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La sentenza della corte suprema e i giudici italiani

di Francesco Mario Agnoli - 02/07/2006

Fonte: Francesco Mario Agnoli

 
    D' accordo non sono italiani e farsi belli delle penne altrui  è sempre rischioso. Tuttavia  i componenti della Corte Suprema statunitense sono giudici ed è in questa  loro funzione che  hanno potuto dichiarare illegittimi, perché contrari tanto alla Costituzione quanto alla Convenzione di Ginevra, i tribunali speciali militari organizzati dall'amministrazione Bush per giudicare i prigionieri di  Guantanamo.
      La Corte ha stabilito, da un lato, che “l'istituzione di  un  processo da parte di una commissione militare solleva dubbi del più alto livello sulla separazione dei poteri” e che le particolari regole fissate  per i giudizi davanti a queste commissioni, abilitate ad irrogare condanne anche gravissime  in base a prove non  fatte conoscere  previamente agli accusati, violano alla radice  i diritti della difesa. Dall'altro che non basta il giochetto di parole che trasforma i prigionieri di guerra in “nemici combattenti” per rendere inapplicabili le regole stabilite a loro favore dalla III Convenzione di Ginevra (fra queste regole quella, essenziale,    secondo la quale  le persone catturate in  azioni di guerra -ribelli inclusi- debbono essere processate non da giudici speciali, ma da “corti regolarmente costituite, che accordino tutte le garanzie giudiziarie riconosciute come indispensabili dalle nazioni civili”).
   In sostanza i giudici statunitensi  hanno  detto che nessuna emergenza più o meno reale, nemmeno  una guerra planetaria al terrorismo,  consente la  violazione delle regole essenziali della legalità, che possono anche non coincidere  con la giustizia, ma senza il rispetto delle quali nessuna giustizia è possibile.
  I giornali, in commenti non sempre del tutto condivisibili, hanno sottolineato l'aspetto “americano” del fenomeno, parlando chi di “una grande vittoria della democrazia USA”, chi di “uno spot per gli Usa”.
   Certamente la decisione, che dichiara illegittima  una parte rilevantissima  della politica  dell'amministrazione repubblicana in  questi ultimi anni è senza dubbio  una vittoria e un merito della democrazia americana (nonostante il commento fuori luogo di Bush, affrettatosi a  proclamare  che non metterà in pericolo la vita degli americani mettendo in strada degli assassini), ma anche la conferma della irrinunciabilità ai principi essenziali dello Stato di diritto, ancor prima che della democrazia, della separazione dei poteri e della indipendenza dei giudici.  
   E' in queste occasioni che si avverte forte l'orgoglio di essere giudici (anche, o forse soprattutto, in Italia, dove troppo spesso separazione e indipendenza sono  state e vengono guardate con sospetto e ci si diletta a definire i giudici come funzionariucoli  privi di altro  merito che non  sia quello  di avere  superato un concorso),  come tali  soggetti soltanto alla legge e, quindi, investiti di una funzione  che non solo consente, ma impone di determinarsi  non in base alle ragioni della politica, dell'ossequio al potere, delle ragioni di partito (perfino quando, come appunto negli USA, la nomina è, direttamente o indirettamente, di partito), ma unicamente a quelle del diritto.
    Intendiamoci. I giudici sono uomini  esattamente come gli altri, con i difetti di tutti gli altri e in particolare degli addetti al pubblico impiego, magari qualcuno di  più, perché l'indipendenza di cui godono può portarli ad assumere atteggiamenti di supponenza o, nei casi  limite, di vera e propria arroganza. Tuttavia  giunge  sempre il momento (anche nelle minute faccende di ogni giorno, nei processi, civili e penali, che costituiscono la quotidianità del lavoro corrente pur se sono le grandi occasioni e le grandi pronunce ad attirare l'attenzione e a ricordare la necessità di quello che può sembrare, ma assolutamente  non è, un privilegio) in cui si scopre o si riscopre  (per i giudici una conferma, che comporta però l'intima riappropriazione di una orgogliosa umiltà) che senza questa indipendenza e il suo puntuale e continuo esercizio anche le società più progredite e civili  null'altro sarebbero che  case con le porte  spalancate  ai venti tempestosi delle prevaricazioni,  degli abusi, dell'ingiustizia.
     Qualcuno, soprattutto in America,  teme che la sentenza non avrà effetti pratici e profetizza  che Guantanamo  non verrà chiuso e  i prigionieri non avranno mai un giusto processo. Può essere. Ma può anche accadere  che la sentenza della Suprema  Corte  arresti il progressivo imbarbarimento del diritto internazionale, riportando in primo piano quelle regole (a cominciare da quelle della Convenzione di Ginevra) che in troppi (non solo Bush) proclamavano  non più adeguate alle esigenze del mondo contemporaneo e dei suoi conflitti.