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Il fascino inatteso della donna anziana nella poesia di Claudio Achillini

di Francesco Lamendola - 21/11/2011







È ormai quasi un luogo comune dire che i poeti marinisti, nel “gran secolo” del Barocco, hanno esplorato nuove regioni del reale e, in particolare, hanno decostruito l’immagine idealizzata della donna, propria della lirica petrarchesca, per indugiare con ambiguo compiacimento - un po’ come avevano fatto gli artisti dell’epoca ellenistica, anche nel campo delle arti figurative - su figure difformi, impreviste, sgraziate e perfino orripilanti: la vecchia, la zoppa, la cieca, la sdentata, la donna con le pulci, la pazza, l’isterica, la strega e l’indemoniata.
Senza dubbio la poetica della “meraviglia”, la volontà di sorprendere il pubblico, lo “stupore” seicentesco innalzato a categoria fondamentale non solo nell’ambito dell’estetica, ma anche in quello della vita quotidiana, hanno giocato la loro parte in questa ricerca fantasmagorica di immagini anticonvenzionali e trasgressive, in questo deliberato perseguire un torrentizio, radicale e quasi iconoclastico rovesciamento del bello; ma forse non è tutto.
Si fraintenderebbe il senso della nuova ricerca estetica marinista se, sconcertati e frastornati dalle metafore rutilanti, dalle similitudini ardite, dagli ossimori impensati, insomma da tutto l’apparato “tecnico” del concettismo, si arrivasse alla conclusione che, nella sensibilità barocca, non vi è altro che questo; se non ci si rendesse conto che, al di sotto e al di là delle forme stilistiche esasperate e della straripante vena della bizzarria eretta a sistema, vi è anche, in qualche misura, una autentica ansia di battere strade inesplorate, di aprirsi a un mistero più grande, di sondare profondità del sentire come nessuno mai, nel solco della tradizione classicista, aveva fatto e che nessuno, forse, aveva neanche sospettato che si potesse fare.
Sta di fatto che in alcuni lirici marinisti e in Marino stesso, in maniera discontinua e lampeggiante, traluce questa dimensione “altra”, questo sincero sforzo di protendersi oltre l’ultimo orizzonte, di strappare l’ultimo velo alla realtà e di coglierne il lato nascosto, di carpire il segreto di ciò che si nasconde dietro alle cose; e ciò non in un altrove inafferrabile, ma proprio nella dimensione dell’ordinario e del quotidiano, proprio là dove meno ci si aspetterebbe di trovare l’insolito, il bizzarro, il grottesco e l’orribile.
Tutto questo scaturisce da un sentimento drammatico della vita, del quale i poeti della generazione barocca si fanno carico, laddove quelli della maniera petrarchista avevano scantonato davanti agli aspetti impoetici della realtà, li avevano ignorati, negati e rimossi, sostituendoli con forme eteree e stilizzate, con quadretti idillici e rassicuranti, con una sistematica idealizzazione che si era risolta, in ultima analisi, in una mistificazione della vita.
Ecco perché, nonostante tutti i loro eccessi, non di rado pesanti e stucchevoli, il marinismo rappresenta un fenomeno poetico innovativo, così come lo è il barocco di Lorenzo Bernini nella scultura o la maniera di Guido Reni nella pittura; ed ecco perché Chiabrera, Testi e tutti gli anti-marinisti, virtuosamente preoccupati di salvare le belle forme e di reagire al “cattivo gusto” di quelli, rappresentano un fenomeno culturale di retroguardia, incapace di misurarsi con le sfide del presente e di confrontarsi con la sensibilità nuova.
Perciò lo sprezzante giudizio del De Sanctis su Marino, sul Barocco e su Achillini, col suo famigerato sonetto «Sudate, o fochi, a preparar metalli», è sostanzialmente antistorico e ingeneroso: sarebbe come fermarsi alla superficie del fenomeno seicentesco e rifiutarsi di fare i conti con la sua essenza, e ciò a partire da un pregiudizio non solo estetico, ma altresì etico, secondo il quale non vi sarebbe alcunché da cercare, perché il Barocco è “vuoto”.
Il Seicento, invece, è percorso da un fremito di stupore; l’uomo, improvvisamente, si sente piccolo e smarrito nell’immensità della natura: certo le recenti scoperte scientifiche, specialmente in campo astronomico, sulla scia del nuovo modello copernicano dell’universo, hanno contribuito sia allo stupore, sia al senso di piccolezza; e la lirica barocca è il riflesso di  questo nuovo atteggiamento, non più antropocentrico, ma perplesso, ammirato, vagamente inquieto - inquietudine bene espressa nella bellissima poesia di Ciro di Pers «Orologio da rote».
Basta confrontare la pittura di paesaggio del Cinquecento con quella del Seicento: non solo la natura, nel secondo caso, si incupisce, si ingrandisce, si insignorisce, per così dire, della scena del mondo, relegando in una posizione marginale la figura umana e ogni altro segno di presenza artificiale; ma in questi cieli tempestosi attraversati da bagliori metallici, in queste chiome folte che stormiscono al vento, nell’ombra profonda e vagamente minacciosa delle valli boscose, nelle rupi scoscese e nelle rocce strapiombanti, nelle rovine di qualche antico tempio ridotto a poche colonne smozzicate e invase dalla vegetazione: in tutto questo si respira una tale senso di solitudine, di meraviglia, di fragilità e di angoscia esistenziale, quale mai si era visto in precedenza.
La natura giganteggia, incombe sull’uomo, lo domina dall’alto con tutta la sua forza smisurata, con la sua potenza arcana, con il suo fascino conturbante e misterioso; il brivido del sublime confina con quello dell’orrido; una rivelazione sembra lì, a portata di mano, una ierofania, forse, purché ci si sappia fare piccoli e ci si ponga in ascolto, reverenti e silenziosi.
Così, quando si legge una poesia come «Bellissima spiritata» o come «Donna vecchia vestita di color acqua di mare», sempre del bolognese Claudio Achillini (1574-1640), non bisogna lasciarsi distrarre dall’elemento estrinseco, chiassoso, ridondante, proprio della poetica della “meraviglia”, né farsi smontare da un certo abuso delle figure retoriche, ma cercar di penetrare il senso intrinseco, l’autentica freschezza e la notevole originalità che trasmettono questa nuova maniera d’intendere la poesia e di scrivere versi.
Se si sgombra la mente dai pregiudizi di matrice illuminista, si andrà incontro a delle interessanti sorprese; ad esempio, nella seconda delle poesie sopra citate, un madrigale (costruito secondo lo schema abBcaCdD), non si troverà soltanto l’insolito elogio di una donna vecchia, dopo secoli e secoli di leziosa celebrazione della donna giovane; ma anche una vena sincera di tenerezza e di ammirazione per il suo fascino attempato, una inattesa scoperta dell’audacia della donna anziana unita al suo buon gusto, benché anticonvenzionale, nel vestire.
Tutti sanno che i colori vivaci, come l’azzurro e il verde, sono indossati volentieri dalle donne giovani; ma chi ha detto che non possono fare la loro figura addosso ad una vecchia? E non si tratta di una semplice sfida alle consuetudini nel campo dell’abbigliamento e del vivere sociale; non è solo una rivolta dell’anziana contro il ruolo rassegnato e dimesso che gli usi del tempo le vorrebbero imporre, attraverso un abbigliamento di colore scuro, quasi sanzionando una sorta di vedovanza morale, di ripiegamento e di occultamento di sé e del piacere di vivere.
Non è solo questo: è anche la scoperta, a suo modo rasserenante e perfino gioiosa, che l’età avanzata possiede un suo fascino innegabile e “legittimo”; e che il colore luminoso della veste non è una semplice sfida alle convenzioni, ma svolge anche una funzione propositiva: quella di valorizzare il calmo splendore di un corpo che ha perduto la freschezza della giovinezza, ma non la capacità di irradiare un calore e uno splendore nuovi, come il sole al tramonto che si corica nel mare e, pur scomparendo alla vista, riverbera di scaglie dorate l’orizzonte.

«Grave quantunque d’anni,
il mio bel sol si veste
di marino color tinta la veste.
Ma tu non t’ammirare
Ch’ei ne’ cerulei panni,
in quella età cadente, imiti il mare:
e chi non sa che suole
tuffarsi in mar, quando tramonta, il sole?»

Mentre il comune modo di pensare si attende che la donna vecchia nasconda il suo corpo, perché sessualmente non più desiderabile o, in ogni caso, non più desiderabile come lo era un tempo e non più attraente per lo sguardo di un giovane, la protagonista di questo insolito madrigale si fascia il corpo con una veste verde-azzurra color del mare, rendendosi così particolarmente visibile e attirando l’attenzione su di sé.
Eppure non si può dire che lo faccia con ostentazione, con sfrontatezza aggressiva; al contrario, sa farlo - e saper fare le cose nel modo giusto è un classico un attributo della saggezza senile - in maniera così garbata ed elegante, o, quanto meno, in maniera talmente naturale, talmente spontanea, da richiamare all’immaginazione del poeta che la guarda, l’immagine del sole che gloriosamente tramonta e si immerge nelle acque marine, conscio del proprio splendore regale anche nei momenti estremi della sua parabola quotidiana.
Del resto, anche se carica d’anni, la donna è paragonata a un sole fin dal secondo verso, a un sole “privato” che brilla e riscalda l’anima dell’Autore: e quando mai dei versi più commoventi e affettuosi sono stati scritti da un uomo per una donna, per una donna ormai vecchia, nei secoli precedenti della poesia italiana?
Al massimo, troviamo una simile tenerezza nei confronti del vecchio pellegrino petrarchesco, nel famoso sonetto «Movesi il vecchierel canuto e bianco», ma con due sostanziali differenze: che il vecchio del «Canzoniere» di Petrarca è un uomo e non una donna e che si tratta di un devoto pellegrino e non di una persona che, pur essendo giunta sul limitare della vecchiaia, vuole ancora piacersi e, forse, piacere.
Ecco, tale è la cifra della spregiudicata novità che il madrigale di Achillini introduce: questa vecchia vestita del colore del mare non solo non nasconde il proprio corpo, ma, in un certo senso, è come se lo offrisse agli sguardi, ai giudizi, al multiforme fluire della vita; non si limita ad assistere senza imbarazzo né vergogna al proprio inesorabile sfiorire, ma lo accompagna e quasi lo accarezza con una scelta dell’abbigliamento che potrebbe essere quella di una sua figlia o di una sua nipote; una scelta sbarazzina, priva di complessi, che non denota rassegnazione per il declinare della vita, ma tradisce una giovanile vitalità e, forse, una sensualità non del tutto esaurita.
Volersi guardare nello specchio e trovarsi ancora bella; volersi mostrare agli altri e sperare che altri la trovi ancora piacente, ancora desiderabile: questo è ciò che dice quella veste azzurra sul corpo cadente della vecchia; e si direbbe che quella scelta insolita e un po’ azzardata riveli più cose della donna, di quante ne potrebbe mai dire qualunque discorso, per quanto lungo.
Possiamo così immaginare il suo viso rugoso, ma non triste; il suo sguardo un po’ stanco, ma non spento, anzi, brillante nel fulgore meridiano; e il suo incedere lento e, forse, appesantito dagli anni, ma non privo di grazia e, soprattutto, dotato di una certa qual vivacità, resa più toccante dalla consapevolezza che quella è, magari, una delle ultime occasioni per uscire e farsi ammirare, come una delle ultime giornate di sole autunnale, prima del sopraggiungere dell’inverno.
Sappiamo che il senso del trascorrere inesorabile del tempo è una delle componenti più caratteristiche della sensibilità barocca; anche in Petrarca lo è, ma il poeta di Laura non giunge mai alla franchezza di parlare apertamente, realisticamente e schiettamente, degli effetti causati dal trascorrere dell’età sul corpo femminile; lo fa con espressioni vaghe e ricercate, con giri di parole che eludono l’urgenza e la drammaticità della trasformazione fisica.
Perché invecchiare, per il corpo, significa subire una trasformazione più o meno vistosa, quasi un processo rovesciato di metamorfosi, non più dal bruco alla farfalla, ma dalla farfalla al bruco; o, come nel racconto di Kafka, dal corpo propriamente umano a quello d’una creatura che, per quanto possa forse impietosire, suscita però soprattutto ripulsa e raccapriccio.
È quasi istintivo, per gli altri e per se stessi, distogliere lo sguardo dal corpo invecchiato, dal corpo cadente; mentre qui lo sguardo del poeta si ferma ammirato proprio davanti a quel corpo ormai fragile, ormai segnato dal tempo; e vi scopre, con affettuosa simpatia, una dimensione di bellezza nuova, come un altro cielo dietro il cielo che siamo abituati a guardare in modo distratto.
Potenza d’un vestito color del mare, indossato con semplicità da una donna che non teme le rughe...