Russia 1917, Cina 1949, eccetera) ed è fallita. Perché è fallita? Qui le risposte possono essere molte, ed hanno riempito e riempiono enormi biblioteche. La mia risposta, in estrema sintesi e concisione, è questa: il superamento del capitalismo (nel senso della hegeliana Aufhebung, superamento-conservazione delle conquiste precedenti) è del tutto legittimo, giusto e benefico, ma la base sociale operaia, salariata e proletaria è troppo ristretta, perché identifica il superamento del capitalismo con la proletarizzazione universale, necessariamente guidata da un partito dispotico e militarizzato.  In Russia essa ha dato luogo dopo 74 anni (1917-1991) ad una grandiosa controrivoluzione delle nuove classi medie sovietiche, che non hanno “restaurato” il vecchio zarismo o il vecchio capitalismo, ma hanno dato il potere ad una feroce oligarchia di padroni-ladri, per il momento messa in parte sotto controllo dall’ex-poliziotto comunista Putin sulla base del rilancio del vecchio e benemerito nazionalismo russo. In Cina lo stesso partito comunista ha abbandonato del tutto il progetto di proletarizzazione generale forzata di tipo ideologico (la linea maoista dal 1956 al 1976), per trasformarsi  in nuovo mandarinato nazionalista di tipo confuciano “rinnovato”. Sostenere che questo non è che un’evoluzione del comunismo (Losurdo, Sidoli, eccetera) è del tutto fuorviante. La definizione del comunismo non può passare da Marx a Pirandello (così è se vi pare), per cui ognuno arbitrariamente mette l’etichetta che vuole.
Mi sono accorto di non essere  minimamente riuscito a delineare una proposta politica. E’ vero. In estrema sintesi, il suo profilo non può che essere un nuovo anticapitalismo al di là della destra e della sinistra del tutto affrancato dal contenzioso identitario rabbioso che in genere viene associato all’anticapitalismo. Questa, ovviamente, non è ancora una proposta politica. E’ però impossibile una proposta politica seria senza che si siano prima realizzate le precondizioni culturali metapolitiche di essa.

2) La crisi ha comportato rilevanti mutamenti di carattere economico - sociale in Italia. Importanti mutamenti nella struttura economica e sociale del paese sono stati realizzati prima con l’introduzione del lavoro precario e flessibile, poi con l’abrogazione de facto del contratto collettivo di lavoro e dello statuto dei lavoratori, a cui sta subentrando il contratto aziendale e una accentuata flessibilità nella disciplina dei licenziamenti. Una nuova costituzione materiale si sta imponendo, abrogando de facto il vigente dettato costituzionale in materia giuslavoristica, previdenziale e assistenziale. Dinanzi a queste trasformazioni, che mutano profondamente il modello sociale italiano in senso liberista, non è possibile elaborare nuove proposte politiche di natura ideologica, che prospettino società ideali avulse dalla attuale dinamica dei rapporti economico sociali esistenti. Pertanto, occorre formulare proposte praticabili nell’ambito dell’attuale assetto economico e politico. Occorre dunque prospettare riforme non fini a sé stesse, o che rappresentino un argine moderato ad un capitalismo totalizzante, che mantengono inalterato però il modello liberale - individualista vigente, ma che inneschino un processo virtuoso di mutamento graduale della stessa logica interna alla struttura economica dominante. Processo poi suscettibile di evoluzioni, che accentuino la centralità del lavoro rispetto al capitale, che sviluppino la funzione sociale della produzione, rispetto all’accumulazione e al profitto: in una parola, l’affermazione del primato della politica rispetto all’economia. Preso atto della definitiva decadenza della piccola e media impresa e dell’artigianato, bisogna dunque riproporre un modello produttivo diffuso basato sulla cooperazione integrata tra le piccole e medie imprese, che valorizzi le risorse materiali e intellettuali, crei occupazione diffusa, in contrapposizione alla grande industria ormai in larga parte delocalizzate o fagocitata dalle multinazionali, o in irreversibile disfacimento. La produzione e la gestione diretta dei lavoratori cooperativi, potrà superare il dualismo tra imprenditori e salariali, ormai talmente squilibrato a favore dei primi, da rendere impraticabile la difesa dei diritti dei lavoratori. Una fitta rete diffusa sul territorio di imprese cooperative partecipate può produrre invece occupazione diffusa ed equilibrata redistribuzione del reddito, oltre a ridurre le disuguaglianze sociali oggi sempre più accentuate. Un tale sistema cooperativo può avere successo, solo se incentivato, protetto, disciplinato dalla supervisione degli organi dello stato. Altrimenti, fagocitato dalla concorrenza selvaggia dei grandi gruppi e/o dagli egoismi individuali e collettivi. Costatata inoltre la progressiva dissoluzione del welfare, è oggi impensabile e controproducente teorizzare uno stato distributore di risorse, che prescinda dalla partecipazione dei cittadini alla sua gestione. Le riforme strutturali possono avere una loro efficacia solo se generate dal basso, non come una mera concessione partorita da uno stato paternalista. La previdenza e l’assistenza dei lavoratori debbono pertanto essere gestite dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori associati, non nell’ambito privatistico, ma in enti di diritto pubblico. E’ infatti opportuno che lo stato sovrintenda alla gestione delle risorse destinate a previdenza ed assistenza, con funzioni perequative tra le categorie, onde impedire sia gli egoismi di corporazione, sia politiche di categoria in contrasto con gli interessi generali. Uno stato ha una sua valenza etica nella misura in cui sia formato, partecipato, gestito, dalla comunità dei cittadini che lo compongano.

Dalla tua domanda si capisce bene che tu intendi porre con forza il tema della centralità del lavoro umano nella società. Hai perfettamente ragione. Sono in molti oggi a parlare della necessità di rimettere il lavoro al centro della società (penso soltanto all’ottimo sociologo Luciano Gallino). E tuttavia, nella storia in genere si parla della centralità di qualcosa quando questa centralità è perduta. Al tempo del’’imperatore romano Augusto si parlava moltissimo di morale, e si cercava anche di imporla con leggi severissime, ma mai come allora la morale era sparita, distrutta dai modelli schiavistici di lusso ed arricchimento. Temo che la stessa cosa stia accadendo oggi con il lavoro e la sua centralità. Per dirla con Metastasio, la centralità del lavoro è come l’araba fenice: che ci sia, ciascuno lo dice/ dover stia, nessuno lo sa.
La società borghese-capitalistica si fondò simbolicamente sulla centralità del lavoro umano. Per Adam Smith il valore dei beni-merci era dato dal tempo di lavoro sociale medio necessario a produrle. Marx, che voleva rovesciare il mondo che Smith aveva giustificato (il capitalismo di mercato), accolse integralmente la teoria smithiana del valore-lavoro, e si limitò a coniugarla con la teoria dell’alienazione (seguo qui l’interpretazione di Lucio Colletti e Claudio Napoleoni). Quando l’ultimo Lukàcs, nella sua mirabile Ontologia dell’Essere Sociale, cercò di correggere la filosofia comunista ufficiale, il cosiddetto “materialismo dialettico”, mise il lavoro come modello (Vorbild) e forma originaria (Urform) di ogni possibile prassi umana. Il lavoro era visto non solo come mezzo di sussistenza, ma come forma di dignità. Il padre di Gesù di Nazareth, Giuseppe, era una falegname, e non si fa fatica a credere che anche suo figlio, prima di profetizzare e frustare i mercanti nel tempio, abbia imparato anche lui questo umile mestiere. Prima di profetizzare, Maometto aveva lavorato come umile cammelliere.
Tutto questo sembra oggi scomparso. Idioti falsamente utopisti hanno cantato le lodi di un comunismo del consumo automatizzato, in cui le macchine avrebbero sostituito gli uomini (tanto per non fare nomi, alludo al comunismo del desiderio di Negri-Hardt, idoli dei centri sociali e del marxismo universitario imperiale del passato decennio, oggi fortunatamente sprofondato nella vergogna). La polemica di estrema sinistra contro i cosiddetti “bottegai” e contro le virtù piccolo-borghesi del risparmio hanno caratterizzato l’orribile clima culturale post-sessantottino. Dal matrimonio gay all’eutanasia, da femminismo alla anti-caccia, dal meticciato all’abolizione della corrida, una nuova cultura post-borghese ha sostituito i valori fondati sulla dignità del lavoro.
Di chi la colpa? Ad un primo sguardo, sembrerebbe che la colpa sia stata degli avanguardisti urlatori dell’estrema sinistra, che nella mia quarta risposta definirò con Michel Houellebecq “masochisti astiosi”. Ma non è così. Il pesce puzza sempre dalla testa, non dalla coda. Bisogna cercare altrove, se si vuole alla fine capirci qualcosa.
Oggi Marx sembra tornato di moda. Ma non bisogna lasciarsi ingannare. La gran cassa mediatica, che per un ventennio aveva proclamato che era morto e sepolto, sembra riscoprirlo come potenziale “consulente della globalizzazione”, o più esattamente di una globalizzazione meno distruttiva per il lavoro umano. Inoltre, non c’è bisogno di essere keynesiani per sapere che se non si distribuiscono più salari sufficienti, non soltanto aumentano i rischi di disordini sociali, ma entra in crisi la domanda interna di beni e servizi. Personalmente, ricevo spesso telefonate di giornalisti che mi chiedono la ragione della “riscoperta di Marx”, ed in genere rispondo imbarazzato che si tratta sempre di riti autoreferenziali del sistema mediatico, che prima seppelliscono e poi risuscitano a comando, il che li lascia sempre un po’ interdetti, perché lo prendono come una maleducazione: “Ma come, ci interessiamo anche noi del suo oggetto di studio, e lei anziché ringraziarci ci dice cose del genere!”.
Discutiamo allora di lavoro. Il capitalismo è un processo dialettico, che sorge valorizzando il lavoro umano (nel doppio aspetto di lavoro imprenditoriale e di lavoro salariato), ma che nel suo processo di approfondimento tende verso il suo contrario, e cioè verso la valorizzazione del lavoro umano stesso. Si tratta non di una contraddizione dialettica, che richiede la logica di Hegel (e di Marx) e non quella di Kant ( e di Bobbio). Se ce ne impadroniamo, potremo forse capirci qualcosa.
A fianco della centralità del lavoro umano e della sua dignità sociale tu sembri particolarmente interessato a non riproporre progetti astratti di tipo ideologico. Fuori dai denti, credo che tu alluda indirettamente o al fascismo o al comunismo novecenteschi, a meno che tu  voglia intendere altri progetti come la teoria della decrescita, che personalmente ritengo astrattamente auspicabile ma concretamente inapplicabile (almeno nelle attuali condizioni geopolitiche mondiali, che rendo impossibile un reale coordinamento cosmopolitico). Sono d’accordo, ma il problema sta nell’esplicare apertamente il perché noi li consideriamo irriproponibili, al di là dei rispettivi giudizi di valore ideologici.
Per quanto riguarda il fascismo italiano, ammetto apertamente che il progetto delle corporazioni proprietarie mantiene un certo livello di plausibilità (Ugo Spirito, ma anche l’ultimo Giovanni Gentile). Tuttavia il fascismo lo ha rovinato con il colonialismo imperialistico, con la discriminazione razzistica anti-ebraica, con l’alleanza con Hitler, e finalmente con l’abolizione dei diritti liberali e delle libertà democratiche. Come si vede, è il “contorno storico” che ha reso illegittimo lo stesso nucleo razionale delle corporazioni proprietarie, senza contare il rifiuto assoluto dei capitalisti. Tutti i capi della destra, da Mussolini ad Almirante a Fini, hanno sempre alla fine scelto il capitalismo “reale” contro le utopie riformatrici “ideali”. Chi continua a fingere di non saperlo mi ricorda i “merli” che negli atrii delle stazioni continuano a cadere vittime dei furbacchioni del gioco delle tre carte.
Un discorso più complesso deve essere fatto per il comunismo. Personalmente, io continuo ad essere “comunista” nel senso di Marx, anche se non nel senso di Diliberto o Ferrero. Ma qui non interessa la mia autodichiarazione soggettiva, quanto la mia proposta di spiegazione del fallimento del comunismo storico. A differenza di chi lo liquida come totalitarismo burocratico inefficiente, io penso che il comunismo (intendo quello leniniano posteriore al 1917) abbia realmente cercato di fondare una società incentrata sui valori del lavoro. Ma il lavoro è stato pensato nella forma della proletarizzazione universale e della sottomissione dell’interna popolazione ad un partito-stato necessariamente dispotico. In questo modo è stato messo in piedi un progetto necessariamente artificiale (ed in quanto artificiale storicamente fragile) di ingegneria sociale autoritaria ed egualitaria sotto cupola geodesica protetta, cupola che una volta “bucata” dai modelli di vita capitalistici esterni ha fatto entrare una tsunami che ha travolto tutto in pochissimo tempo. Sono quindi d’accordo sull’essenziale, e cioè sulla improponibilità di una riproposizione di modelli novecenteschi a base ideologica.
Questo non significa, però, che si possano fare concessioni all’attuale moda della demonizzazione, stupidamente favorita da molti storici contemporaneisti, non è oggi che una copertura ideologica del neoliberalismo imperante, e questo anche quando questi storici si dichiarano fieramente di sinistra ed addirittura di estrema sinistra (ad esempio, per non fare nomi, Marco Revelli).
Storicamente parlando, il “riformismo possibile” è sempre stato identificato con la social-democrazia. Perché perseguire una rivoluzione impossibile quando esistono gli spazi ed i soggetti politici organizzati per un riformismo possibile? La scelta per un riformismo possibile portava ad una vittoria a tavolino. Ma oggi la “sfida della globalizzazione” rende paradossalmente più pensabile il comunismo della stessa socialdemocrazia, il cui progetto, costruito sulla base di un buon capitalismo industriale, è stato poi eroso dalla vittoria tennistica del capitale finanziario. Fra l’altro, è questo il fatto che ha fatto venire meno la dicotomia Destra/Sinistra, che infatti è continuamente reimposta dal sistema mediatico europeo come semplice protesi di manipolazione elettorale illusoria. E’ chiaro che oggi la cosiddetta socialdemocrazia è impensabile senza un ritorno guidato alla sovranità monetaria dello Stato nazionale, che è anch’essa impossibile senza un ritorno ad una forma di protezionismo ben temperato, non assoluto, certamente, ma con “un occhio di riguardo” per le produzioni locali e nazionali.
Gira gira, si  torna sempre allo stesso punto, e cioè ad un processo politico di deglobalizzazione. E’ evidente che non esiste una classe politica ed intellettuale, universitaria e mediatica, che lo possa non dico promuovere, ma anche solo concepire. Il vecchio cosmopolitismo finanziario della destra si è gloriosamente unito al vecchio internazionalismo proletario della sinistra, che fusi insieme rendono per ora impensabile la sola possibile uscita dalla crisi. Sulla base del ricatto del debito, della sfida della globalizzazione e del cosiddetto “giudizio dei mercati” nessuna via d’uscita è possibile. Se il riformismo fosse possibile sarebbe certamente preferibile alla rivoluzione, anche se più prosaico e meno romantico. Ma esso non mi sembra più possibile. Ecco perché la parola “rivoluzione” non deve farci paura.

3) I governi attuali sono affetti da crisi di endemica ingovernabilità, sia per vincoli esterni di carattere economico (UE, BCE, FMI) e politici (Nato), sia per vincoli interni, costituiti dagli interessi particolaristici di caste grandi e piccole. Il bene comune, l’interesse generale, valori che costituiscono il fondamento della politica intesa come governo della res publica, scompaiono dinanzi ad una miriade di egoismi corporativi autoreferenti, che impediscono sia un’azione politica dai vasti orizzonti, sia programmi di riforme a lungo termine. Il senso dello stato è un concetto ormai estraneo a questa società, perché è assente nella politica attuale qualsiasi rapporto comunitario di solidarietà sociale che prescinda dalla difesa di particolari interessi economici o rendite di posizione. E’ scomparso inoltre in Italia il concetto di nazione, proprio perché la grande massa dei cittadini si riconosce di fatto nei propri interessi particolari, sia individuali che collettivi. E’ sorta perfino una patria assurta a simbolo degli egoismi locali: la padania. Oggi è più che mai diffusa la protesta contro la casta privilegiata dei politici, ma questa gode di assurdi privilegi, quale corrispettivo dovuto per il mantenimento dell’Italia in posizione subalterna nell’ambito occidentale ed il dovuto appannaggio perché la politica non ostacoli i disegni della grande industria e della finanza, finalizzati al dominio del capitalismo assoluto con conseguente macelleria sociale. La casta dei politici, a sua volta si procura consenso attraverso clientelismo e protezione degli interessi e dei privilegi delle caste minori delle categorie. L’Italia è insomma un ordinamento gerarchico di carattere castale - feudale, gestito in nome e per conto dei poteri delle global class globalizzate. Appare evidente che non è possibile dunque formulare proposte politiche alternative senza far riferimento ai valori etici su cui una comunità si struttura. Esistono infatti categorie della produzione, delle professioni, dell’arte, del terziario, in quanto componenti della società e necessarie alla sussistenza della vita sociale comunitaria. Ed è quindi in base alla loro finzione sociale, del ruolo cioè assolto nella società civile, che la loro presenza acquista una dignità etica che lo stato deve riconoscere e disciplinare. Senza alcun riferimento alle virtù civiche, ogni società si dissolve nell’egoismo degli interessi destinati a fagocitarsi a vicenda. Non si può prospettare alcuna riforma strutturale della società, senza un movimento politico che prenda coscienza dell’agire politico come una missione di carattere etico, tesa alla realizzazione del bene comune come fondamento della comunità sociale.

La tua domanda invita a riflettere sul rapporto fra etica e politica, ribadendo una verità notissima, e cioè che senza un rapporto fra etica comunitaria e rappresentanza politica non c’è che la dissoluzione di ogni legame sociale. Tu sai che secondo la mia ricostruzione della storia della filosofia i cosiddetti “presocratici” non erano fisiologi (anche se così li interpretò Aristotele trecento anni dopo la loro comparsa), ma legislatori comunitari, e la natura non era che un metafora panteistica per indicare ciò che loro più premeva, il rapporto fra etica e politica nella polis. Ma è appunto perché approvo interamente questo oggetto di riflessione (il rapporto fra etica e politica, appunto) che sconsiglierei fermamente di cadere nella trappola che ci viene oggi proposta, quella delle “ruberie della casta”, capro espiatorio oggi delle oligarchie dominanti, che vorrebbero”snellirla”per potere ulteriormente indebolire il potere della rappresentanza., sia pure corrotta.     
Scrive Franco Berardi “Bifo” (cfr. “Il Manifesto”, 15/9/2011): “Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indignazione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d’Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte della casta mafiosa italiana. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo. Dovremo forse passare attraverso una insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca Centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari. Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, ed i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. E’ meglio saperlo”.
Vorrei commentare questo breve testo perché lo condivido nell’essenziale, al di là degli anarchismi del personaggio e dell’ipocrisia dell’organo di stampa che lo pubblica, organo dell’ala estremistica dei legalitari anti-berlusconiani.
Non intendo affatto negare l’esistenza della casta, e neppure sottovalutarla o scusarla. Essa mi fa schifo politicamente, moralmente ed esteticamente. Nessuna commedia greca può competere con Scajola, che  ha affermato che gli avevano comprato una casa a Roma con vista sul Colosseo senza che lui neppure lo sapesse. Ma cerchiamone la genesi storica strutturale. La casta è stata un costo fisiologico (un faux frais, in lingua francese) pagato a fine ottocento nel passaggio dal liberalismo censitario alla rappresentazione “democratica”. La cosiddetta “corruzione”, già conosciuta dagli antichi, è quindi endemica in Europa da più di un secolo. L’esperienza insegna che il richiamo dei valori non serve quasi a nulla, e che ci vuole la paura del boia. La classe politica di servizio (non importa se delle oligarchie economiche e/o dei lavoratori dipendenti) è come una donna di servizio la quale, oltre alla paga mensile, “fa la cresta” alla spesa per incrementare il suo reddito. Le danno cento euro per fare la spesa, lei compra per settanta, ed intasca trenta. Intasca trenta perché invidia il tenore di vita dei suoi padroni, e vorrebbe anche lei andare a Cortina anziché a Sharm el Sheik. Ma - mi dirai- le cose non sono così semplici. Errore, le cose sono esattamente così. Inutile scomodare la tradizione cattolica, la mancata rivoluzione protestante, il calvinismo assente, ed altre idiozie della tradizione azionista italiana.
Questi straccioni arricchiti sono dunque un costo aggiuntivo alla rappresentanza democratica moderna. Se pensiamo al tempo di Giolitti (1901-1912) oppure della DC (1946-1992), la casta c’era eccome, ma dava qualcosa ai suoi rappresentati. Pensiamo a De Gasperi in Abruzzo. La “serva” faceva la cresta alla spesa, ma almeno portava a casa la spesa, e riempiva il frigorifero. Oggi la novità è che continua a fare la cresta , ma non porta neppure più a casa la spesa.  E perché non porta più a casa la spesa? Ma è semplice! A causa della “sfida della globalizzazione”, del “giudizio dei mercati” e del “ricatto del debito” di cui abbiamo già ampiamente parlato nelle due risposte precedenti. La mafia chiede il “pizzo”, ma almeno fornisce la “protezione”. Oggi questi miserabili non sono più in grado di fornire alcuna protezione. La “pacchia” dei tempi DC-PSI-PCI è finita. Oggi le elezioni, in tempo di crisi economica e bipolarismo partitico, vengono quasi sempre automaticamente vinte dal partito di opposizione, destinato poi a “ruotare” a scadenza elettorale. In Italia c’è in più un parossismo ideologico identitario, ereditato dalla Prima Repubblica (l’antifascismo in assenza di fascismo e l’anticomunismo in assenza di comunismo), che rende le nostre genti preda di un babbionismo ideologico manipolato inesistente nel resto del modo, ma la somma totale non cambia.
Ho assistito in TV allo spettacolo surreale del popolo-babbione PCI-PD che applaudiva freneticamente Bersani quando faceva riferimento a Napolitano “difensore della Costituzione” (si tratta del garante dei mercati e dell’intervento anticostituzionale della NATO in Libia). Con una base elettorale del genere, non c’è nessun bisogno di un governo tecnico della Banca Centrale Europea. I lemming andranno da soli a buttarsi in mare seguendo il pifferaio di Hamelin. Trattandosi di masochisti astiosi, sarà facilissimo dirottare il loro odio non solo contro il laido puttaniere Berlusconi, ma anche contro le libere professioni, gli apparati amministrativi delle province, eccetera.
Ci aspettano quindi tempi duri. Tu sembri credere che sia impossibile svuotare la “casta”, o quantomeno dimagrirla. Non lo credo. Ho rilevato in precedenza che nelle democrazie elettorali capitalistiche, ancora di più nella fase del bipolarismo commissariato che svuota qualsiasi decisione politica sovrana, un settore di “casta” è fisiologico, perché serve da intermediazione parassitaria fra l’imprenditoria privata e le strutture pubbliche. Ma questa intermediazione può essere snellita, e lo può essere quando non può più erogare clientelismi, protezioni, nicchie di privilegio, false pensioni di invalidità, ospedali e scuole destinati a non essere mai messi in funzione, eccetera. Il problema è questo: quando questa casta parassitaria sarà snellita e dimagrita, quale sarà il nuovo capro espiatorio di cui avranno bisogno le oligarchie per dirottarci contro l’invidia sociale degli apparati “legalitari”?
La tragicommedia di Mani Pulite, l’operazione che ha visto il seppellimento della prima Repubblica DC-PSI, certamente corrotta ma anche erogatrice di welfare e di rappresentanza politica parzialmente sovrana (almeno in politica interna), ha messo al centro della sfera politica una categoria giudiziaria, l’obbligatorietà dell’azione penale. Ora, io non dubito neppure per un momento che l’obbligatorietà dell’azione penale sia una necessità per la convivenza comune.  Nego invece che possa diventare la categoria più importante e decisiva dell’azione politica sovrana. Che i “politici rubino” è per me un fatto statistico parzialmente scontato. Sono convinto che rubino anche in Islanda e Danimarca, almeno una parte di loro. La politica attira idealisti, non importa se rivoluzionari o riformisti, soltanto in tempi storici in cui sono aperte prospettive di sovranità, di destra e/o di sinistra. In tempi in cui la politica è unicamente una registrazione notarile del giudizio dei mercati o un supporto tecnico della sfida economica della globalizzazione è normale che essa attiri soprattutto il tipo umano del faccendiere o al massimo quello del ragioniere-contabile. Ci saranno sempre dei caroselli di automobili di elettori-tifosi dopo la vittoria elettorale, ma si tratta di percentuali minime, anche se superiori a quelle degli esploratori artici e dei serial killer. Il tipo umano dell’amministratore-ragioniere ruberà percentualmente poco, mentre il tipo umano del faccendiere ruberà percentualmente di più. Ma il faccendiere è indispensabile nella politica odierna, perché fa da mediatore tra l’imprenditoria privata e le strutture pubbliche. A Washington, ad esempio, la grande maggioranza dei politicanti è costituita da lobbysti ufficialmente registrati.
E’ realistica la prospettiva evocata da Franco “Bifo” Berardi? Io credo proprio di sì, anche se la babbioneria masochistica del popolo di sinistra, oggi riciclato in tifoseria politicamente corretta di matrimoni gay, immigrati e nomadi, renderà probabilmente superfluo il ricorso diretto ed un governo tecnico di tipo Marcegaglia-Montezemolo-Draghi. Quest’ultimo certamente porterebbe l’età pensionabile ad ottant’anni (dicendo che questo è utile per trovare lavoro ai “giovani”- d’altronde, un popolo interamente babbionizzato e ridotto a plebe tifosa non può rendersi conto della contraddizione), privatizzerebbe l’assistenza sanitaria incentivando le assicurazioni, moltiplicherebbe la flessibilità del lavoro (sempre per rispondere alle “sfide della globalizzazione”), liberalizzerebbe tassisti e libere professioni, promuoverebbe ulteriormente eutanasia, cremazione e centralità della coppia gay contro le vecchie ed obsolete normali famiglie, eccetera.. Di Pietro verrebbe tacitato con un paio di manette d’oro, e Vendola con la sponsorizzazione statale del matrimonio gay. Sarà del tutto inutile ricorrere ad un governo tecnico.
Come se ne esce? A mio avviso non se ne uscirà, finchè gli oppositori al capitalismo continueranno ad essere percepiti come “masochisti astiosi”, secondo una definizione di Michel Houellebecq con cui ho deciso di iniziare la mia quarta ed ultima risposta. Ma questo richiede un mutamento culturale tellurico, di cui per ora non si vendono che fragilissime tracce. Vale però la pena di rifletterci brevemente sopra.

4) Il concetto di rivoluzione ha subito nel XXI° secolo un capovolgimento a 360°. Si accreditano infatti come rivoluzionari fenomeni di rivolta innescati dall’imperialismo americano e occidentale, volti al ripristino dell’ordine capitalista e alla sostanziale perdita della sovranità nazionale. Così abbiamo assistito alla rivoluzione arancione in Ucraina, alle varie rivoluzioni arabe ecc… Il capitalismo, da reazionario è divenuto rivoluzionario, nella misura in cui estende il proprio dominio imperialista e diffonde il verbo della globalizzazione economica. L’evoluzione culturale, l’affrancamento dalla miseria materiale, l’aspirazione all’indipendenza dei popoli, capisaldi ideali delle ideologie del ‘900, sono stati soppiantati da ritorno al XIX° secolo, da una espansione capitalista che, pur mutata nelle sue forme, afferma il primato americano nel mondo. Allo stesso modo la Cina, quale potenza emergente, dismesso l’apparato ideologico maoista, estende il suo dominio, specie in Africa, con le armi della finanza e dell’accumulazione capitalista. E’ infatti proprio la crisi dell’occidente ad incrementare la spinta a questo nuovo imperialismo, spesso sotto mentite spoglie rivoluzionarie, volto alla appropriazione di materie prime a basso costo. La rivoluzione, così come intesa nel ‘900, è stata sottoposta ad una demonizzazione ideologica, quale fenomeno foriero di ordini tirannici e sistemi politici fallimentari, ormai fuori della storia, perché l’emancipazione progressiva della modernità è un valore portante dell’avvento della globalizzazione. Al contrario, è proprio il capitalismo ad espandere insieme all’imperialismo, la propria crisi e quindi, la schiavitù del debito, le guerre, l’impoverimento generalizzato dei popoli. In occidente, sono proprio i fenomeni congeniti allo sviluppo capitalista, quali l’espulsione delle masse dei lavoratori dal processo produttivo, la delocalizzazione industriale, la disoccupazione, la precarietà, a generare tensioni sociali da cui possono nascere i presupposti di nuovi fenomeni rivoluzionari, per ora solo futuribili. Ogni nuova proposta politica deve necessariamente prendere atto del fallimento dal capitalismo globalizzato. Quindi occorre far appello a proposte di riforma coinvolgano la società nel suo complesso e la rivendicazione del primato della decisione politica, conseguente al recupero della sovranità degli stati. Tuttavia il fenomeno rivoluzionario non può sorgere sulle ceneri dei fallimenti del vecchio ordine, né su nuove teorie economiche, né su dottrine politiche elaborate dagli intellettuali. Le rivoluzioni nascono da uno slancio vitale coinvolgente le masse nella prefigurazione di nuove realtà, che comportino, oltre  a nuovi ordinamenti politici, nuovi valori esistenziali che diano senso all’agire dell’uomo nella storia. La rivoluzione non può che consistere in una etica comunitaria già presente nella società e suscettibile di imporsi a livello politico. La rivoluzione è la proiezione di un mito unificante gli individui nelle loro esigenze materiali e nelle loro aspirazioni spirituali. Oggi, non si prospettano all’orizzonte nuove mitologie utopico - rivoluzionarie. Tuttavia gli elementi generatori sono presenti nella realtà; spetta a nuovi movimenti politici scoprirne la potenzialità rivoluzionaria ed elaborarne di conseguenza una sintesi sia ideale che politica.   

 Dal momento che questa è la quarta ed ultima domanda, vorrei approfittarne per “allargarmi” un po’ e riflettere sulla natura del nostro tempo. Scrive il romanziere Michel Houellebecq (cfr. La carta e il territorio, p. 333): “Più in generale, si viveva in un periodo ideologicamente strano, in cui in Europa Occidentale tutti sembravano persuasi che il capitalismo fosse condannato, e persino condannato a breve scadenza, che vivesse i suoi ultimissimi anni, senza che però i partiti dell’ultrasinistra riuscissero a sedurre al di là della loro clientela abituale di masochisti astiosi. Un velo di cenere sembrava essersi sparso sulle menti”.
Un’affermazione paradossale, ma ciò che non è paradossale non merita neppure un commento. Mi scuserai allora se in questa quarta risposta non scenderò nel merito nelle tue osservazioni, che peraltro condivido integralmente e che quindi non richiedono ulteriore elaborazione analitica, e mi limiterò a commentare questa affermazione di Houellebecq. Houellebecq, che pure è caduto in stupide affermazioni anti-islamiche, ha però avuto il merito inestimabile di capire che la società occidentale si è corrosa da sola al suoi interno, non riuscendo a porre limiti a quella “estensione del campo della lotta” che, partendo dalla competizione sessuale agonistica, si è estesa a tutti i campi della vita sociale, fino ad intaccare la base di tutto, l’amore stabile e fondato sul dono.
Il codice di questa società in cui viviamo può essere definito come un capitalismo interamente liberalizzato, oppure in modo più preciso una sorta di economicismo libertario. Questo codice produce necessariamente un “velo di cenere che si sparge sulle menti”, e che sottopone integralmente a sé i momenti che nel grande idealismo classico tedesco erano ancora pensati come autonomi da qualsiasi costrizione economico-politica, l’Arte, la Religione e la Filosofia (scritte in maiuscolo, ovviamente). L’economicismo libertario, lo dice il termine stesso, unisce creativamente due termini, l’economicismo (la sfida della globalizzazione, il vincolo del debito, il giudizio dei mercati, il rating eccetera) ed il libertarismo (l’uso delle droghe, il vietato vietare, la preferenza della convivenza gay al vecchio e noioso matrimonio “borghese”, la “coppia aperta”, la preferenza dei nomadi e dei migranti sui vecchi “bottegai” leghisti, il laicismo nichilistico, relativistico e positivistico contro il creazionismo del “disegno intelligente” del papa teologo bavarese Ratzinger, lo spargere le ceneri nella natura rispetto al tradizionale pasto dei vermi in casse chiuse, eccetera). Il codice dell’economicismo libertario è fortissimo, perché si innesta non tanto nella natura umana in generale, che invece potenzialmente è un criterio di ordine e misura (metron), quanto in una configurazione storica  della natura umana sedimentatasi e consolidatasi negli ultimi quattromila anni dopo il tramonto del modo di produzione comunitario.
L’anticapitalismo si è storicamente costituito fino ad oggi in Europa Occidentale in una forma antropologica che per brevità definirò del “masochismo astioso”. Non  fu sempre così. Al contrario, al principio non fu così, e bisogna ripercorrerne le avventure dialettiche.
L’illuminismo borghese settecentesco non poteva essere anti-capitalistico, per la ovvia e semplice ragione che il capitalismo non c’era ancora, e quindi la sue contraddizioni non potevano essere ancora visibili. Il comunismo settecentesco era un comunismo della ripartizione agraria, nemico del lusso, ed era filosoficamente fondato su una interpretazione egualitaria e livellatrice del diritto naturale e del contratto sociale. Dal momento che il modo di produzione capitalistico era ancora in una prima fase “astratta” (e quindi non “dialettica” e non “speculativa”- uso qui liberamente una terminologia tratta dalla logica dialettica di Hegel, che a mio avviso Marx non “rovescia” affatto, ma semplicemente applica alla illimitatezza della produzione capitalistica), non esisteva ancora nessun concorrente anti-capitalistico, ed il mondo poteva essere “unificato” in una unificazione teorica astratta (il tempo come progresso, lo spazio come materia, la morale kantiana dell’individuo e dell’imperativo categorico, il lavoro come tempo astratto di tempo di lavoro sociale medio, eccetera). La ragione per cui la filosofia capitalistica si è fermata all’illuminismo, e Kant e Voltaire sono gli ultimi filosofi “spendibili”, sta proprio nel fatto che questo stadio è precedente alla visibilità della contraddizione. Il primo pensiero implicitamente anti-capitalistico è la formulazione idealistica di Fichte, in cui l’Io è la metafora dell’attività umana universalisticamente concepita, non importa se nella vecchia forma feudale o nella nuova forma capitalistica. Marx riteneva in buona fede di essere “materialista”, ma si ingannava sulla natura del suo stesso pensiero, perché identificava il materialismo con l’ateismo, con il pensiero scientifico, con lo strutturalismo storico e con la prassi rivoluzionaria “materiale”. In realtà (cfr. Tesi su Feuerbach) egli intendeva l’oggetto materiale non come semplice “oggetto” (Objekt), ma come resistenza contrapposta all’azione del soggetto attivo (Gegestand), e questa è esattamente la stessa concezione della’idealismo di Fichte (trascuro qui le mediazioni determinate proposte da Hegel, perché manca lo spazio per analizzarle). Il suo comunismo non era che l’elaborazione idealistica della coscienza infelice borghese, così come era stata disegnata dallo stesso Hegel.
Il marxismo nacque quindi come pensiero coerentizzato nel ventennio 1875-1895, su committenza pressoché diretta della socialdemocrazia tedesca, e nacque come variante del positivismo di sinistra, variante che conservò per circa un secolo. Il positivismo è una filosofia profondamente masochista, perché il disprezzo verso la filosofia e la religione e l’apologia acritica di una “scienza” sradicata dai giudizi di valore non può che finire con il farsi del male da sola. L’intera eredità della tradizione trimillenaria della civiltà occidentale (in breve, dall’umanesimo di Omero in poi- segnalo in proposito un importante saggio di Luca Grecchi di prossima edizione) viene spacciato per conservatorismo ed arretratezza. La religione è ridotta a superstizione per babbioni creduloni, la filosofia a perdita di tempo adolescenziale, ed il massimo di paradosso è questo, che questa furia nichilistica annientatrice è spacciata per contributo alla liberazione socialista dell’uomo. Il carattere dialettico della coscienza infelice borghese, unico motore espressivo della totalità dello stesso pensiero di Marx, viene progressivamente sostituito da una sorta di organizzazione subalterna dell’invidia delle plebi, che in effetti Nietzsche seppe a suo modo diagnosticare in tempo, dandone però una versione regressiva ed ancora peggiore del “materialismo” socialdemocratico e poi comunista.
Questo non poteva far diventare realmente credibile la cultura socialista e poi comunista. E tuttavia, all’inizio, essa mostrò un carattere umanistico ed emancipatore (pensiamo a Rodolfo Mondolfo), che derivava da una interpretazione popolare dell’ideologia del progresso. Ben presto però all’interno del socialismo si impose la “guerra civile interborghese” promossa dagli intellettuali “progressisti”, che Sorel fu il primo a diagnosticare con relativa precisione. Questa guerra civile interborghese distrusse gli elementi umanistici precedenti di origine idealistica e romantica, mettendo in primo piano gli elementi avanguardistici, futuristici, distruttivi e nichilistici di questo gruppo sociale. Fino al Sessantotto questi elementi furono ancora moderati e tenuti a freno dalla cultura popolare dominante, ma a partire dal Sessantotto si scatenarono senza più freni (e si veda l’analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, che peraltro mi permetto di interpretare liberamente senza il loro permesso).
Si misero così le basi del codice dell’economicismo libertario, un codice di individualismo esasperato che viene incontro ad una nuova fase storica definibile come post-borghese e ultra-capitalistica. La grande maggioranza della gente “normale”, non importa se votante a sinistra, al centro o alla destra, non si riconosce assolutamente nei valori artistici, letterari, filosofici e culturali di questa “avanguardia” sociale, che viene promossa da oligarchie di accademisti, giornalisti, pseudo-intellettuali, eccetera, ed identifica la “sinistra” con queste oligarchie, non però nella variante allegra, bacchica ed orgiastica del laido Berlusconi, ma nella variante appunto dei masochisti astiosi. Dal momento che questi ultimi vogliono farci vergognare di consumare troppo, indicandoci i bambini africani con il pancino gonfio per la fame e giustificando i nomadi che rubano a man bassa (non tutti ovviamente, ma molti sì), e questo proprio quando il grande capitalismo finanziario abbandona il cosiddetto “consumismo” per l’austerità è del tutto ovvio che questo provochi un generalizzato rigetto.
Ho creduto di capire plasticamente questo quando ho visto gli esagitati militanti di Rifondazione comunista, guidati dal loro capo Ferrero con il megafono, che cercavano di far cadere innocenti ciclisti del cosiddetto Giro della Padania. In un momento di attacco generalizzato alle condizioni di vita della maggioranza degli italiani, essi facevano la sola cosa che erano capaci di fare, attizzare la guerra civile simbolica fra masse di destra e masse di sinistra su basi ideologiche. E’ del tutto chiaro che una nuova proposta politica non può essere fatta su questa base antropologica diffusa di babbioni masochisti ed astiosi. Da  adesso in poi, però, non possiamo che cercare di promuovere una cultura alternativa, che verrà soltanto da prove e riprove, e che la nostra generazione “scoppiata” probabilmente non vedrà mai.