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Egitto tra sangue e rivolta

di Michele Paris - 24/11/2011


Per il quinto giorno consecutivo i manifestanti e le forze di sicurezza egiziane si sono scontrati mercoledì al Cairo e nelle strade delle principali città del paese. Nel corso della più grave crisi che sta attraversando l’Egitto dalla caduta di Mubarak lo scorso febbraio, le centinaia di migliaia di persone scese in piazza chiedono alla giunta militare, sostenuta dagli Stati Uniti e dall’Occidente, l’immediata cessione del potere a un governo civile.

La nuova ondata di proteste contro il cosiddetto Consiglio Supremo delle Forze Armate, succeduto al presidente Mubarak e guidato dal maresciallo Mohamed Hussein Tantawi (ministro della Difesa per due decenni durante il precedente regime), era scattata già venerdì scorso con una manifestazione indetta dai Fratelli Musulmani, la forza politica di opposizione meglio organizzata del paese.

Al centro delle richieste del movimento islamista moderato c’era la rinuncia da parte dei militari al processo di transizione da essi stessi delineato e che avrebbe garantito loro la permanenza al potere di fatto fino al 2013, nonché la possibilità di continuare a ricoprire un ruolo di primo piano nella vita politica del paese e fuori dal controllo dei civili.

Il giorno successivo la protesta si è progressivamente allargata, tornando ad includere pacificamente manifestanti musulmani, cristiani copti e secolari dopo mesi di tensioni settarie spesso alimentate dalla stessa giunta militare. Il centro delle manifestazioni è stato ancora una volta piazza Tahrir ma, dalla capitale, le contestazioni si sono diffuse in fretta a Suez, Alessandria, Mansoura, Ismailia e a numerose altre città dell’Egitto.

Già da sabato, l’esercito e le forze di sicurezza hanno affrontato gli egiziani scesi in piazza con metodi violenti e repressivi. Gli attivisti coinvolti nella rivolta hanno denunciato l’utilizzo generalizzato di munizioni vere che hanno causato la morte di decine di persone. Nella giornata di mercoledì, l’ex direttore dell’AIEA e possibile candidato alla presidenza, Mohamed ElBaradei, ha condannato il massacro in corso e l’utilizzo di gas lacrimogeni con agenti nervini.

Secondo l’associazione egiziana a difesa dei diritti umani Elnadeem Center, citata dalla Associated Press, il bilancio dei più recenti scontri sarebbe finora di almeno 38 morti e più di due mila feriti. Le Nazioni Unite hanno condannato fermamente la repressione messa in atto dai militari e l’alto commissario per i diritti umani, Navi Pillay, ha chiesto un’indagine indipendente per appurare le responsabilità dell’accaduto.

Di fronte alla nuova rivolta popolare in corso, il Consiglio Supremo delle Forze Armate è tornato parzialmente sui propri passi circa i tempi della transizione. Nella serata di martedì, il maresciallo Tantawi è apparso così in diretta TV per annunciare un nuovo accordo siglato tra i militari e alcuni gruppi di opposizione, tra cui il partito Libertà e Giustizia dei Fratelli Musulmani.

In seguito ad un vertice di poche ore prima tra una decina di partiti e il generale Sami Enan, capo di stato maggiore dell’esercito e membro della giunta al potere, era stato infatti deciso di confermare l’inizio delle elezioni parlamentari il 28 novembre prossimo, ma di anticipare quelle presidenziali al giugno del prossimo anno, accorciando di qualche mese il processo di transizione. I militari avrebbero anche acconsentito a un referendum popolare sul loro ruolo nel panorama politico egiziano.

Il meeting con il rappresentante del Consiglio era stato in realtà disertato dai partiti di opposizione più importanti, spaventati dalle possibili reazioni della piazza a un nuovo accordo che legittima l’operato delle forze armate. Come previsto, l’annuncio dell’accelerazione del processo “democratico” è stato respinto dai manifestanti in piazza Tahrir, dove nella tarda serata sono confluiti numerosi altri dimostranti accolti dalle violenze della polizia.

L’accordo raggiunto martedì favorisce d’altra parte proprio i Fratelli Musulmani, i quali oltre a non avere avuto praticamente alcun ruolo nel movimento rivoluzionario che ha portato alla caduta di Mubarak nove mesi fa, erano stati finora tra i più convinti sostenitori della giunta militare alla guida del paese. Nonostante il Consiglio delle Forze Armate avesse in precedenza fissato scadenze più lunghe per il trasferimento dei poteri, la nuova proposta lascia ai militari ampi spazi di manovra, soprattutto nel modellare secondo il proprio volere la costituzione ancora da scrivere e sulla quale anche gli stessi Fratelli Musulmani avranno una profonda influenza.

Tutti i raggruppamenti politici che si sono formati negli ultimi mesi, in ogni caso, sembrano temere che la situazione nel paese possa sfuggire di mano, come conferma l’atteggiamento ambiguo che i vari partiti stanno tenendo nei confronti delle proteste di piazza. Lunedì, i Fratelli Musulmani avevano addirittura emesso un comunicato ufficiale chiedendo ai propri sostenitori di non partecipare alle manifestazioni per non offrire un pretesto ai militari di posporre o cancellare del tutto le imminenti elezioni.

Il voto viene visto infatti sia dalle élite egiziane che da Washington come un passaggio fondamentale per completare un delicato processo di transizione e dare una parvenza democratica ad un nuovo sistema che, comunque, difficilmente risponderà alle richieste che stanno alla base della rivoluzione popolare. Lo stesso obiettivo, con ogni probabilità, sarà perseguito anche dal governo di unità nazionale di prossima formazione cui avevano fatto appello sia i militari che i leader dell’opposizione come ElBaradei.

Quest’ultimo sembra essere tra i candidati alla carica di primo ministro dopo che lunedì scorso il governo nominalmente civile guidato da Essam Sharaf aveva rassegnato le dimissioni. Tra i nomi che circolano per il successore dell’ex ministro dei Trasporti di Mubarak c’è anche quello dell’ex leader moderato dei Fratelli Musulmani, Abdel Moneim Aboul Fotouh, anch’egli come El Baradei probabile candidato alla presidenza il prossimo anno.

Nelle ultime settimane, la situazione è tornata nuovamente esplosiva, precisamente a causa del persistente divario non solo tra i manifestanti e una giunta militare preoccupata solo per la difesa dello status quo, ma anche tra i primi e i nuovi partiti che dovrebbero teoricamente rappresentarli. Infatti, mentre la maggioranza della popolazione egiziana aveva correttamente riconosciuto nella giunta militare - i cui membri sono a dir poco compromessi con il vecchio regime - un ostacolo al vero cambiamento, i partiti borghesi sorti a partire da febbraio, così come i Fratelli Musulmani, avevano invece offerto tutto il loro sostegno al Consiglio, dal loro punto di vista considerato come il garante delle conquiste della rivoluzione.

Questo punto di vista è stato condiviso da subito anche dagli Stati Uniti, i quali continuano a temere la possibile “perdita” del più importante paese del mondo arabo. Per Washington, da cui parte oltre un miliardo di dollari all’anno in aiuti verso il Cairo, i militari rappresentano tuttora la garanzia della permanenza dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense in una regione in continuo fermento.

L’apprezzamento espresso verso Tantawi e il suo entourage in questi mesi - ribadito martedì dal Dipartimento di Stato in seguito all’annuncio del nuovo piano per il trasferimento dei poteri alle autorità civili - la dice lunga sugli scrupoli degli USA, interessati esclusivamente alla difesa dei propri interessi strategici tramite la promozione di una giunta militare che fin dall’inizio della rivolta ha agito in tutti i modi per la conservazione di un sistema repressivo e anti-democratico nel quale i suoi membri erano perfettamente integrati.

La presa del potere da parte del Consiglio Supremo delle Forze Armate con un colpo di stato ai danni di Mubarak a febbraio sull’onda delle proteste di piazza ha dunque rappresentato fin dall’inizio una mossa controrivoluzionaria per limitare le richieste di cambiamento che stavano emergendo nel paese. Per questo motivo, a quasi un anno dall’inizio della rivolta, gli egiziani stanno tornando nelle piazze per cercare di completare un processo rivoluzionario rimasto incompiuto e contro il quale agiscono sia la durissima repressione dei militari che le manovre dei partiti politici dell’opposizione ufficiale.