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Esecuzioni a distanza

di Mario Grossi - 15/11/2011


Di guerra hanno scritto un po’ tutti. Dai manuali di strategia e tattica, ai memoriali, dalle esaltate (talvolta esaltanti) descrizioni dei reduci, alle depresse considerazioni dei disertori. Lettere dal fronte, lettere di condannati a morte, diari di ufficiali e semplici fantaccini, la materia non ha mai visto un tramonto, così come non tramonta mai la materia prima da cui tracimano irrefrenabili tutte queste pubblicazioni.

Da questa messe inesauribile si è poi condensata una serie di luoghi comuni sulla tempra da combattente dei vari Popoli.

A noi, ad esempio, è rimasto appiccicato addosso il nomignolo di “armata sagapò” che in greco sta per “armata ti amo”, prime parole che i nostri soldati impararono quando in Grecia sbarcarono negli anni Quaranta, a testimoniare la nostra scarsa dedizione alle battaglie di campo ed una propensione alle ben più piacevoli battaglie di letto. Dei soldati flaccidoni e sibaritici alla ricerca delle lusinghe dell’amore.

Ci piace vivere bene, lo sanno tutti: sole, pizza, mandolino.

Il soldato tedesco invece è quel blocco granitico di fasci di nervi e volontà che al massimo si strugge da lontano per una Lilì Marlene che occhieggia da sotto il lampione ma che disciplinatamente corre al fronte senza deflessioni. Replicato dalla furia samurai del giapponese in terra orientale.

Del milite statunitense che fu, non saprei bene cosa dire, rimando per questo a Malaparte e ai suoi verminosi romanzi e alla sterminata filmografia sul tema.

Ma di che cosa siano, all’interno del panorama militare e della guerra odierna, due figure cardine dell’esercito statunitense lo si può percepire in un breve, agile e coinvolgente volumetto edito da Adelphi in quella collana di testi lillipuziani che è la Biblioteca minima.

Sto parlando di Esecuzioni a distanza di William Langewiesche, un testo che raccoglie, in poco più di ottanta pagine, due profili di soldati dell’esercito americano ai tempi della guerra afghana.

L’autore è corrispondente dell’edizione americana di “Vanity Fair” e i suoi libri raccolgono inchieste e reportage dei più disparati argomenti.

Nel libro in questione, diviso esattamente a metà, si racconta la vita di un cecchino, qui nobilitato con il termine politically correct di tiratore scelto, un certo Russ Crane, uomo comune, dall’aspetto dimesso, grassoccio, con i baffi, sposato con figli che si scopre abile nel tiro e che racconta la sua storia a partire da questa scoperta.

L’addestramento, l’arruolamento nei marines, le dimissioni e i successivi incarichi, nella polizia di frontiera di un paesino del profondo Sud, nella Guardia nazionale come addestratore, delle esperienze di guerra prima in Iraq e poi in Afghanistan.

Il racconto culmina nella descrizione della sua prima uccisione, una donna psicologicamente labile e alcolizzata che si barrica in un’auto, armata e che minaccia di sparare ai poliziotti che la circondano e tentano di farla desistere. Russ entra in scena e da perfetto e addestrato tiratore con un solo colpo la fa fuori, colpendola con precisione dietro l’orecchio sinistro, assicurando l’immediato rilascio dei nervi e impedendole di esplodere un solo colpo. La successiva depressione, conseguenza anche di un’inchiesta per omicidio, lo porta alle dimissioni ma non a desistere, visto che si riarruolerà nei corpi scelti per missioni mirate in terra afghana.

Quello che mi ha colpito in tutta la prima parte del libro non è tanto la minuziosa descrizione dei preparativi del cecchino o le azioni di guerra chirurgica che a distanza compie, senza sprecare un colpo o quasi, né tantomeno gli stati d’animo, in cui fa solo talvolta capolino il rimorso ed il desiderio di smettere, quanto il substrato da cui Russ Crane attinge quella melmosa linfa vitale che gli permette con orgoglio di affermare l’importanza del suo lavoro.

Russ è il tipico uomo comune americano, l’uomo di quella che viene descritta come la provincia americana. La sua ideologia è farcita di orgoglio nazionalista, di velato razzismo, di ultrareligiosità, di sentimento misogino, di autostima per le sue capacità, di certezza incrollabile circa le sue buone ragioni e sulle ottime ragioni dell’America per le sue guerre che portano libertà e progresso in terre animali.

Per comprendere questo stato d’animo cito solo un piccolo non esaustivo ma emblematico passo del libro.

“Eravamo seduti in cucina. Su una targa appesa alla parete si leggeva, IL FUTURO E’ LUMINOSO COME LE PROMESSE DEL SIGNORE. Crane:”Al mondo ci sono il Bene e il Male. Per questo vogliamo tanto combattere dalla parte giusta. Se vuoi sapere come la penso, io credo esistano persone malvagie, e credo che Dio abbia mandato sulla Terra altre persone capaci di ucciderle, così che il mondo possa vivere in pace. Davide prima di diventare re era un pastorello. I Filistei avevano con loro un gigante, Golia. E il Signore disse a Davide:”Sono al tuo fianco. Vai, e battiti”. Davide obbedì. E Golia finì morto stecchito, come Elvis Presley. Davide era un pastore, un re, un fedele del Signore. Ma prima di tutto era un guerriero. Dio lo sa che abbiamo bisogno di soldati. I soldati rientrano nel suo disegno”.

“Dici sul serio?”.

“Io so che il Signore mi è stato vicino in battaglia, e mi ha aiutato”.

“Lo pensano anche i musulmani, quelli a cui sparavi”.

“Sì, può sembrare un paradosso. Ma Gesù il terzo giorno è risorto, mentre la tomba di Maometto è lì, se uno vuole la può visitare””.

Insomma una riedizione del “Gott mit uns” in salsa nazionalpopolare. Un pensiero basale, rettiliano.

Nella seconda parte del libro l’interesse si sposta su una figura ancora più ambigua della prima, nuova nello scenario bellico attuale.

In una non meglio specificata località vicino a Las Vegas, viene descritta la giornata lavorativa di un soldato. Un pilota a metà, una specie di marinaio d’acqua dolce in un lago con le sponde inaridite, un marinaio incagliato in una secca straniante.

La scena si svolge in un hangar, dove sono state piazzate delle cabine di pilotaggio a distanza. Il protagonista è un pilota di droni, quegli uccelli metallici volanti, simili ad aerei che non hanno equipaggio a bordo ma vengono pilotati da terra da un condottiero che agisce dietro una consolle. Svolgono azioni di spionaggio e di rilevamento ma possono anche essere armati con missili e compiere azioni cruente.

È questo il caso del pilota della storia che narra in prima persona la sua giornata di “lavoro”. Alienante per certi versi, visto che la cabina a terra è priva di qualsiasi contatto con la realtà, non subisce scossoni per le turbolenze, non può essere colpita ed il pilota non ha quindi nessun tipo di ansia circa la sua incolumità personale ma solo quella dovuta alla concentrazione che deve mettere nel suo lavoro per far volare il drone e per farlo rientrare sano e salvo, dopo la missione, a casa. È l’ansia di chi sa che ha per le mani un aggeggio costosissimo e che non vuole sprecare soldi della pubblica amministrazione. Tutto qui.

Per il resto passa il suo tempo tra ronzii di ventole e luci di led dei computer. È immerso nell’aria condizionata, sotto luci irreali che illuminano la scena, in una cabina insonorizzata.

Non sente gli odori della guerra, non si macchia di sangue nemico, non prova caldo, freddo, paura, non suda. Si preoccupa, tra un comando e l’altro, di ingollare un sorso del suo tè dal tazzone onnipresente su tutte le scrivanie d’America, come un comune impiegato.

Un travet, capace, responsabile, che timbra il suo cartellino anche dopo aver sganciato il suo ultimo missile certo della distruzione e della morte che ha provocato.

Ma non è questo il punto. Il punto è, come per il cecchino, mettere a segno con professionalità e perizia il colpo senza sprecare munizioni. Uccidere senza aggiungere costi inutili ai budget di guerra. Savings, risparmi, si dice in tutte le società.

Due figure molto lontane nelle rispettive attività ma che trovano più di una saldatura. Il titolo Esecuzioni a distanza ne è pregevole sintesi.

In entrambi i casi sono uomini addestrati per uccidere ma i loro bersagli sono lontani, per il cecchino il bersaglio è a più di un chilometro, per il pilota di droni si tratta forse di diecimila chilometri.

Il risultato è però analogo, da un lato la morte del nemico, dall’altro un soggetto che tende a spersonalizzare la sua azione e a non sentirsi particolarmente responsabile e con un’emotività ridotta proprio perché non affonda il suo coltello direttamente nelle carni dell’antagonista.

Sono dei crimini senza sangue, irresponsabili proprio perché non se ne possono valutare direttamente le conseguenze. Anzi le conseguenze proprio non esistono. È la stessa filosofia che permea i colletti bianchi che siedono a Wall Street (e che informa la finanza internazionale), alle prese con operazioni e transazioni in titoli e denaro che non hanno odore, sapore e che sono scollegate (apparentemente) dalla macelleria umana che provocano.

È da questa saldatura che trova, per me, senso tutto il libro, anche se questo, con ogni probabilità, non era l’intendimento dell’autore.

Una saldatura tra il premoderno, cavernicolo, rettiliano humus della provincia americana che forma il substrato del tiratore scelto Russ Crane e il postmoderno asettico, algido, ipertecnologico, insensibile e irresponsabile mondo dei colletti bianchi di New York che informa la vita e il modo di pensare del pilota a distanza di Las Vegas.

Quello che ne traggo è che tutto ciò non sia casuale ma che corrisponda a un preciso disegno americano teso al predominio planetario, utilizzando il peggio che ha a disposizione: la retriva cultura redneck e il criminale brodo interiore degli white collars di Wall Street, di cui il tirartore Crane e il pilota di droni sono la rappresentazione tangibile in stato di guerra. Una miscela esplosiva fatta di pensiero rettiliano del tiratore e di comportamento mammifero del pilota.

Il rettile e il mammifero, individui beta, immolati su questo falso altare del potere, scontano la loro adesione al disegno con una distanza non solo dal bersaglio ma anche dal resto dei loro commilitoni, se è vero che le truppe di terra tendono ad isolare il tiratore e i colleghi del pilota di droni lo emarginano.

E pagano tutto questo con una solitudine agghiacciante.

Si chiederanno mai se ne è valsa la pena?


 

Mario “vox clamans in deserto” Grossi