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Le Vie dei Canti riflettono le vie del cielo e attraversano, fresche di vita, tutta la Terra

di Francesco Lamendola - 03/11/2011




Il mio amico Ruggero, filosofo, filologo classico e valente psicoterapeuta, ha usato, una volta, un’espressione felicissima, e non solo in senso poetico, per definire lo stato d’animo di una persona che, uscita dal vortice nero della depressione e tuttora timorosa di lasciarsi andare a nuovi rapporti umani, non ha ancora ritrovato l’equilibrio perduto e non è in grado di esprimere tutto il proprio potenziale affettivo ed umano: disse che ci sarebbe voluto qualcosa, una esperienza, un incontro, che le facessero cantare il cuore.
Espressione felice non solo poeticamente, perché rende perfettamente il problema del’uomo moderno, almeno nelle società occidentali: la chiusura alla gioia esistenziale; il rintanarsi nel bunker della pretese certezze razionali; l’incapacità di mettersi in sintonia con l’armonia cosmica, che è musica e danza in primo luogo.
Secondo una certa tradizione orientale, tutta la vita dell’Universo è paragonabile al processo della respirazione: una inspirazione, una espirazione, poi un’altra inspirazione, e così via: un contrarsi e un distendersi, un restringersi e un allargarsi, un ritrarsi e un estendersi, come nel mantra sanscrito «Om» (o «Aum»), il più sacro di tutti, che sta alla base della antichissima pratica di meditazione dell’induismo.
Come il respiro cosmico, Om è il Brahman, Om è tutto l’Universo; è l’aprirsi e il ritirarsi della coscienza, della consapevolezza, della dimensione trascendente dell’essere umano; è la risposta affermativa, il saluto sacro, l’invito augurale, la preghiera devozionale, il segno della fusione mistica con l’Assoluto e il Non Manifestato.
Se l’universo è una danza cosmica e se ogni cosa ha origine da un sogno di Dio, allora è esistito anche un Tempo del Sogno nel quale ciascuno di noi era direttamente collegato alla divinità e alla dimensione superiore; e la nostra storia attuale non è che un riflesso, un ricordo di quel tempo fuori del tempo, quando noi eravamo altro da quello che siamo adesso, creature vaganti che si credono separate dal Tutto.
Ma il cielo è ancora percorso da un canto di vita, da una corrente di energia vibratoria che si riflette quaggiù, sulla Terra; e la Terra intera è percorsa, come fosse una rete di fiumi e di sorgenti, dal riflesso di quella musica celeste; e il compito che è stato dato all’uomo è quello di custodire, in comunione con tutte le altre creature viventi, la preziosa eredità di un cosmo vivo, dove anche l’ultimo filo d’erba e anche l’ultima pietra non sono oggetti inerti e inespressivi, ma sorgenti di insospettabili energie vitali.
Fra l‘uomo e il cielo, fra l’uomo e l’atto creatore della divinità, che ha dato origine al mondo, vi è il regno degli spiriti, degli antenati, delle forze invisibili, che fanno da tramite fra la dimensione superiore e quella inferiore e che percorrono i quattro punti cardinali, assicurando agli uomini la loro protezione e la loro assistenza e chiedendo ad essi, da parte loro, rispetto, fedeltà e amore per la tradizione, per il sapere originario che viene, sì, conferito mediante una apposita cerimonia di iniziazione da parte dello sciamano, ma che ogni singolo individuo deve continuare a cercare, pazientemente e coraggiosamente, per tutta la vita.
La vita è un viaggio solitario alla ricerca della verità: della verità interiore così come della verità esteriore; di quella verità che, raggiunta, svela come illusorie le nostre definizioni di “dentro” e “fuori”, perché Tutto è Uno; ricerca meno solitaria di quel che possa sembrare, peraltro, quand’anche debba svolgersi, materialmente, in luoghi aridi e disabitati, perché l’uomo, anche se lontano dai suoi simili, è sempre circondato da innumerevoli creature viventi che gli sono parenti ed amiche, perché condividono con lui lo stesso mistero, la stessa rete di forze spirituali, la stessa origine dall’atto creatore della divinità.
Ebbene, vi è un popolo che ha dato espressione compiuta a questa visione olistica dell’universo, e che l’ha saputa mettere in pratica mediante la tradizione del cammino consapevole, del cammino lungo le Vie dei Canti, ossia delle vie attraversate dal flusso energetico e spirituale che pervade l’intera creazione e che la anima e la vivifica con il canto cosmico.
Non si tratta di un popolo “evoluto”, nel senso che noi occidentali siamo soliti dare a questa parola, ma, anzi, di un popolo che, giudicato da un punto di vista puramente materiale, si trova forse al gradino più basso nella storia dell’umanità: gli aborigeni australiani.
I primi uomini bianchi che sbarcarono sulle coste della grande Isola Continente rimasero negativamente impressionati da quegli esseri solo apparentemente umani, sprovvisti di tutte quelle conoscenze e quelle tecniche che contraddistinguono, secondo loro, la creatura civile e la differenziano dai bruti; in breve, li giudicarono poco più che animali.
E come tali li trattarono.
Li cacciarono come fiere, li spinsero negli aridi deserti dell’interno, usurpando le terre migliori e recintandole per allevare le pecore; li misero in catene, li vendettero come schiavi, li uccisero come si fa nelle battute di caccia alla volpe; in alcuni casi li sterminarono fino all’ultimo uomo, donna e bambino, come avvenne con i miti e indifesi Tasmaniani, abitatori dell’isola posta a sud-est del continente.
Gli aborigeni, però, possedevano e possiedono un universo spirituale ricchissimo, che rivela un livello eccezionale di sensibilità ecologica, di consapevolezza olistica, di profondità introspettiva; un universo che avrebbe avuto moltissime cose da insegnare ai presuntuosi colonizzatori bianchi, se solo questi si fossero presi la briga di parlare con quegli uomini bruni, invece di trattarli come animali nocivi e di brandire il fucile ogni volta che li vedevano.
Gli aborigeni australiani non erano affatto gli ultimi arrivati: essi abitavano quella terra da almeno quarantamila anni e ciò ne fa il popolo più antico di cui la scienza moderna abbia attualmente conoscenza; e già questo dovrebbe far riflettere i nostri antropologi e scuotere un poco il loro paradigma evoluzionista, in base al quale i “moderni” sono sempre e comunque più progrediti degli antichi e quindi, risalendo indietro nel tempo, si dovrebbe trovare una umanità sempre meno evoluta, sempre più “primitiva”:.
Ma allora, come spiegare l’incredibile bellezza delle pitture rupestri di Altamira, di Lascaux, del Cañadon de las Pinturas e di mille altre località del Vecchio e del Nuovo Continente; come spiegare l’incredibile saggezza contenuta nella concezione olistica degli Aborigeni, unita alla straordinaria disinvoltura con cui essi abitavano in un ambiente naturale spesso difficile, orientandosi con sicurezza per centinaia di chilometri e perfino presentendo a distanza gli avvenimenti importanti del loro villaggio o della loro famiglia e mettendosi in cammino per farvi ritorno, senza che nessuno li avesse avvertiti?
Così Claretta Orlandi, viaggiatrice e appassionata ricercatrice della verità interiore, descrive l’universo degli aborigeni australiani, il suo significato, la sua filosofia (in: C. Orlandi, «Iniziazione al mondo degli Aborigeni» (Edizioni Mediterranee, Roma, 2003, pp. 41-44):

«Le tribù non avevano diviso il vasto territorio in estensioni, secondo il sistema dei bianchi. Spazi delineati da picchetti e reti metalliche, proprietà individuai; niente di tutto questo era previsto.
Il continente era semplicemente percorso da invisibili ‘Vie’.
Le VIE DEI CANTI.
Quando gli Aborigeni si insediarono in questa Isola-Continente, circa 40.000 ani fa, presero in consegna dagli Esseri Ancestrali un territorio vasto e ricco dove avrebbero visito a lungo e in armonia una dimensione metafisica. In quella dimensione , il simbolo della Croce si espandeva da Nord a Sud, da Est a Ovest. Vivificavano le quattro correnti che percorrevano lo spazio nelle stesse direzioni. Gli Antenati Totemici si erano posti al centro di queste correnti, avevano ricevuto le loro influenze, lavoravano con esse.  Sfruttando le vibrazioni non facevano altro che attirare tutte le Entità che erano sulla stessa lunghezza d’onda secondo la Legge delle ‘affinità’. Così, durante il loro cammino,  avevano tracciato per i discendenti piste e sentieri: una miriade di luoghi sacri più o meno importanti a seconda della magnificenza  del suolo dove gli Esseri soprannaturali avevano vissuto  ed infine si erano riposati per sempre.
Rispondendo ad un’energia superiore  s’intersecavano fra loro, correvano per centinaia di chilometri in ogni direzione, in modo ordinato e comprensibile a tutti, davano vita ad una composizione musicale sotto cieli avvolgenti come mantelli. Le Vie dei Canti riflettevano le vie del cielo e avvolgevano tutto il paese, cantandolo!
Gradito pascolo, quello delle Vie dei Canti che gli aborigeni percorrevano con regolarità, in piccoli gruppi o separatamente, per onorare l’operato dei mitici Antenati, per garantire l’ordine naturale di Baiame che aveva creato il mondo, per assicurare la sopravvivenza ma anche per mettersi alla prova.
Cantavano:“Per trovare il sentiero che non si può vedere, che nessuno tu può mostrare. […] Da solo devi cercare l’unico sentiero che esiste. Abbi fede in te stesso e nella via intrapresa. Ricorda che siamo tutti figli del Tempo del Sogno. Il nostri territorio va dal mare alle montagne, questo è scritto nell’Alcheringa. I confini sono segnati dalle linee dei canti. Tutte le tribù conoscono i loro versi e riconoscono su terreno gli alberi, i torrenti e le montagne che abitano”.
Non c’erano carte geografiche da consultare; perciò ogni tribù era responsabile di menzionare nelle mappe sonore i confini ed ogni particolare espressione che caratterizzava il suono.
“Nella buona stagione, se sei di mattino presto sotto l’albero di casuarina, dalle foglie squamose che raccolgono l’acqua, vedrai che […] dista molti passi dallo stagno dei giunchi […].
Procedendo nella direzione delle pietre sovrapposte […] è vicino alla grande caverna che termina lo spazio a noi affidato.”
Si cantavano così le coste sabbiose e coralline,  le insenature, i golfi, i promontori e ricchi di boschi e foreste che si affacciavano sull’oceano, gli innumerevoli corsi d’acqua, i laghi, le paludi, le savane che ospitavano una varietà incredibile di piante e di animali, la zona desertica centrale, territorio mistico per eccellenza.
“Volgi le spalle alla Zona in ombra e guarda la parte più alta di Molte teste. Va’ in quella direzione senza esitare; a metà del cammino troverai le pietre: t’indicheranno il punto esatto. Prepara lì il fuoco per la notte e attendi, lì potrai incontrare Nugeena e tutti i suoi profumi. Allora gli abitanti del cielo ti si faranno incontro.”
Le correnti di energia vitale si estendevano oltre la terra fino a coprire i vasti oceani, così che anche i pesci e le loro vie venivano cantati; le correnti calde erano la ‘Via’ delle balene delle testuggini, dei tonni e dei trepang.
Spesso, dopo un walkabout, si tornava al villaggio profondamente cambiati, in possesso di nuove consapevolezze e allora anche il nome si poteva cambiare, rendere chiaro a tutti il nuovo traguardo da raggiungere! La fiducia degli aborigeni non dipendeva tanto dalle capacità pratiche, ma soprattutto da quelle spirituali e dallo stretto legame con il mondo totemico che aveva tracciato le Vie dei Canti. Grazie a questo legame, le Entità del mondo vegetale e animale  che sopravvivevano, anche in caso di siccità,  ripagavano gli uomini concedendo loro l’intima conoscenza.
Unici punti concreti di riferimento erano cumuli di pietre  o incisioni di Totem sulle rocce. Spesso le incisioni si sovrapponevano, testimoniando che in quel luogo avevano dimorato molte tribù nel corso degli anni.
Qualche volta, sulle rocce si leggevano storie di avvenimenti eccezionali. Storie che riguardavano l’intera comunità o singoli individui.
“Lì era passato un mago della pioggia. Era visibile la lunga barba che arrivava fino a terra. Nella mano destra stringeva  una verga sottile. Sulla spalla un piccolo uccello.
Spesso il simbolismo era ricco ed articolato,» e a volte così complesso che solo i Saggi sapevano interpretarlo. Dal punto di vista pratico, le Vie dei Canti costituivano un punto valido di riferimento durante il walkabout. Il problema non era tanto quello di smarrirsi, quanto di soddisfare le necessità alimentari. Spesso i sentieri del Tempo del Sogno conducevano verso risorse naturali quali sorgenti e riserve d’acqua, erbe commestibili o tane di animali.
Così, per assicurare a tutti la sopravvivenza, ogni clan aveva la possibilità di seguire diverse Vie durante il periodo dell’anno, a seconda della stagione e del Totem di appartenenza. La conoscenza delle Vie veniva tramandata da canti e da cerimonie rituali, solo gli iniziati conoscevano il modo per percorrere e raggiungere quei luoghi preziosi.
Gli aborigeni, da sempre, avevano ritenuto che la loro più sacra responsabilità  fosse quella di andare sulle Vie degli Antenati Totemici per prendersi cura del vasto territorio.
Scelta religiosa o pratica, le tribù seguivano scrupolosamente le leggi che regolavano la vita degli uomini  del creato.»

Così potessimo anche noi moderni imparare, o re-imparare, a far cantare il nostro cuore; così potessimo rimetterci in sintonia con la Via dei Canti che percorre questa nostra Terra, che siamo soliti considerare e trattare solo come una cava da sfruttare indiscriminatamente, prelevando tutto ciò che ci occorre, e anche molto di quel che non ci occorrerebbe affatto, oppure come una discarica nella quale gettare alla rinfusa i rifiuti del nostro saccheggio.
Di contro alla visione vitale, spirituale, sacrale, dell’aborigeno australiano, la nostra visione fondata su un razionalismo spietato, su un utilitarismo selvaggio, su un materialismo distruttivo, non può che apparire povera e infantile, nel senso peggiore del termine.
Noi, uomini cosiddetti civili, abbiamo perduto quello stupore, quella meraviglia, quella gratitudine e soprattutto quel senso di responsabilità nei confronti del creato e di noi stessi, che caratterizza invece l’universo spirituale degli aborigeni australiani, questi uomini antichissimi e saggi che poco più di un secolo fa i nostri progenitori cacciavano e uccidevano come animali molesti.
Dobbiamo riscoprire la Via dei Canti; dobbiamo tornare a vedere il mondo, e noi stessi, non come il luogo della ragione strumentale, della sopraffazione da parte del più forte, dell’accumulo di beni inutili e dannosi, ma come manifestazioni di un grande e sapiente disegno, dove tutto è armonia, bellezza e gioia.
Dobbiamo ritrovare la nostra parte migliore e più profonda: quella affamata e assetata di Assoluto, che grida per essere ascoltata, come una donna nelle doglie del parto.