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La natura non è un “mostro sacro”, ma neanche un abito buono per tutte le stagioni

di Francesco Lamendola - 07/02/2012


 


 

Ippolito Pizzetti (Milano 1926 - Roma 2007) è stato, probabilmente, il giornalista italiano più amato dal pubblico interessato ai fiori ed ai giardini (ci eravamo già occupati di lui nell’articolo «Una pagina al giorno: “Discorso sulle fate”, di Ippolito Pizzetti», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 19/05/2009).

Nei suo articoli e nelle sue rubriche, attraverso i colloqui con i lettori, egli ha fatto molto per diffondere l’amore per la natura nel nostro Paese, a partire da situazioni semplicissime e anche in ambito urbano, per esempio per insegnare a tenere una magnifica coltivazione di fiori anche senza disporre di un giardino, ma soltanto sfruttando la terrazza di un appartamento cittadino; e per trasmettere la passione per il giardinaggio, che sentiva vivissima.

Bisogna pur dire che, nei suoi scritti, egli si confessava volentieri, con tutti i suoi umori e le sue intime convinzioni,  e  sovente  esulava dalla floricoltura e dagli argomenti botanici e naturalistici, per allargare il discorso ai più svariati aspetti del rapporto fra uomo e natura, ciò che li rende ancor oggi freschi e pieni d’interesse, per un lettore dalla mente elastica ed aperta.

Non sempre i suoi ragionamenti appaiono convincenti, obiettivi ed equilibrati; spesso risultano, appunto, umorali e non esenti da un certo diffuso narcisismo, che lo porta a parlare continuamente di se stesso, anche laddove afferma di non amarlo e di farlo solo per necessità; peraltro, sarebbe ingeneroso non tener conto che la situazione italiana degli anni ’70 del secolo scorso, specie dal punto di vista ecologico, era ben diversa da quella odierna e che certe sue affermazioni trovano un riscontro se rapportate a quella data, mentre oggi suonano piuttosto incongrue.

Ad ogni modo, quelle pagine risultano ancora interessanti per mettere a punto, partendo da situazioni quotidiane e da quesiti estremamente semplici (è giusto cogliere i fiori di campo oppure no? È lecito andare a caccia o a pesca e, contemporaneamente, dirsi amanti della natura?), problematiche di vasta portata, che investono sia l’ambito propriamente ecologico, sia quello pedagogico-educativo, giacché si trattava - e si tratta - di favorire  lo sviluppo di una mentalità non utilitaristica e non superficiale, in modo che le persone tornino a guardare alla natura con un atteggiamento sempre più consapevole e, quindi, responsabile.

Per esempio, in un articolo Pizzetti si domandava, sollecitato da una lettrice, se sia lecito, per un amante della natura, cogliere fiori per farne dei mazzolini; e, partendo da questa situazione minimalista, ampliava il discorso fino a interrogarsi sull’atteggiamento complessivo che l’uomo dovrebbe avere nei confronti della natura, sugli aspetti culturali e psicologici di esso, sul supposto ruolo svolto dall’educazione religiosa nello scarso rispetto degli Italiani per la natura; ma qui si fa sentire una pesante nota di pregiudizio anticattolico, allora assai di moda nei salotti buoni della cultura italiana, tutti rigorosamente di sinistra.

Vale comunque la pena di rileggere quell’articolo, perché esso offre l’occasione di riflettere su una questione di portata generale, che non è solo di tipo ambientalista, ma anche storico, culturale, sociologico ed etico - a meno che si pensi che l’etica sia una scienza che riguarda soltanto gli esseri umani nei loro rapporto reciproci, e non anche in quelli con tutti i viventi non umani. In sintesi, tale questione è la seguente: che cosa vuol dire amare la natura, sentirla in profondità, cercare con essa una relazione non epidermica e sentimentale, ma intensa e durevole?

Scriveva, dunque, Ippolito Pizzetti, nel suo libro «I miei fiori, le mie piante» (raccolta di articoli apparsi su «L’Espresso», Editoriale L’Espresso, Milano, 1978, pp. 55-60):

 

«L’altro giorno ho fatto un mazzolino, tra bosco, prato e fiume. Lo so che molta gente ha da ridere sui mazzolini. Innanzitutto da ridere hanno i sacerdoti della natura: “Alcuni puritani, scrive Geoffrey Grigson (“The Shella Country Book”, Phoeniix House, Londra, 1962), “specialmente alcuni botanici e conservazionisti, affermano arcigni che i fiori spontanei non andrebbero colti mai. Ma il raccogliere fiori e frutti uno ei piaceri della vita”: giusto, ed è uno di quei piaceri cui io, per mio conto, non intendo rinunciare fin che campo. E poi ci sono fiori e fiori: quelli rari o prossimi ad estinguersi che nei paesi civili (ed anche in qualche nostra regione) vengono protetti ed indicati su appositi cartelli; e ci sono altri fiori che per quanti ne possiate cogliere, a meno che non si danneggi il fusto ed il fogliame, non sembra che a pianta (e sono anche stati fatti in Inghilterra esperimenti  in proposito) abbia a soffrirne minimamente: quel che si recide, si rigenera, come la testa di Medusa. Questi puritani sono mossi, ad ogni modo, da un eccesso di zelo, che vivendo nel mondo in cui viviamo è comprensibile. Ma esistono altri nemici del mazzolino per ragioni, chiamiamole così, ideologiche. M’è accaduto ripetutamente di sentirmi dire, con tutta l’enfasi di un pronunciamento, e da diversi individui (ovviamente di sesso maschile) che a loro interessano soltanto gli alberi (e non i fiori); ed a costoro ha perfino fatto eco uno scrittore il quale, credendo di polemizzare con me, ha dichiarato che lui pensa soltanto a piantar alberi, mentre lascia alla moglie (poverina) il compito di vedersela con i fiori (che sono cose da femmine). Io devo francamente confessare che simili affermazioni, prima ancora che irritarmi, m’imbarazzano: innanzitutto perché chiunque abbia una pur minima familiarità con la natura sa che, in natura simili divisioni nette e recise non si danno, e che sono soltanto il frutto di un processo storico (per nulla bello). Personalmente, per quanto mi sforzi, non mi riesce di fare differenze gerarchiche  tra un albero un cespuglio ed una pianta erbacea; e lo strepito di una simile fanfara maschilista appare tanto più stonato e grottesco quando si riflette che i fiori non sono altro che gli organi sessuali delle piante (e che Linneo per classificare il mondo vegetale s’è basato appunto sulla struttura dei fiori); che non esiste albero – pena la sterilità e l’estinzione della specie - il quale in un momento della sua esistenza non fiorisca; e che quindi portata sul piano animale una simile concezione (curiosa per un maschilista, ma riflettendo, poi neppure troppo ) si traduce in una propensione per un mondo fatto come le bambole, che non hanno nulla tra le gambe, e che per parte mia, come cosa veramente contro natura, non condivido e non mi piace. Senza contare che se una simile visione del mondo, parziale e fallocratica, fosse stata condivisa da Virgilio, Shakespeare, Dante, Tasso, Diderot, Goethe, Schubert, nonché agli anonimi maestri della poesia popolare, il loro mondo lirico sarebbe assai più povero e monco.

Questo per quel che riguarda i pregiudizi contro i fiori e i mazzolini. Romane, ammesso che io sia riuscito a sgombrarvi la mente, tutto quel che c’è da dire di positivo sui mazzolini e che riguarda noi, che amiamo andare per campi e per boschi, assai più da vicino. Perché è proprio l’andar cercando i fiori selvatici, il coglierli, il toccarli, l’accostarli l’un l’altro, con i loro colori e con le loro forme, i fiori della medesima stagione, il mescolarli con le loro foglie, il riconoscerne non soltanto i profumi, ma gli odori, che c’insegna quell’arte della composizione e della scomposizione, quella familiarità con le costanti e le varianti della natura, che ci è necessaria per creare il giardino che vorremmo, e che forse non arriveremo a creare mai.

Certo che i nostri connazionali, condizionati da “secoli di sottosviluppo”, “l’unico rapporto che concepiscono con la natura quello del saccheggio, dello sfruttamento, dell’arraffare qualcosa e portarselo a casa”. Li hanno educati così i nostri antenati predoni romani, con la loro brigantesca legge della “res nullius”.

Ma il discorso è un altro. Siamo d’accordo che l’uomo, italiano o non, “va educato al rapporto con la natura”. Ma è su questo rapporto, sul tipo del rapporto, che bisogna intendersi. Si ritorna sempre lì: alla faccenda del contratto sociale, che possiamo anche chiamare, in questo caso, contratto civile. Posso ripetere, in tutta coscienza, come ho scritto citando un autorevole naturalista inglese, che, a parte i fiori che non vanno colti perché minacciati d’estinzione, ne esistono altri cui non nuoce affatto, e se sono convinto, come ho già avuto modo di dire, che non vadano aperti al pubblico parchi e giardini (anche botanici) dove non è possibile avere una sorveglianza che ne garantisca l’integrità, sono altrettanto convinto che non è proibendo di calpestare le aiuole che educheremo l’italiano o chicchessia al rapporto con la natura.

Cioè: bisogna agire concedendo al nostro prossimo un minimo (non un massimo, un decoroso minimo) di fiducia nella sua onestà e intelligenza oppure non regge più nulla. Sono d’accordo, anzi vorrei che in tutto il nostro paese fossero date multe salatissime a chi coglie un fiore in pericolo d’estinzione, a chi pesca fuori stagione o con mezzi illeciti, a chi spara alle specie protette; ma n on sono affatto d’accordo con tutti coloro che pensano che per ottenere qualche risultato occorre nel nostro paese o dove che sia non cogliere più nessun fiore, nessun frutto selvatico, nessun fungo; non pescare più; non caciare più. Semplicemente perché non credo che possa darsi un vero e profondo rapporto con la natura che non sia animale. Senza che in questo rapporto siano coinvolti tutti io nostri sensi: certo la vista, l’udito; ma non soltanto: anche il gusto, l’odorato, il tatto. Non vorrei mai portare a modello la mia esperienza personale: ma io ho appreso a conoscere la natura proprio andando a caccia, a pesca, a frutti selvatici, a funghi. Esiste, certamente la sublimazione; ma non è possibile esigere da nessun animale la sublimazione a priori. Per questo certi miti della nostra religione (chi deve comprendere comprenda) mi ripugnano profondamente.  I giardini che io faccio, uno li può giudicare come vuole: ma io li comincio sempre esplorando lo spazio con tutti i miei sensi e i miei organi, cogliendo le piante selvatiche  che vi crescono che crescono nei dintorni, toccandole, annusandole, magari anche assaggiandole, con tutta la mia animalità, prima che con qualsiasi anima, ammesso e non necessariamente concesso che ci sia.

Per fare un giardino, innanzitutto mi occorre toccarlo, sentire sotto i piedi ogni suo dislivello, sentire sotto e dita il ruvido e il liscio, la densità dei suoi tessuti. E quando e se non riesco, sono convinto, è soltanto perché sono stato troppo frettoloso, troppo superficiale, troppo poco animale nella mia esplorazione. È ovvio che oggi ho imparato a guardare molti fiori dei campi e dei boschi senza il bisogno di strapparli.  Ma prima li ho strappati! E ce ne sono altri che so benissimo  di poter cogliere senza danno, e che ho bisogno di sentire sotto le mie dita, di accostare al mio naso e alla mia bocca. Come so benissimo che certi animali non li poso toccare, ma nel mio profondo mi resta se pur represso il desiderio di passare le mani sulle penne dell’aquila, sulla pelliccia del tasso e della volpe, come mi piace i miei animali che condividono con me la vita in casa non solo guardarli ma anche toccarli e sentirne l’odore.

Mi condanni pure, se vuole, dunque cara signora: condanni con me tutto il mio essere animale; ma non potrà mai convincermi che possa avere un rapporto profondo con la natura l’uomo che non ha mai avuto l’impulso di cogliere un fiore che lo attira, di assaggiare un frutto che lo alletta. (Ma guardi dove siamo andati a finire: nel vecchio giardino dell’eden, col vecchio Padreterno, il vecchio Adamo, la vecchia Eva, e il vecchio caro Satana serpente).»

 

La prima osservazione che ci sentiamo di fare é che Pizzetti, rendendosene conto oppure no, confonde due questioni profondamente diverse: quella circa la liceità del cogliere fiori (ma anche del cogliere frutti, funghi, del pescare e del cacciare) e quella relativa al maschilismo, che spinge certi uomini a disprezzare l’amore per i fiori e a considerare come cosa degna del loro sesso solo occuparsi di arboricoltura.

La prima questione, a sua volta, non ci sembra trattata correttamente: sia perché coglier fiori è cosa ben diversa dal cogliere frutti o funghi, e ancor più diversa dal praticare la pesca e la caccia - in questi ultimi casi si tratta di uccidere, per puro svago e divertimento, degli esseri viventi e non già cogliere delle parti della pianta che, comunque, hanno vita effimera e non autonoma -, sia perché la giustificazione addotta per tale pratica, quella del bisogno e del diritto di esprimere la propria animalità, suona ancor più stonata del roussoiano mito del buon selvaggio: se l’uomo, per amare veramente la natura, dovesse farsi “più animale”, allora non si capisce perché i fori in pericolo di estinzione andrebbero protetti con multe salatissime, com’egli stesso invoca. Se un fiore piace, piace e basta; e, se piace, la nostra parte animale lo vuol cogliere senz’altro, e pazienza per ogni considerazione di carattere ecologico.

Della seconda questione, quella del maschilismo, diremo fra un attimo.

A parte alcune affermazioni discutibili sul piano puramente tecnico, ma che Pizzetti adduce a sostegno delle proprie tesi (le Gimnosperme non hanno un vero fiore, ma uno strobilo, come le pigne dei pini e degli abeti; e Schubert non si capisce bene che ci faccia in compagnia di tanti scrittori), la sua tesi di fondo è che, per avere un rapporto profondo con la natura, bisogna fare piazza pulita di certa educazione cattolica (il “caro Satana” sarebbe piaciuto al Carducci prima maniera) e divenire quanto più possibile animali: toccare, odorare, manipolare, perfino gustare, se possibile, le creature del mondo naturale.

L’inevitabile domanda è: per avere un rapporto davvero profondo con la natura, è necessario togliere la vita ai fiori, ai pesci, agli uccelli e ai mammiferi? Non lo si può fare anche contemplandone l’intatta bellezza, rispettandone il diritto ad esistere, ammirando lo spettacolo che ci offrono nel pieno delle loro funzioni vitali, senza sentire l’irrefrenabile impulso di recidere lo stelo, gettare la lenza, puntare il fucile, predisporre il vischio e le reti?

Strana cosa, la polemica antimaschilista di Pizzetti: prima se la prende a morte contro quanti affermano che l’amore per i fiori è cosa piuttosto femminile che maschile (enunciato che a noi sembra piuttosto una constatazione di fatto e non implica alcun giudizio di merito, tanto meno in senso sessista), poi, come Hemingway, grande amante di caccia grossa, pesca altrettanto “grossa” e corrida, sostiene che non può entrare in intimo rapporto con la natura chi non senta il bisogno di ucciderne le creature: e siccome le donne, generalmente, un tale impulso non l’hanno (tranne quello di cogliere fiori), la tesi suona ancor peggio che maschilista.

Per Pizzetti, dunque, la natura non è, né dovrebbe essere, una specie di mostra sacro, difeso accanitamente da sacerdoti tanto inflessibili quanto bigotti; ma , secondo noi, non dovrebbe essere, per l’uomo, nemmeno un abito da indossare in qualunque stagione, ossia un qualcosa che si dice di amare e rispettare a parole, ma che poi si manipola, si prevarica e si saccheggia quanto pare e piace, in nome di svariati pretesti, che vanno dal naturale desiderio di appropriarsi della sua bellezza, alla reazione contro certi tabù cattolici risalenti alla faccenda di Adamo, Eva e del serpente.

Personalmente, ci sentiamo più vicini alla posizione di Albert Schweitzer, il quale, nel suo libro «Rispetto per la vita», affermava che il contadino il quale, falciando il campo di grano, ha reciso involontariamente anche moltissimi fiori, non ha nulla da rimproverarsi; ma non gli sarebbe lecito, al ritorno verso casa dopo la mietitura, cogliere per capriccio nemmeno un singolo fiore di campo, perché non è necessario e, dunque, nemmeno giusto.

Lasciamo da parte, in questa sede, la questione della nonviolenza e anche quella del vegetarianismo, perché il discorso si allargherebbe a dismisura; e, se concordiamo circa il fatto che certi sedicenti sacerdoti e custodi della natura hanno un che di sgradevolmente puritano, ossia di fanatico, non ne traiamo però la conseguenza che sia da preferirsi la situazione opposta: quella, cioè, in cui chiunque deve sentirsi libero di fare quel che vuole in nome di un ritrovato rapporto con la natura, non solo strappare fiori che moriranno in poche ore nel loro vaso o bicchier d’acqua, ma anche pescare e cacciare a piacimento, senza altra motivazione che il proprio spasso.

Questo, sì - ci spiace dirlo - è molto, troppo italiano, nel senso deteriore del termine (e senza alcuna sudditanza psicologica verso gli Inglesi, che Pizzetti cita continuamente, e un po’ stucchevolmente, come maestri inarrivabili questo ambito): proclamare la bellezza del ritorno alla natura, e poi ammettere e giustificare tali e tante eccezioni al dovere primo e fondamentale, quello di rispettare la vita e l’integrità delle sue creature, da svuotare completamente di significato e di qualsiasi credibilità la solenne affermazione di principio.

Lo abbiamo premesso: la situazione ambientale è cambiata, in questi ultimi decenni, e in peggio; e anche la sensibilità ecologica lo è, di conseguenza.

Ai tempi in cui Pizzetti scriveva i suoi articoli, non si parlava ancora, ad esempio, almeno in Italia, di birdwatching; ma che importa? Anche se non c’era la parola (perché l’italiano non era stato ancora colonizzato dall’inglese, grazie a quella tale sudditanza psicologica di certi nostri intellettuali), nulla impediva che si potesse amare di più lo spettacolo d’un uccello vivo, che riempie il bosco del suo canto e svolazza tra le fronde, che quello di un uccellino morto, ma mettere nel carniere e da mangiarsi poi, a casa, dopo averlo cotto in padella.

Questo, almeno, se davvero si desidera stabilire un rapporto profondo con la natura, che non sia soltanto estetico o viscerale (“animale”, diceva Pizzetti), ma razionale, nel senso migliore della parola: ossia da esseri umani dotati di ragione e volontà e guidati, nel loro agire, da valori e dalla capacità di compiere scelte morali.