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Libano: un Paese alla finestra

di Dagoberto Bellucci - 19/10/2011

Fonte: dagobertobellucci


 

Fin dall’inizio della cosiddetta “primavera araba” c’era chi, soprattutto tra gli ambienti vicini alla politica americana, ha guardato al Libano come al paese maggiormente a rischio rispetto ad altre nazioni dello scacchiere geopolitico-strategico vicino orientale.

Considerato, non a torto, uno dei paesi determinanti il futuro assetto dell’intera regione il piccolo Libano con i suoi poco più di quattro milioni di abitanti ha una storia che lo rendeva particolarmente interessante e lo predisponeva ad una ruolo di avanguardia, e assieme laboratorio politico, per le alchimie socio-politiche dei grandi mestatori della politica mondiale che amano soffiare sulle rivolte dei popoli ergo dirigerne i destini e stabilirne, mediante diktat, il futuro.

L’amministrazione americana di Barak Obama si era, in fondo, espressa in questo senso fin dall’inizio del suo mandato: impossibile non ricordare come il Presidente della prima potenza mondiale avesse cercato, con una certa dose di ipocrisia e non poche ‘avanche’s’, di intavolare fin dall’inizio una sorta di dialogo con il mondo arabo-musulmano parlando di “pagine” della storia da voltare e di un nuovo inizio nelle relazioni con le nazioni arabe dopo gli errori commessi in Irak, visitando – in un tour molto massmediaticamente seguito in terra d’Arabia – alcune delle principali capitali arabe e proclamando la nuova volontà statunitense di abbandonare i metodi aggressivi e la diplomazia delle bombe e dell’esportazione ‘democratica’ manu militari fino a quel momento, e per otto lunghi anni, utilizzati dal suo predecessore Bush.

Promesse ovviamente mancate e speranze vanificate fin dall’inizio: Obama, dopo aver illuso qualcuno tra i suoi sostenitori e particolarmente quella massa di afro-americani e portoricani statunitensi che avevano pesantemente influito sul voto risultando determinanti per la sua elezione alla Casa Bianca, ha dimostrato di non essere capace di alcuna svolta neanche in politica estera.

Gli Stati Uniti dunque non hanno mutato niente del loro linguaggio aggressivo né è cambiata minimamente la politica diplomatica fatta di minacce e complotti rivolti contro quelle nazioni considerate come “Stati-canaglia” da Washington: dalle aggressioni contro Irak e Afghanistan si è passati tranquillamente all’attacco sotto l’ombrello NATO e con la benedizione dell’ONU alla Libia, alle pressioni contro la Siria mantenendo un identico aggressivo atteggiamento nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran e senza modificare alcunché nei confronti dei palestinesi e del Libano.

Quando Obama ha provato a ‘calcare’ la mano criticando la politica di colonizzazione adottata dal governo di occupazione sionista di Nethanyahu è stato costretto a rendere pubbliche e rapide scuse alla lobby pro-sionista dell’AIPAC e a rinunciare a qualsiasi progetto di ridefinizione della sovranità nazionale palestinese.

Molte speranze tutte disattese da quello che, fino a questo momento, si è confermato come il più banale dei burattini in mano alla potente lobby filo-sionista del pianeta.

Contro il Libano l’amministrazione Obama ha continuato la sua politica di sedizione soprattutto da quando nel giugno scorso Hizb’Allah è tornato con i suoi alleati alla guida del paese dei cedri.

Il partito sciita libanese di Nasrallah è sotto il ricatto dell’infamante accusa lanciata contro quattro dei suoi esponenti di aver ordito il complotto che portò, il San Valentino di sei anni fa, all’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri ucciso in circostanze rimaste a tutt’oggi misteriose in un attentato del quale si è accusata immediatamente la Siria ed alcuni ufficiali libanesi pro-siriani salvo poi, per esclusive esigenze ‘tattiche’ di politica estera, provare ad addossare la colpa a Hizb’Allah.

Un gioco al massacro quello che si è consumato sull’affaire Hariri in Libano.

Un gioco al massacro eterodiretto dagli organismi sovra-nazionali delle Nazioni Unite che hanno avallato l’idea della creazione di un Tribunale Speciale per il Libano cercando di interferire pesantemente nella vita politica di uno Stato sovrano e minando qualunque tentativo di riconciliazione nazionale attraverso un organismo che, di fatto, si è dimostrato nient’altro che un semplice strumento nelle mani della politica estera statunitense.

L’Europa in quest’affare del TSL ha svolto la sua, affatto innocente, parte sostenendo in qualunque sede le richieste dell’ONU e mettendo a disposizione della cosiddetta “comunità internazionale” la sua diplomazia.

E’ notizia di queste ore quella che riportano i principali quotidiani libanesi secondo la quale il governo Mikati , sostenuto da Hizb’Allah e dai partiti del fronte nazionalista (coalizione eterogenea che sostiene il diritto della Resistenza Islamica, braccio armato del partito di Dio, di mantenere le armi nel sud del paese contro la minaccia israeliana), si rifiuterà di approvare il finanziamento della corte straordinaria del Tribunale internazionale dell’ONU.

Una notizia essenziale che misura in un certo qual modo la volontà del premier Mikati il quale si è dichiarato sovente disponibile ad assecondare tutte le richieste di questo organismo internazionale: la disputa in seno all’esecutivo di Beirut pare sia soltanto all’inizio.

Da un lato Hizb’Allah, dopo le accuse formulate contro quattro dei suoi esponenti di essere gli ideatori e gli autori materiali dell’assassinio Hariri, non intende cedere di un millimetro ed ha ribadito che non sarà tollerato alcun arresto di suoi dirigenti, dall’altro lato Mikati che aveva dato inizialmente le sue garanzie per una collaborazione ampia con i giudici del Tribunale.

L’incertezza regna sovrana: il vice-segretario del Partito di Dio, Sheick Naim Qassem, ha sostenuto che il governo andrà avanti anche in caso non si dovesse trovare un accordo sul finanziamento al TSL.

Il numero due di Hizb’Allah ha aggiunto, parlando alla tv “Al Manar”, che il voto dell’esecutivo sarà determinante per capire l’impegno del governo nel rispettare il sistema governativo e giudiziario libanese e dare un segnale forte al mondo occidentale.

Apparentemente il premier Mikati sembrerebbe intenzionato a mantenere le sue promesse ma la questione del finanziamento del TSL potrebbe diventare una mina vagante sulla quale l’intero esecutivo filo-siriano potrebbe cadere rovinosamente secondo molti analisti di politica libanese.

Mikati ha sostenuto che esistono accordi internazionali che il Libano deve mantenere: non votare il rifinanziamento del TSL sarebbe, a suo dire, contro producente e farebbe solamente il gioco di “Israele”.

Nel frattempo proprio dal TSL era arrivata non più di una settimana fa la notizia delle dimissioni del presidente , l’italiano Antonio Cassese, il quale ha comunicato di aver lasciato il suo posto per motivi di salute.

In uno scarno comunicato stampa Cassese aveva trasmesso all’opinione pubblica “la designazione di un nuovo presidente della Camera” decisione presa a seguito di uno stato di salute non all’altezza dei compiti. Esce di scena così uno dei principali fautori della legittimità del Tribunale internazionale sostituito dal neo-zelandese David Baragwanath.

Cassese era stato il primo giudice del Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Yugoslavia (TPIY) istituito all’Aja dall’ONU dal 1993 al 1997.

Secondo quanto riportava il comunicato stampa rimarrà ad esercitare le sue funzioni di giudice della Camera d’appello del TSL.

Un Tribunale quello istituito per il Libano dalle Nazioni Unite che nacque come idea immediatamente dopo la stagione delle autobombe e degli attentati della primavera 2005 e sull’onda emotiva dell’assassinio Hariri che vide scendere nelle piazze della capitale Beirut , nel cuore della capitale libanese, i partiti filo-occidentali del fronte di Bristol ( i sunniti della Corrente Futura, i maroniti delle Forze Libanesi e della Falange e – inizialmente – il Partito Socialprogressista di Waleed Jumblatt a rappresentanza della comunità drusa attualmente passato sul fronte filo-siriano).

Un’opposizione che si contraddistinse per la sua politica smaccatamente filo-americana sostenendo un governo di coalizione dopo il voto del 2005 al quale parteciparono anche Hizb’Allah ed ‘Amal (i due movimenti che rappresentano la comunità sciita usciti vincitori assoluti da quelle consultazioni dove fecero il pieno di voti nel sud e nella valle della Beka’a) che compresero l’esigenza tattica del momento di prendere parte ad un esecutivo di larghe intese per scongiurare il pericolo di un conflitto civile sul quale erano, all’epoca, in molti a soffiare.

Hizb’Allah ha sempre sostenuto la pista israeliana per l’affaire Hariri: secondo Nasrallah ed i suoi dietro la morte dell’ex premier ci sarebbe il Mossad e lo zampino dei sionisti sempre interessati a diffondere zizzania nei paesi limitrofi.

Una pista quella che porterebbe verso Tel Aviv che è sempre stata ignorata dai giudici del TSL.

 

Secondo il faziosissimo collegio giudicante dell’ONU il complotto contro l’ex primo ministro sunnita, multimiliardario legato a doppio filo all’Arabia Saudita, sarebbe nato all’interno del paese.

Una tesi che ha già prodotto un buco nell’acqua quando, inizialmente, voleva incastrare ad ogni costo alcuni ex ufficiali appartenenti ai servizi di sicurezza libanesi collegati a Damasco.

Una tesi che ha già prodotto errori giudiziari enormi mancando completamente bersaglio quando ha insistito ad additare il governo siriano quale responsabile del crimine del 14 febbraio 2005.

Hizb’Allah ed i partiti alleati di governo hanno giudicato fazioso l’operato del TSL fino a questo momento ritenendo l’istituzione internazionale di un organismo giudiziario un limite alla sovranità giuridico-istituzionale del paese.

Il problema TLS è approdato dunque all’esame del gabinetto dei Ministri: sarà dall’esito del braccio di ferro tra l’attuale premier Mikati e Hizb’Allah che dipenderanno le sorti dell’esecutivo libanese.

Il Libano rimane, come fin dall’inizio della ‘primavera araba’, un paese sospeso: una nazione alla finestra che osserva ciò che le accade intorno e , per ora, non intende assolutamente rischiare colpi di testa che potrebbero far rapidamente precipitare la situazione ed il fragilissimo equilibrio dei poteri così faticosamente raggiunto soltanto pochi mesi or sono.

Con la Siria messa a soqquadro dal terrorismo radicale salafita e dalle bande mercenarie pro-sioniste, con la Palestina che reclama i suoi diritti al Palazzo di Vetro a New York stretta sempre più tra l’incudine americana e il martello sionista e con i nuovi venti di rivolta che soffiano pesantemente anche in Giordania il paese dei cedri assume un basso profilo, evita brusche virate e con il suo governo mantiene la rotta che finora lo ha salvato da inutili “fermenti rivoluzionari” e quantomai inopportuni salti nel buio.