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È bella, la vita?

di Francesco Lamendola - 14/11/2011



A chiunque possieda una certa esperienza della realtà e sia dotato di uno sguardo non superficiale sulle cose, non può sfuggire il fatto che la vita si riveli come un fenomeno complesso, difficile, non di rado drammatico.
Ci sono genitori che devono confrontarsi con una malattia o con una menomazione incurabile del proprio figlio; ci sono uomini che devono fare i conti con gravi forme depressive delle loro donne, e donne che devono gestire il disadattamento e la disperazione, magari violenta, dei loro uomini; ci sono figli che si trovano sulle spalle la responsabilità di genitori anziani e non più autonomi, senza poter contare su nessuno per assisterli, e che convivono con angosce e preoccupazioni quotidiane; ci sono bambini che rimangono orfani da un momento all’altro o che, magari, cadono nelle grinfie di una matrigna (sembra la fiaba di Cenerentola, ma spesso la realtà supera la fantasia) la quale, dopo aver nascosto le fotografie della loro mamma e averli sottoposti a mille mortificazioni, li adibisce a servitori dei figli di secondo letto del loro padre, per poi espellerli di casa.
In breve, ci sono milioni di persone che si trovano a dover portare, in silenzio, una pesantissima croce sulle spalle; che non ricevono aiuto da nessuna parte, ma sovente, al contrario, critiche e incomprensioni, pur impegnandosi al massimo delle loro forze e della loro buona volontà; che vengono ripagati da coloro stessi per i quali si prodigano ogni giorno, con rimproveri, scenate, ricatti morali suscettibili di portare chiunque non sia fatto di ferro verso l’esaurimento nervoso, e che, nondimeno, devono continuare a lavorare, a preoccuparsi della famiglia, ad espletare tutti i doveri del buon cittadino: ricordarsi di pagare le bollette e compilare correttamente la dichiarazione dei redditi, far revisionare l’automobile e pagare l’assicurazione, far vaccinare il proprio cane e presentarsi puntualmente alle riunioni di condominio.
Tutto questo senza tralasciare di accompagnare i figli piccoli dal medico o dal dentista, o i figli grandi a prendere il treno per recarsi all’università; senza scordarsi di fare il pieno di benzina prima che l’ultimo sciopero dei distributori le lasci in panne per la strada, o di chiamare il tecnico della caldaia perché l’impianto di riscaldamento è andato in blocco in pieno inverno, o di chiamare l’idraulico perché la lavatrice non vuol saperne di funzionare; e cento altre cose del genere.
Preoccupazioni grandi e piccole; angosce profonde e spossanti, insieme a minuscoli, ma frequenti e fastidiosissimi inconvenienti; ansie e pensieri di portata drammatica e punture di spillo che non danno mai tregua, con l’aggiunta, magari, di un capoufficio tirannico, di un collega invidioso e maldicente, di un vicino di casa litigioso e insopportabile.
E non parliamo delle difficoltà economiche: il lavoro a rischio o l’impossibilità di trovarlo; il frigorifero vuoto e le bollette inevase, che si accumulano sul tavolo; gli alimenti da pagare alla moglie separata e ai bambini, quando non ci sono abbastanza soldi nemmeno per fare dei pasti decenti o per sostituire le scarpe vecchie, impossibili da risuolare…
Sorge perciò la domanda, specialmente quando si è più oberati, più pressati, e quando ci si sente quasi stritolati da un meccanismo tremendo, disumano, che non concede neppure un giorno di pace e di serenità: è bella, la vita?
Così, senza retorica sdolcinata, senza finzioni e ipocrisie; così, guardandosi dritti negli occhi, lealmente, onestamente, con spietata franchezza: possiamo dire che la vita sia bella, che sia bella in generale, per la grande maggioranza degli esseri umani?
Escludiamo pure, per amor di ipotesi, i ricchi, coloro che godono di ottima salute, coloro che non hanno né figli difficili, né genitori ammalati, e nemmeno un coniuge insopportabile: ammettiamo che tutti costoro siano in sostanza sollevati dalle cure, dalle tribolazioni, dalle fatiche del vivere quotidiano dell’umanità media; rimane la domanda: per tutti gli altri, per l’uomo e la donna qualsiasi, si può dire che la vita sia una cosa bella? Si può dire che sia un’avventura gioiosa, nella quale si viene largamente ricompensati per tutte le angustie e tutti i dolori?
E si badi che non abbiamo parlato dei casi estremi: non abbiamo parlato di malattie gravissime e dolorosissime; né di drogati e alcolizzati all’ultimo stadio; né di galantuomini ingiustamente accusati, distrutti nella reputazione e nell’onore, condannati e incarcerati in mezzo ad autentici delinquenti; né di uomini e donne che muoiono di fame o di lebbra, o sotto i bombardamenti della guerra, o di qualche malattia infettiva contratta nelle “favelas” o nelle “bidonville” del Terzo Mondo; e neppure di bambine di otto anni costrette a prostituirsi per sopravvivere e già ammalate di Aids, o di bambini di strada che vivono dormendo sul marciapiedi, che si procurano il necessario rapinando i negozi e che vengono braccati a morte come fossero delle bestie feroci.
Ci siamo invece limitati a considerare i casi più normali, più quotidiani, nella consapevolezza, però, che dietro la facciata del benessere apparente, o quanto meno di una vita non stretta nella morsa del bisogno economico, si annidano, nondimeno, innumerevoli situazioni di disagio, di sofferenza, di tensione, di infelicità, solitudine, abbandono e disperazione.
E allora, sinceramente: è bella, la vita?
Prima di tentare una risposta a questa domanda, dobbiamo fare un’osservazione preliminare, sul piano prettamente psicologico.
In genere, questo è un interrogativo che sorge nei momenti di maggiore difficoltà, di maggior fatica, quando ci si sente più provati e più fragili; non è una domanda che sorga, in linea di massima, quando si gode di pace, sicurezza, benessere materiale e, soprattutto, spirituale.
Ebbene, già questa sola considerazione dovrebbe metterci in guardia dall’avventurarci in una risposta affrettata, che risulterebbe inevitabilmente alterata da un particolare stato d’animo: quando, infatti, le nostre emozioni e i nostri pensieri sono maggiormente invischiati nella spirale della negatività, come potremmo possedere l’equilibrio e la serenità necessari per dare una risposta imparziale ed oggettiva?
Si potrebbe obiettare che il giudizio sulla bontà della vita scaturisce appunto dalla verità concreta delle cose, dalla realtà effettiva del vissuto, in tutta la loro urgenza e in tutta la loro immediatezza; ma, se così fosse, perché non considerare anche i momenti nei quali ci siamo sentiti bene, nei quali abbiamo goduto, nei quali abbiamo sfiorato quella condizione misteriosa e quasi inafferrabile che taluni chiamano felicità?
Se, invece, vogliamo dare una risposta non emotiva né contingente, e dunque sul piano della reale comprensione filosofica, allora dobbiamo distaccarci, in qualche misura, dalla contingenza del nostro aderire alla vita e considerarla, in un certo senso, dall’alto, o, quanto meno, in tutta la sua variegata complessità ed in tutta la sua inesauribile molteplicità.
E a chi ci obiettasse che non può giudicare la vita dall’alto colui che vi si trova immerso, a meno di cadere nell’astrazione e, quindi, nell’arbitrio, risponderemmo che, per quanto difficile, questo è appunto il compito del filosofo, secondo la definizione data da Platone nella «Repubblica»: è filosofo colui che sa vedere l’intero, mentre non lo è chi questo non sa fare.
La vita, dunque, va giudicata come un intero; e giudicarla nella sua interezza significa riconoscere in essa, accanto a momenti e situazioni di obiettiva, tremenda difficoltà e sofferenza, anche momenti e situazioni di benessere, di spensieratezza, nonché di intenso godimento fisico, intellettuale, spirituale.
La verità è che l’essere umano, mentre si abitua in pochissimo tempo alle situazioni favorevoli, considerandole “normali”, non riesce mai ad abituarsi a quelle negative, e ciò per un sano istinto di conservazione che lo spinge a cercare sempre il meglio, mai ad adattarsi al peggio o a considerarlo come “normale”.
Sempre, anche nei momenti più bui, c’è un filo di speranza, che ci tiene legati al domani; se quel filo si spezza, allora si precipita nella depressione, nella disperazione, nel suicidio morale (e, talvolta, anche in quello fisico).
Ora, proprio questo non adattarsi e non accettare come definitivo il male, pur subendone la potenza distruttiva, ma sempre tendere verso il bene dell’anima come alla sua dimora naturale, fa sì che gli esseri umani riescano, di norma, a risollevarsi dalle batoste più dure; ma produce anche l’effetto collaterale di indurli a “pretendere”, inconsciamente, il bene, e di sentirsi defraudati se esso tarda a venire e se le situazioni di difficoltà tendono a protrarsi oltre un certo limite.
Specialmente quando queste ultime si cronicizzano, come nel caso di malattie dolorose e irreversibili, dall’esito funesto, sia che esse ci colpiscano in prima persona, sia che colpiscano una persona a noi cara, sorgono in noi un orrore, un istinto di ribellione, che, in certi momenti di particolare e profondo scoraggiamento, ci portano a giudicare la vita come un male in se stessa.
Ma proprio questa rivolta istintiva contro il male sta a indicare che noi siamo fatti per la gioia e non per il dolore; e, di conseguenza, che la gioia deve realmente essere considerata come la condizione “normale” dell’esistenza, mentre il dolore come quella eccezionale, proprio come la sete deve essere considerata la condizione eccezionale e la possibilità di bere a piacimento, invece, come quella normale.
Opinare diversamente, significa assumersi l’onere di spiegare perché mai, nella natura umana, vi sia l’aspirazione alla gioia, qualora la gioia fosse un bene illusorio; spiegazione quanto mai ardua, a meno di immaginare una divinità malvagia che si diverte a ispirare nei viventi desideri impossibili e nel vederli poi soffrire e dibattersi nel vano inseguimento di essi.
Un’altra possibile obiezione è quella di chiedere perché mai noi saremmo stati fatti per la gioia, visto che, alla fine, l’ultima parola nella vita umana spetta alla morte. Rispondiamo che tutto sta a vedere come si considera la morte: se una fine o un principio; se un precipitare nel nulla, il tutto obliando, come dice Leopardi nel «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», oppure un passare verso il meglio, verso una condizione infinitamente più desiderabile di quella terrena, come afferma Platone nel «Fedone», per bocca di Socrate.
Ancora.
Noi siamo in grado di gustare la pienezza, perché esiste anche l’indigenza; la dolcezza del vivere, perché conosciamo, o sappiamo che sono sempre in agguato, anche i momenti di tristezza e di dolore; le gioie, perché esiste anche la sofferenza. Non vi sarebbe luce senza le tenebre, né calore senza il gelo, né fertilità senza ciò che è sterile. Non vi sarebbe salute, se non esistesse la malattia: non ve ne sarebbe il concetto, non la potremmo apprezzare in quanto tale, ma solamente darla per scontata, registrando indifferenti la sua presenza.
Le gioie più grandi, anzi, sono quelle che giungono come ricompensa di grandi fatiche e patimenti: la conquista di un’ardua vetta, per l’alpinista; la ritrovata libertà dopo una lunga prigionia; l’esultanza della vittoria, dopo l’amarezza della sconfitta.
È dolce ritornare a casa, quando si è provata la solitudine dell’esilio; è stupendo abbandonarsi all’abbraccio della persona amata, dopo che una lunga e sofferta incomprensione ci ha tenuti lontano da lei.
L’inguaribile pessimista insisterà, a questo punto, con un argomento quantitativo, come fa appunto Leopardi: se guardiamo indietro nella nostra vita, troviamo moltissimi giorni, mesi ed anni in cui abbiamo sofferto, ma solo rari ed effimeri momenti di felicità. E con ciò? Forse che, nella vita dello spirito, quello che conta è la durata? Quale persona davvero innamorata non darebbe dieci anni della propria vita, pur di stringere a sé l’oggetto della sua passione? Chi mai preferirebbe vivere cento anni di monotonia e solitudine, piuttosto che cinquanta, ma rischiarati da calorose amicizie, profonde gioie dell’anima, intensi palpiti d’amore?
Ma c’è dell’altro. Il male e il bene, dunque anche il bello e il brutto della vita, dipendono, in larghissima misura, da come noi li affrontiamo; dipende da noi, almeno in gran parte dei casi, forse addirittura sempre, trasformare il male in bene, la tristezza in letizia, il dolore in gioia: dipende da come noi ci poniamo di fronte ad essi, da come li viviamo, da come li elaboriamo.
Ecco, dopo giorni e giorni di pioggia incesdsante, di preoccupazioni, di tristezza, un raggio di sole ha squarciato le nuvole e ha riscaldato la terra; ed è cosa dolcissima, struggente, facendosi sull’uscio, accogliere in noi questa luce e questo calore, sentire la carezza del venticello tiepido sulla  pelle, respirare il profumo dei campi e dei giardini ancora umidi d’acqua.
E adesso, domandiamoci di nuovo: è o non è una cosa bella, la vita cui siamo stati chiamati?