Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Myanmar: Hillary porta i dollari

Myanmar: Hillary porta i dollari

di Michele Paris - 05/12/2011


La storica visita in Myanmar del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, è iniziata ieri con l’arrivo della ex first lady a Naypyidaw, la remota capitale della ex Birmania. La visita era stata annunciata dallo stesso presidente Obama un paio di settimane fa nel corso della conferenza dell’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico (ASEAN) a Bali, in Indonesia, e segna un ulteriore passo avanti nella strategia statunitense volta a rafforzare il proprio impegno in Asia orientale per contrastare l’espansionismo cinese.

Quella di Hillary è la prima visita in questo paese di un diplomatico americano di così alto livello da 56 anni a questa parte, dopo quella di John Foster Dulles nel 1955 sotto l’amministrazione Eisenhower. Il Segretario di Stato ha già tenuto un vertice con il presidente birmano, Thein Sein, e con il ministro degli Esteri, Wunna Maung Lwin, per poi incontrare venerdì a Yangon l’icona dell’opposizione, Aung San Suu Kyi.

Hillary Clinton è giunta in Myanmar dopo aver partecipato a una conferenza in Corea del Sud, dove ha discusso con i giornalisti alcuni dei contenuti della visita. Riferendosi alla frase pronunciata recentemente in Indonesia da Obama, il quale ha affermato di vedere segnali di speranza in Myanmar, Hillary si è augurata che questi segnali possano trasformarsi in un vero cambiamento di cui possa godere tutta la popolazione.

Il Segretario di Stato ha poi detto di voler verificare le reali intenzioni dei leader birmani circa le riforme in corso da qualche tempo, sia in ambito politico che economico. Sua intenzione, infine, è quella di chiedere la liberazione di tutti i prigionieri politici e di porre fine ai conflitti con le minoranze etniche che hanno costretto centinaia di migliaia di profughi a lasciare il paese.

Fuori dai discorsi ufficiali dovrebbe rimanere invece la questione delle sanzioni economiche che tuttora pesano sul Myanmar e adottate dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa dopo le repressioni del 1988 e del 2007. Per la rimozione delle sanzioni sarà necessario un voto del Congresso di Washington, da dove alcuni falchi repubblicani hanno già criticato il viaggio di Hillary Clinton.

Al superamento delle sanzioni puntano però ampi settori delle élite economiche americane. Uno dei punti centrali della trasferta in Myanmar di Hillary, anche se non troppo propagandato, è precisamente l’apertura del paese ai capitali americani. Molto esplicito a questo proposito è stato un articolo di martedì del Wall Street Journal, nel quale viene citato un dirigente di Caterpillar in Asia sud-orientale che afferma come i 700 membri della Camera di Commercio americana a Singapore siano già pronti a lanciarsi sul Myanmar, dove sarebbero in gioco grandi interessi in qualsiasi segmento d’affari.

Un altro manager americano di base a Singapore - l’amministratore delegato della compagnia tecnologica Arrow Technologies - conferma poi come i vertici di molte compagnie stiano solo “attendendo il semaforo verde” per il Myanmar e per questo si “aspettano molto da Hillary”. Molti giornali in questi giorni raccontano d’altra parte di come gli hotel delle principali città del paese siano affollati da uomini d’affari americani pronti a valutare occasioni di investimento in attesa della definitiva eliminazione delle sanzioni economiche.

Il processo di riconciliazione tra gli Stati Uniti e il Myanmar sta causando più di un grattacapo in Cina, tuttora il principale partner commerciale di Naypyidaw. Da alcuni ambienti cinesi sono giunte in questi giorni reazioni piccate al viaggio di Hillary Clinton. Un editoriale del Global Times, ad esempio, pur concedendo che “la Cina non intende opporre resistenza al tentativo del Myanmar di migliorare i propri rapporti con l’Occidente”, ammonisce che “non saranno accettate iniziative che possano danneggiare gli interessi” di Pechino.

In risposta all’intraprendenza americana, inoltre, due giorni prima dell’approdo del Segretario di Stato USA in Myanmar, la Cina ha ospitato il Capo di Stato Maggiore dell’esercito del vicino meridionale, generale Min Aung Hlaing. Quest’ultimo ha avuto un faccia a faccia sia con il vice-presidente Xi Jinping che con il suo omologo cinese, generale Chen Bingde, i quali hanno ribadito la necessità di continuare a sviluppare i rapporti bilaterali tra i due paesi.

Per la Cina il Myanmar ricopre un’importanza fondamentale per svariati motivi. Tanto per cominciare, Pechino è impegnata nella costruzione di gasdotti e oleodotti che permetterebbero di evitare le rotte marittime sud-orientali esposte alle possibili ritorsioni americane. L’ascendente cinese sul Myanmar è importante anche per la conservazione della stabilità nelle regioni di confine dove operano gruppi ribelli affiliati alle varie minoranze etniche.

Più in generale, l’influenza soprattutto economica esercitata dalla Cina sui paesi del sud-est asiatico è alla base della nuova strategia americana in quest’area cruciale del pianeta. Il recente viaggio di Obama ha incluso infatti molte iniziative adottate in funzione anti-cinese, come l’annuncio di inviare un contingente di soldati in Australia o la conferma di voler di “mediare” le rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale tra Pechino e i vicini meridionali.

La volontà di riavvicinamento di Washington al Myanmar è in ogni caso ricambiata dal regime. Proprio in seguito ad un riallineamento dei propri obiettivi strategici, dopo le elezioni del dicembre 2010 che hanno trasferito il potere dai militari a un governo nominalmente civile, il Myanmar ha intrapreso alcune riforme “democratiche”. Tra di esse spiccano la liberazione di un certo numero di detenuti politici, l’allentamento della censura, la legalizzazione dei sindacati ed altre riforme volte a liberalizzare l’economia.

In particolare, nel processo di avvicinamento all’Occidente sta giocando un ruolo chiave il rapporto del regime con Aung San Suu Kyi, con la quale non a caso Obama ha avuto una conversazione telefonica nel corso della sua trasferta asiatica. La liberazione del premio Nobel per la pace e il suo reintegro nella politica birmana era infatti una delle condizioni richieste per ristabilire i rapporti con gli USA. A sancire il disgelo, Aung San Suu Kyi ha da poco confermato che il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, prenderà parte ad una serie di elezioni speciali in programma a breve.

Legittimando così il regime e facendo da tramite tra esso e l’Occidente in vista della rimozione definitiva delle sanzioni economiche, Aung San Suu Kyi ha in sostanza confermato di rappresentare non tanto la maggioranza della popolazione birmana oppressa, quanto piuttosto quegli strati della borghesia locale desiderosi di aprire il paese ai capitali esteri.

La svolta di Washington nei confronti del Myanmar è coincisa con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca e con la revisione complessiva della strategia americana in Asia orientale. Durante la precedente amministrazione, a prevalere era invece un atteggiamento di chiusura pressoché totale. Se a ciò si aggiungono le risorse e le attenzioni che George W. Bush ha riservato all’Iraq e all’Afghanistan, è facile comprendere come gli USA abbiano lasciato per anni via libera all’espansione cinese in quest’area che oggi è tornata al centro dell’attenzione americana.

In definitiva, ufficialmente l’amministrazione Obama sta cercando di inquadrare il tentativo di dialogo con il Myanmar nei consueti termini della promozione della democrazia. Come dimostra ampiamente la politica estera americana, tuttavia, gli scrupoli democratici di Washington riguardo questo paese appaiono ancora una volta a esclusivo consumo dell’opinione pubblica internazionale. Ci che conta nel cambio di rotta epocale nei rapporti degli Stati Uniti con Naypyidaw sono esclusivamente i loro interessi strategici ed economici, i quali implicano necessariamente il contenimento della Cina, nonostante le ripetute smentite della Casa Bianca.

Da parte del nuovo governo birmano, invece, la decisione di svincolarsi dall’ingombrante vicino settentrionale (oltre a trarre origine da rapporti tradizionalmente complicati) è legata a molteplici fattori. L’accesso limitato ai mercati e agli investimenti occidentali, a causa delle sanzioni, ha ad esempio un impatto sempre più negativo sull’economia locale, nonostante i progetti per lo sviluppo di infrastrutture e lo sfruttamento delle risorse naturali portati avanti con la Cina.

Tutt’altro che da escludere è poi anche il timore di un possibile contagio delle proteste esplose nel mondo arabo. Per un regime che ha più volte dovuto reprimere duramente il dissenso interno, la minaccia di una nuova rivolta da affrontare con un black-out dei rapporti con l’Occidente e con un’imponente presenza militare americana nelle vicinanze è verosimilmente apparsa troppo rischiosa.

In questa prospettiva, le liberalizzazioni messe in atto dal governo del Myanmar non sembrano tanto l’iniziativa di una cerchia di leader “riformisti”, le cui aperture sarebbero minacciate dai falchi della vecchia guardia, come pretendono quasi tutti i giornali occidentali. Come ha scritto qualche giorno fa la testata on-line Asia Times, la svolta del regime, suggellata dalla visita di Hillary Clinton, appare piuttosto il risultato di una strategia condivisa dalle élite politiche e militari, ben poco interessate alla democrazia o ai diritti umani se non come strumento per sciogliere il paese da quello che stava diventando un rapporto di eccessiva dipendenza dalla Cina e che poteva minacciare, a lungo termine, la sopravvivenza stessa del paese.