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L’aria che tira

di Fabio Falchi - 25/01/2012


Vent’anni fa, il 2 giugno del 1992, nelle acque antistanti Civitavecchia, non molto lontano dal tratto di mare ove ha fatto naufragio la nostra bellissima nave da crociera Costa Concordia, si incontrarono, a bordo del Britannia, il panfilo della regina d’Inghilterra, esponenti del gotha della finanza anglosassone (Goldman-Sachs compresa) e alcuni membri della classe dirigente italiana, tra cui Azeglio Ciampi e Mario Draghi (che allora erano, rispettivamente, governatore della Banca d’Italia e direttore generale del ministero del Tesoro).
Di conseguenza non sorprende che quella crociera del Britannia sia diventata il simbolo della cessione della nostra sovranità nazionale al capitale straniero. E non sorprende nemmeno che la drammatica vicenda della Costa Concordia sia interpretata, soprattutto dai media angloamericani, come il simbolo di un Paese che rischia di affondare per l’imperizia della sua classe politica. Tanto che, secondo alcuni, questo disastro sarebbe la conferma di ogni negativo stereotipo che il mondo ha sempre avuto riguardo all’Italia e al popolo italiano. Ma la lettura che prevale è quella che vede nella conversazione tra il comandante De Falco e il capitano Schettino (il cui comportamento indubbiamente non si può considerare encomiabile) contrapporsi due anime del popolo italiano, quella cioè rappresentata da Monti e quella rappresentata da Berlusconi. Seria e matura, benché “minoritaria” la prima, cialtrona e inetta la seconda.
Una tale semplificazione (e falsificazione) della situazione in cui si trova il nostro Paese non meriterebbe alcuna considerazione, se l’Italia non rischiasse veramente di far naufragio come la Costa Concordia. Ma appunto sono ben altre le ragioni che hanno condotto il Bel Paese in acque così infide. Non nel senso che il berlusconismo non abbia gravi responsabilità. Tra queste la peggiore però è quella di non aver né voluto né saputo evitare che il Paese venisse ad essere “commissariato” proprio per conto di chi, profittando del fatto che gli italiani erano solo interessati a tifare pro o contro il Cavaliere, ha creato le condizioni affinché i “mercati” potessero comprare buona parte del nostro Paese a prezzi scontati e oggi possano prendersi pure il resto, sempre a prezzo di liquidazione. Non pare strano perciò che il Cavaliere sia stato licenziato, in fretta e furia, allorché alcuni dei più zelanti “europeisti” – tra cui lo stesso attuale Commissario d’Italia per volontà del Colle, della Bce e dei “mercati” – hanno cominciato a sospettare che, tra un giro di valzer in Russia e un altro nella Giamahiria, potesse pure, dopo essere stato umiliato più volte dai nostri “cari alleati”, mettersi alla testa degli “euroscettici”, non fosse altro perché ben difficilmente un Paese può crescere e svilupparsi se è costretto a versare lacrime e sangue, per pagare gli interessi sul debito pubblico (peraltro, a partire dagli anni Novanta, internazionalizzato in buona parte, grazie ai nostri “lungimiranti” tecnocrati) e consentire a “lor signori” di continuare a dettare legge dall’alto delle loro torri di cristallo.
Timori tutt’altro che fondati, si potrebbe obiettare, mettendo sulla bilancia vizi e virtù del Cavaliere, che, se come statista vale poco o nulla, certo non è neanche un “cuor di leone” (e poiché il coraggio uno se non lo ha non se lo può dare, sarebbe meglio allora non affidargli il timone né di una nave né di un Paese, soprattutto allorquando si è in “gran tempesta”). Nondimeno, i tecnocrati di “casa nostra” sanno bene che gli italiani di anime ne hanno assai più di due. Meglio allora mettere le mani avanti prima che fosse troppo tardi. Tolto di mezzo il Cavaliere è arrivato quindi il Commissario tecnico, che piace tanto ai gazzettieri, specialmente a quelli dell’Economist e del Financial Times, a cui la sorte del nostro Paese sta a cuore quanto ad una volpe un bel pollaio. Ma i conti non paiono tornare, non perché manchino i badogliani, di destra e di sinistra, nel Paese dell’8 settembre permanente. E’ che tra le molte “anime popolari” dell’Italia vi è non solo quella di Arlecchino o Pulcinella, ma pure quella di coloro che, dovendo vivere con i frutti del proprio lavoro, dopo decenni che prendono bastonate e dopo aver visto dimezzato il proprio potere d’acquisto, cominciano a non poterne più né dello spread né dei “mercati”. E non sono pochi, anzi sono la maggioranza della popolazione. Né è questione di “euro sì” o “euro no”, ma del fatto, molto semplice, che il “lavoro” pensa e percepisce. Ed una merce che pensa e percepisce non è affatto una merce. Ecco l’inghippo, con buona pace dei “tecnici” della Bocconi e del MIT. E quest’anima, confusa e contraddittoria quanto si vuole, è scesa in piazza e nelle strade.
Naturalmente, non siamo affatto in presenza di moti rivoluzionari e moltissimi sono coloro che cercano di strumentalizzare la protesta che dalla Sicilia si diffonde in tutta Italia. Né si deve sottovalutare che vi potrebbe essere perfino chi ha interesse a soffiare sul fuoco per far bruciare l’intera “baracca tricolore”. Comunque sia, con ogni probabilità si tratta di una protesta “trasversale” e popolare, di quelle che non piacciono al Circo mediatico occidentale o ai passeggeri (e all’equipaggio, lacchè inclusi) del Britannia. D’altronde, si dovrebbe tener conto che mai come oggi il nostro Paese avrebbe bisogno di essere guidato con mano ferma e sicura, al fine di poter implementare un programma imperniato sulla valorizzazione delle nostre imprese strategiche e delle PMI. Il che richiederebbe però non solo l’eliminazione (con qualsiasi mezzo) di quei gruppi di potere (anche dentro la PA) che, pur di non rinunciare ai propri privilegi, sono disposti a contrastare in ogni modo il rinnovamento del nostro sistema sociale e produttivo secondo una prospettiva che coinvolga l’intera comunità nazionale, ma anche una “svolta” decisa in politica estera, per poter sottrarsi alla morsa di un atlantismo che minaccia di ricacciare l’Italia tra i Paesi in via di sviluppo. L’unica certezza invece è che non vi è più nessuna forza politica che sia in grado di trasformare il “lavoro” che si ribella in un autentico movimento “nazionale e popolare”. Vale a dire che manca una élite che sia capace di identificare i veri nemici del nostro Paese e di elaborare una strategia per tutelare, anche alleandosi con gruppi di altri Paesi europei, gli interessi nazionali contro i diktat dei “mercati”. Peraltro, oltre ai secolari e noti difetti del nostro Paese, la gravissima frammentazione sociale, l’esistenza di forti interessi corporativi che ostacolano non poco una visione d’insieme dei problemi del nostro Paese, l’impoverimento (non solo economico) dei ceti medi e il fatto che la “forbice” tra il Nord e il Sud, anziché restringersi, si allarga sempre più, sembrano impedire che si possa (perlomeno a breve termine) colmare tale “lacuna”.
Non è dunque il caso di fare previsioni, né di lanciare scomuniche o fare apologie. Si dovrebbe, tuttavia, riconoscere che se il nostro Paese non è adeguato al XXI secolo, non è perché al comando della Costa Concordia non vi era un capitano britannico, bensì perché nella plancia di comando del Paese non si parla italiano da molti anni, ma solo la lingua dei “signori dell’Occidente. Ossia quelli che hanno fatto a pezzi la Serbia, l’Iraq, l’Afghanistan, la Giamahiria e che ora vogliono spezzare le reni alla Siria. E sono gli stessi che hanno messo la corda al collo al popolo greco e che si accingono a strangolare l’Italia, ovviamente per adeguarla al XXI secolo. E queste considerazioni non sono affatto “fuori tema”, perché è necessario mettere insieme tutti i pezzi del puzzle, se non si vuole, per sfuggire a Cariddi, venire dilaniati da Scilla. Intanto, comunque, si può prendere atto che le “quinte colonne” del Britannia dovranno fare i conti con quel “ventre molle” dell’Europa che potrebbe riservare pure qualche brutta sorpresa all’Occidente. D’altra parte, che cominci a tirare una brutta aria in Europa (non solo in Italia) per chi difende le “ragioni” degli Stati Uniti d’Europa e dei “mercati” è indubbio. Vero pure che non è possibile nemmeno ritenere che allora, per i popoli d’Europa, quest’aria sia necessariamente salubre. Ma che lo sia dipende anche da noi e dalle nostre scelte. Sarebbe opportuno non dimenticarlo.