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Il gioco degli specchi nella dialettica sessuale: quando lei sospetta che lui sappia che lei sa

di Francesco Lamendola - 16/11/2011


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La relazione sessuale fra uomo e donna - e per relazione sessuale intendiamo qualunque tipo di rapporto fra un certo uomo e una certa donna che le circostanze abbiano avvicinato, magari con qualche aiuto da parte loro, anche se formalmente essa sia di tipo solo professionale o magari di vicinato - presenta un contenuto implicito, un discorso sottinteso, una quantità di cose non dette e tuttavia abbastanza corpose da far sentire il loro peso nella dinamica d’insieme.
È frequente che vi si produca una situazione simile a quella di un gioco degli specchi, nelle cui superfici le immagini riflesse dell’uno rimandino all’altro dei gesti, dei cenni, degli sguardi, dei quali quest’ultimo può accorgersi, oppure no: è difficile dirlo, se non impossibile, perché, per vederli, non è necessario ch’egli guardi verso il proprio partner, basta che guardi verso lo specchio: ma, in tal caso, forse anche il primo ha visto  che quel suo certo gesto, quel certo cenno, quel certo sguardo non sono passati inosservati.
Chi sta guardando nello specchio, ha visto oppure no? E, se ha visto, è stato anche visto a sua volta? E ha visto di essere stato visto? E così via, all’infinito.
Prendiamo il caso di una coppia (usiamo il termine “coppia” nel senso più ampio possibile) in cui vi siano delle intenzioni nascoste e in cui tali intenzioni siano state, però, reciprocamente indovinate; in quanto nascoste, esse non si manifestano in alcun atto o parola espliciti; ma, in quanto indovinate da entrambi, sono tuttavia presenti, come un terzo personaggio che sieda silenziosamente in mezzo a loro, abbastanza discreto da non lasciarsi interpellare, però malizioso quanto basta per suggerire quel che tiene celato, anche senza bisogno di  dirlo.
È chiaro che, in una situazione cosiffatta, una cosa è quello che l’uno o l’altra dicono, un’altra cosa è quello che vorrebbero dire; non contano tanto i discorsi, ma quello che si nasconde nei silenzi; non contano gli sguardi, ma quel che si cela quando essi non si guardano, quando i loro occhi non s’incontrano.
Può essere un lieve rossore a tradire la presenza di quel qualcosa d’altro, oppure un leggerissimo tremito nella voce; può essere un sesto senso, un senso interno, puramente intuitivo, a suggerire quel che si nasconde dietro l’apparenza; quel che sta parlando in un modo diverso dalle parole effettivamente pronunciate, che sta guardando in una maniera che non corrisponde agli sguardi realmente incrociati.
Processo alle intenzioni? Sì, certo: ma vi sono dei casi nei quali le intenzioni sono talmente chiare, anche se difformi da quelle formalmente dichiarate, che bisognerebbe essere del tutto privi di intuitività e d’immaginazione, per non leggerle con la stessa inequivocabile evidenza che se fossero proclamate ad alta voce o se venissero scritte nero su bianco.
Di fatto, a causa di tutta una serie di fattori legati alle caratteristiche della vita nella società moderna (abitudine alla passività davanti alla televisione e al computer, esteriorizzazione e inaridimento dei rapporti umani, impoverimento complessivo della creatività e della fantasia, nonché della sensibilità stessa), un numero crescente di persone sta perdendo la capacità di leggere quel che vi è dietro lo sguardo o dietro le parole dell’altro, proprio mentre cresce l’abilità nel simulare e nel dissimulare, ossia nell’apparire sinceri quando ci si mostra per quel che non si è, e - viceversa - nell’apparire credibili quando si nasconde quel che si è.
C’è un brano, nella «Recherche» proustiana, che si presta magnificamente a illustrare questo concetto, laddove il narratore si trova a condurre una specie di lotta scherzosa con la sua giovane amica Gilberte, la figlia di Charles Swann e di Odette de Crécy, della quale è un po’ innamorato; brano che si trova nella prima parte di «All’ombra delle fanciulle in fiore» e che qui riportiamo nella traduzione di Maura Del Serra (Newton Compton Editori, Roma, 1990, pp. 51-52):

«Un momento dopo mi congedavo dalla “marchesa” in compagnia di Françoise, e lascia anche lei per tornare da Gilberte. La scorsi subito, su una sedia, dietro a una macchia di lauri. S’era messa lì per non essere vista dalle sue amiche: giocavano a nascondino. Andai a sedermi accanto a lei. Portava un berretto piatto che le scendeva quasi sugli occhi, dandole lo stesso sguardo “di sottecchi”, sognante e furbo, che le avevo visto la prima volta a Combray. Le domandai se non c’era m odo per me di avere una spiegazione verbale con suo padre. Gilberte mi disse che gliela aveva proposta, ma che lui la giudicava inutile. “Tenete”, aggiunse, “non lasciatemi la vostra lettera, devo raggiungere le altre, visto che non mi hanno trovata”.
Se Swann fosse arrivato allora, proprio un attimo prima che la riprendessi, quella lettera dalla cui sincerità mi sembrava insensato che non si fosse lasciato persuadere, forse avrebbe visto che era lui ad aver ragione. Infatti, avvicinandomi a Gilberte, che, riversa sulla sedia, mi diceva di prendere la lettera e non me la porgeva, mi sentii così attirato dal suo corpo che le dissi:
“Su, non fatemela prendere, vedremo chi sarà il più forte”.
Lei se la mise dietro la schiena, io le passi le mani dietro al collo, sollevando le trecce che portava sulle spalle, sia che fossero ancora adatte alla sua età, sia che la madre volesse farla apparire bambina più a lungo per ringiovanirsi. Lottavamo, inarcati. Cercavo di attirarla, lei resisteva; i suoi zigomi acesi dallo sforzo erano rossi e tondi come ciliege; rideva come se le facessi il solletico; la tenevo stretta tra le gambe come un arbusto su cui avessi voluto arrampicarmi; e, in mezzo alla ginnastica che facevo, senza che ne fosse minimamente aumentato l‘affanno che mi davano l’esercizio muscolare e l’ardore del gioco, sparsi, come gocce di sudore strappatemi dallo sforzo, il mio piacere, nel quale non potei attardarmi neanche il tempo di conoscerne il sapore; subito presi la lettera. Allora, Gilberte mi disse con bontà:
“Sapete, se volete possiamo far la lotta un altro po’”.
Forse aveva sentito oscuramente che il gioco aveva uno scopo diverso da quello che avevo confessato, ma non aveva saputo accorgersi che lo avevo raggiunto. E io, temendo che se ne fosse accorta (e un certo moto retrattile e contenuto  di pudore offeso che lei ebbe  un attimo dopo mi indusse a pensare  che non avevo avuto torto  di temerlo) accettai di fare ancora la lotta, per paura che potesse credere che io mi ero proposto altro fine fuor che quello dopo il quale avevo voglia solo di restarmene tranquillo accanto a lei.»

La scena inizia con un magnifico “en plen air”, come in un quadro impressionista: una ricca dimora parigina; un giardino popolato di piante, di aiuole, di panchine; un gruppo di ragazzine che giocano a nascondino tra le siepi d’alloro.
Il Narratore si avvicina alla sua bionda preferita, che porta ancora le trecce come fosse una bambina: forse perché bambina lo è ancora un po’ davvero, ma forse, come gli suggerisce la psicologia della madre di lei, che conosce bene, perché quest’ultima, ringiovanendo la propria figlia agli occhi del mondo, automaticamente ringiovanisce anche se stessa.
Tutta la scena è pervasa da un forte senso di allusione e di ambiguità, a cominciare da quel cappello che Gilberte porta sulle ventitré e che conferisce ai suoi occhi uno sguardo maliziosamente seduttivo, nel medesimo tempo sognante e astuto (due qualità perfettamente opposte); o forse è solo lui, Marcel, a percepirlo così, a vedere in esso una malizia e una sottile volontà di seduzione che, in realtà, non vi sono?
Difficile dirlo: il Narratore non è un narratore onnisciente, come lo era nel tipico romanzo ottocentesco, ma un personaggio che partecipa all’azione e che la riferisce così come lui la vede, in maniera parziale e talvolta distorta, come poi veniamo a scoprire mano a mano che la vicenda si dipana e nuovi elementi appaiono in piena luce, rivelandosi ben diversi da ciò che sembravano (per esempio, l’omosessualità di Albertine e di vari altri personaggi).
Dopo una breve conversazione, sempre dandosi del voi, Gilberte dichiara di voler rendere a Marcel la lettera che questi aveva scritto per suo padre: però, mentre la tiene in mano, non fa per nulla il gesto di porgergliela: e già questo gesto mancato, in contrasto con le parole effettivamente pronunciate, carica la situazione di un erotismo sottile, ma abbastanza esplicito da colpire immediatamente il suo giovane interlocutore.
Non solo: Gilberte, che lo guarda dal basso in alto perché si trova sulla sedia, non è semplicemente seduta, ma “riversa”, in una postura che suggerisce un languido abbandono; non è certo il modo di atteggiarsi di chi voglia tenere qualcuno a distanza, ma, semmai, di chi voglia suggerire all’altro di avvicinarsi, e non solo per prendere la lettera.
Marcel, infatti, si sente improvvisamente afferrato dal desiderio sessuale e sfida la ragazza a non dargli la lettera, perché vuole conquistarsela da sé, mediante un confronto fisico nel quale si vedrà chi dei due sia più forte: la invita, cioè, ad un gioco ambiguo, che l’età ancora adolescenziale dei due potrebbe forse travestire d’innocenza, ma che, per le allusioni e i sottintesi precedenti, si colora in effetti di una forte carica sensuale.
E la lotta incomincia: la lettera è dietro la schiena di lei e il ragazzo gliela vuole strappare di mano; per farlo, egli le si corica sopra e le passa le braccia sopra alle spalle; in quella posizione, senza dubbio, viene a premere con il petto contro i seni dei lei e con il sesso contro il suo grembo: l’inarcarsi dei loro corpi simula involontariamente un amplesso.
Così pure i due visi, arrossati dallo sforzo, ma anche dalla segreta eccitazione sessuale, sono ora vicinissimi; i loro fiati si confondono, mentre lei ride come se lui le stesse facendo il solletico, cioè di un riso convulso, incontrollabile, orgasmico.
Chissà se Proust, nell’immaginare questa scena, si sarà ricordato di quella pagina di «Atala» in cui Chateaubriand descrive la lotta di due fanciulle indiane durante il gioco degli aliossi:

«Si celebrano i giochi funebri, la corsa, il pallone, gli aliossi.  Due vergini cercano di strapparsi a vicenda una bacchetta di salice. I seni si sfiorano, le bocche s’incontrano, le mani si agitano leggere sulla bacchetta, che tengono alta al di sopra della testa. I loro bei piedi nudi si allacciano, i loro aliti si confondono; guardano le loro madri, arrossiscono; si applaude…»

È difficile trovare unite  insieme tanta grazia innocente e tanta sensualità; tanto detto e tanto non detto; per non parlare di quegli sguardi vergognosi lanciati dalle due vergini alle proprie madri, mentre i loro corpi si sfiorano in una lotta rituale che sembra quasi una danza di seduzione…
Sia come sia, mentre Marcel e Gilberte lottano, apparentemente, per il possesso della famosa lettera, lui la attira a sé e, intanto, la tiene stretta fra le gambe, come fosse il tronco di un arbusto: ciò provoca uno stretto contatto fra i due corpi.
Ma il corpo di lei, come il Narratore ci ha rivelato all’inizio del brano, è quello stesso corpo che aveva infiammato il suo desiderio vedendolo abbandonato sulla sedia e che gli aveva suggerito quel gioco sessuale; ed è possibile, se non probabile, che lo stesso ordine di desideri e di emozioni passino nell’animo di Gilberte, dal momento che è stata lei, in certo qual modo, a provocarlo e quasi ad invitarlo.
La situazione è resa ancora più ambigua e, forse, quella lotta giocosa si fa ancor più eccitante, proprio perché in quella famosa lettera Marcel aveva dichiarato a Swann di non nutrire subdole intenzioni nei confronti della fanciulla, né di voler agire alle spalle dei genitori di lei: quando, invece, proprio quella ginnastica sulla panchina, quasi una parodia dell’atto sessuale, confermava in pieno i sospetti che gravavano sul ragazzo.
Quel che succede poi è la conseguenza pressoché inevitabile della situazione: Marcel raggiunge improvvisamente l’orgasmo, ma non osa lasciarlo capirle alla sua amica, anzi, per dissimularlo, pone termine al gioco strappando a Gilberte la lettera e facendo l’atto di alzarsi; ma a questo punto è lei a proporgli di continuare la lotta.
Si è accorta che lui ha raggiunto il proprio piacere? Se non se n’è accorta, perché quella proposta, se non perché anche lei trova eccitante la situazione? E se invece se n’è accorta, come mai desidera prolungare il gioco: forse per arrivare segretamente all’orgasmo anche lei? Inoltre, se si è accorta di quel che è successo, si è anche accorta che lui ha compreso che lei lo sta sospettando e, forse, ne ha la certezza?
Un gesto improvviso e quasi impercettibile, come di pudore offeso, fa temere a Marcel che lei abbia compreso tutto; ma, allora, di nuovo: perché proprio lei propone di prolungare la lotta? Si è offesa perché lui ha goduto in silenzio, di contrabbando, mentre lei non è ancora arrivata al piacere?
A nessuna di queste domande viene data risposta; non sarebbe possibile, dato che Marcel, come abbiamo detto, non è un narratore onnisciente; anzi, a rigore, non dovremmo neppure chiamarlo con il nome di battesimo, dal momento che, nella «Recerche», così egli verrà chiamato soltanto da Albertine e soltanto nel volume «La prigioniera».
L’ambiguità, pertanto, rimane: ed è una sintesi quasi perfetta dell’ambiguità che regna in ogni situazione di coppia, dove un uomo e una donna si trovano soli, o comunque vicini, e nessuno dei due osa dichiarare apertamente il corso dei propri pensieri, meno ancora l’insorgere delle proprie emozioni; e solo una certa dose di intuitività può permettere loro di leggere tra le pieghe dei loro sguardi, delle loro parole e dei loro gesti.
Sia chiaro: non stiamo dicendo che un uomo e una donna, purché si trovino soli e purché ci siano le condizioni adatte, debbano provare sempre e comunque una attrazione fisica l’uno per l’altra; ma, semplicemente, che un sottinteso sessuale esiste e si insinua anche loro malgrado e anche se non esiste un desiderio consapevole.
Questo, ovviamente, se si tratta di due persone dalla sana e normale sessualità: la donna non è mai del tutto indifferente all’uomo e viceversa; e il fantasticare reciproco è assai più frequente di quel che non s’immagini.
Se quel che si prova, magari anche in maniera confusa e perfino involontaria, si potesse leggere chiaramente sul viso delle persone, allora, forse, un uomo e una donna non oserebbero più trovarsi vicini, in circostanze potenzialmente equivoche, a nessun costo.
Oppure sarebbe tutto il contrario?
Il fatto è che l’ambiguità, specialmente da parte della donna, è un elemento essenziale della dinamica fra i due sessi: se non vi fosse, bisognerebbe inventarla, cioè bisognerebbe fare in modo da provocarla ad arte…
Bisogna tuttavia fare attenzione: perché, se un certo grado di ambiguità è inevitabile e se, addirittura, lo si può considerare come uno stimolo prezioso nella dialettica sessuale, non bisogna lasciare che superi un limite ragionevole, dal momento che è un’arma potenzialmente a doppio taglio e può generare equivoci, malintesi, sofferenze.
Abbiamo detto che l’ambiguità è più connaturata alla donna che all’uomo; aggiungiamo ora che quegli uomini i quali se ne servono, con spregiudicatezza calcolata, per avvicinare e sedurre le donne, indossando una maschera, sono anche, di norma, i meno virili e i meno degni del loro interesse.
Perché, in una relazione sessuale costruttiva, arriva sempre il momento in cui si sente il bisogno di giocare a carte scoperte; giocare indefinitamente con l’ambiguità, infatti, è come prolungare all’infinito i preamboli, senza mai giungere al momento della verità e senza mai rivelare pienamente se stessi.