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Decrescere è sano

di Sandro Veronesi - 26/02/2012




Caro Antonio Pascale, ho letto con attenzione il tuo articolo sulle parole-ameba (cioè quegli involucri verbali che, sostieni, «significano tutto e niente») comparso su queste pagine la settimana scorsa. Tu dici: «Il concetto di decrescita non trova spazio nei dipartimenti di economia, ma abbonda sulla bocca di quelli di noi che non hanno mai superato un esame di micro e macroeconomia». E io ti chiedo: perché dici questo? Vuoi forse suggerire che «quelli di noi» che lo menzionano non sanno di cosa stanno parlando? Non sai che fior di economisti (magari non nei dipartimenti universitari) stanno parlando di downshifting, decrescita e di riduzione da almeno tre decenni? E se le università non ne tengono conto, tu credi forse che abbiano ragione? Credi che in economia abbia valore solo quello che esce dai dipartimenti universitari?
Fai dei nomi, nel tuo articolo, il mio molto tangenzialmente e accompagnato da un complimento di cui ti ringrazio, altri con maggiore messa a fuoco, indicando in quelle persone il modello degli «egoisti» che predicano la decrescita degli altri per evitare la propria. E io ti chiedo: ma sei sicuro di quello che dici? Sono accuse gravi, con quali prove le sostieni? E quale responsabilità hanno avuto costoro nell’irrompere di due recessioni in tre anni? A meno che tu possegga dei dati che nel tuo articolo non hai fornito, la responsabilità di queste persone è pari a zero — ciò che non si può proprio dire dell’economia ortodossa, che è la principale responsabile del flusso di sofferenza che sta attraversando il mondo, per la semplice ragione che continua a basarsi su un modello fatiscente che non funziona più.
Ma davvero, caro Antonio, tu credi che il nostro attuale sistema possa ricominciare a produrre crescita solo perché la maggior parte dei dipartimenti universitari non prevede altra soluzione? Costruire un meccanismo che può andare solo avanti è di un’ingenuità imbarazzante, ma se l’invenzione della catena di Sant’Antonio dello sviluppo risale a un’epoca ingenua (20 gennaio 1949, discorso d’insediamento alla Casa Bianca del presidente Truman), il paradosso che imprigiona l’euro è stato concepito negli anni Novanta, quando il diritto a quell’ingenuità era scaduto da un pezzo. Eppure, come stiamo vedendo, i professori di economia chiamati a stabilire le regole d’ingresso nell’eurozona non hanno studiato nessun protocollo di uscita. Per loro la necessità di uscire dalla moneta unica non era un problema prevedibile — e tu te la prendi con chi invece questo problema se lo pone? Perché questo fanno, caro Antonio, quelli che additi nel tuo articolo: potrà anche non piacerti la via che indicano, ma almeno propongono qualcosa di un po’ più serio che alzare le tasse, smantellare lo Stato sociale e aspettare che passi ’a nuttata.
Tu dici anche: «Se diamo uno sguardo globale notiamo che benessere e reddito sono in crescita, aumenta la vita media e decresce la mortalità infantile. A questi cittadini del mondo, chi gli dice “dovete fermarvi”?». Perché dici questo? Non sai forse di star parlando non già di popoli, ma di ceti sociali in crescita? Non sai che la divisione Nord-Sud non separa più le nazioni tra di loro,ma divide internamente ogni singola società nazionale? Non sai che Nigeria, Thailandia e perfino Bhutan (dove la televisione è arrivata solo nel 1999) hanno la loro brava borghesia globalizzata che vive e consuma più o meno come la borghesia occidentale, solo che è molto meno nutrita numericamente — e che è in quelle poche mani che finisce tutta la ricchezza prodotta dai loro Paesi, cioè sono solo loro che crescono, mentre la gran massa degli «altri» non sta andando proprio da nessuna parte? E non hai letto una pietra miliare della sociologia politica, scritta da Herman Daly e John Cobb jr. e intitolata For the Common Good (Boston, Beacon Press, 1989), in cui si dimostra abbastanza incontrovertibilmente che il valore aggiunto prodotto dall’economia ufficiale in questi ultimi decenni (aumento del Pil, del reddito, dei consumi) si basa in buona parte sul valore sottratto ai beni comuni, sia sociali sia naturali? Surriscaldamento planetario, inquinamento atmosferico e idrico, dissesto idrogeologico, alterazione degli ecosistemi, scorretto smaltimento di rifiuti e scorie e via dicendo, fino al progressivo, spaventoso anticipo dell’età mestruale nelle bambine — chiedi ai medici di famiglia, Antonio: anche nove anni, per via degli ormoni contenuti nei cibi —, non sono fenomeni così facilmente quantificabili da poterli inserire in un’equazione, ma mi sorprende che tu non li menzioni neppure: non posso credere che tu appartenga alla schiera di coloro che li negano.
Dici anche: «Quanto siamo disposti a perdere in termini di reddito per salvare il pianeta dall’eccesso di desiderio?». Perché, questo? Non ti accorgi di quanto si stia già riducendo il nostro reddito — in assoluto, per via della recessione, e indirettamente, per via dell’aumento di tasse e prezzi? Davvero non ti accorgi di essere più povero di vent’anni fa? Io me ne accorgo tutti i giorni, e l’idea di perdere dei soldi per salvare il pianeta non mi spaventa certo, visto che ne sto già perdendo parecchi per distruggerlo.
Voglio ora consigliarti la lettura di due volumi usciti nella prima decade di questo secolo a cura di uno dei massimi studiosi di socioeconomia del mondo, Wolfgang Sachs, membro del Wuppertal Institut e addirittura ripetutamente titolare di cattedre universitarie, anche se non nelle facoltà di economia: Ambiente e giustizia sociale. I miti della globalizzazione (Editori Riuniti, 2002) e Per un futuro equoConflitti sulle risorse e giustizia globale (Feltrinelli, 2007). Non sono solo «raffinato eloquio», Antonio, e sono corredati da numeri, formule e grafici come piace a te. Sono studi rigorosi, e parlano di fatti e fenomeni che tu tralasci omostri di sottovalutare. Per esempio, quando dici che «purtroppo, è vero, le risorse disponibili sono in diminuzione, è necessario produrre meno input energetici», ma subito dopo, per uscire dal baratro che ti si è appena spalancato sotto i piedi, ricorri alla madre di tutte le parole-ameba, e cioè: innovazione. Ma cosa mai dovrebbe essere innovato, in un sistema che producemiseria laddove dovrebbe produrre ricchezza, se non il modello stesso? È chiaro che ti riferisci alle innovazioni scientifiche e tecnologiche, e allora io ti faccio un esempio: l’introduzione dell’asbesto nei materiali da costruzione, cioè dell’amianto, è stata senza dubbio una grande innovazione, in termini di prestazioni coibentanti fratto costi di produzione — peccato però che ci fosse un altro problema. Alla fine, ti chiedo, quell’innovazione ci ha fatto andare avanti o indietro? Guadagnare o perdere? No, caro Antonio, parlare di innovazione oggi, senza nemmeno accennare alla necessità di una ridefinizione del modello socioeconomico di riferimento, è sovranamente inutile, e fa venire in mente una battuta del grande Lenny Bruce, con la quale mi piace finire questo intervento: Ho inventato l’acqua in polvere, ma non so in cosa scioglierla.