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Tav, progresso, democrazia

di Francesco Lamendola - 05/03/2012


 


 

La vicenda relativa alla linea ferroviaria ad alta velocità che deve passare attraverso la Val di Susa, in seguito ad accordi internazionali intercorsi fra l’Italia e la Francia, per allacciare Lione e Torino e rendere più veloce lo spostamento delle merci a cavallo delle Alpi ed oltre, si presta a differenti livelli di riflessione.

Vi è un livello di riflessione ambientale ed ecologico: questa linea verrà realizzata attraverso un lungo percorso in galleria, che richiederà imponenti lavori di traforo nelle viscere delle montagne. L’impatto ambientale sarà fortissimo, nonostante le rassicurazioni che son state fornite, a suo tempo, sia da governi di centro-sinistra che di centro-destra, ai quali spetta la responsabilità di averla voluta ed impostata: non per niente una buona parte degli abitanti della valle, sindaci in testa, è contraria alla realizzazione dell’opera.

Ed ecco che la riflessione diventa, inevitabilmente, di ordine sociale e politico.

Gli Italiani, notoriamente, non vorrebbero mai accettare davanti a casa propria delle opere pubbliche che modifichino in peggio l’ambiente, anche se necessarie alla comunità: individualisti oltre ogni misura, non pensano mai alla comunità nazionale e nemmeno a quelle dei paesi vicini, ma solo a quella della propria sfera immediata.

Se dipendesse dalla volontà popolare, in Italia non si farebbe mai alcuna opera pubblica: salterebbe sempre su qualche paesino, qualche quartiere, qualche famiglia a protestare e a dire: fatela pure, ma non davanti a casa nostra; fatela pure, ma andate un po’ più in là. Non ci sarebbero discariche, non ci sarebbero inceneritori, non ci sarebbero ripetitori, non ci sarebbero tralicci dell’alta tensione: tutte cose senza dubbio sgradevoli, ma necessarie.

È questa la democrazia? È la possibilità, per dieci o cento persone, di bloccare una cosa utile e necessaria per mille o per diecimila? È la possibilità, per ogni singolo campanile, di ridurre all’impotenza più totale qualsiasi governo, che viene eletto dai cittadini per fare le cose di cui vi è bisogno e non per scaldare le sedie dei ministri?

Senonché, il punto è proprio questo: chi decide quando un’opera è realmente necessaria, quando è realmente indispensabile? In Francia, negli ani passati, hanno costruito più di cinquanta centrali nucleari, per poi accorgersi che era uno sproposito. In Italia, le proteste popolari hanno bloccato anche le tre o quattro previste per alleviare il nostro disperato fabbisogno energetico; e, alla luce di fatterelli come Cernobyl e Fukushima, si è visto che la ragione stava dalla parte di chi protestava, non di chi pianificava: fermo restando, e ovviamente insoluto, il problema dell’approvvigionamento energetico.

Ora la domanda è: la Tav della Val di Susa è realmente utile, beninteso valutando in maniera adeguata i costi e i benefici? È realmente necessaria, è realmente indispensabile, come ci è stato detto dai precedenti governi, e ripetuto da quello attuale? Oppure si tratta dell’eterno, monotono ricatto del Progresso: «o fare la Tav, oppure retrocedere verso l’Africa, verso il Terzo Mondo?». Ci era stato detto anche al momento di entrare nell’euro: però ci è mancato poco, pochissimo, che in Africa retrocedessimo per davvero, e non per essere rimasti fuori dall’euro, ma per avervi aderito; la Grecia sta già facendo questa fine, e non è detto che il pericolo, per noi, sia passato.

Come si vede, il problema politico si sdoppia, a sua volta, in due sotto-problemi: uno è se questo tipo di opere pubbliche siano realmente necessarie; un altro è che a gestirle dovrebbe essere la nostra classe dirigente, la quale, lo si è visto fin troppe volte, non offre alcuna garanzia di saperlo fare in maniera appropriata.

Quel che vogliamo dire è che, ammesso e non concesso che un’opera come la Tav sia necessaria per gli interessi superiori della nazione (non precisamente per quelli dei valligiani direttamente coinvolti), a realizzarla non saranno tecnici, politici e imprenditori tedeschi: saranno tecnici, politici e imprenditori italiani; il che non offre certo una garanzia che le cose verranno fatte come andrebbero fatte, sotto ogni punto di vista.

Sotto il punto di vista del dissesto idrogeologico: qualcuno si ricorda ancora del Vajont e dei suoi duemila morti? Si trattava di costruire una immensa diga, la quinta più alta al mondo e la seconda ad arco, alle pendici di una montagna che tutti sapevano essere franosa, come diceva e dice il suo stesso nome: Monte Toc. Quanto buon senso, quanta professionalità e quanta coscienza vi fossero in un progetto de genere, lo si è visto alla luce del disastro che ne è derivato: ma che era, purtroppo, come spesso avviene nel nostro Paese, un disastro assolutamente annunciato, tanto è vero che gli abitanti di Longarone e dei paesi vicini se lo aspettavamo da un momento all’altro.

Sotto il punto di vista economico: qualcuno si ricorda ancora che quello stesso governo, che ha portato avanti la fase iniziale dei lavori della Tav, aveva annunciato, con colpi di grancassa e rullo di tamburi, la costruzione del famigerato ponte sullo Stretto di Messina, che avrebbe dovuto immortalare in saecula saeculorum la gloria e la memoria dell’imperatore Silvio Berlusconi? Quante pubblico denaro è già stato dilapidato nelle operazioni preliminari del folle progetto, nato dalla mente di un megalomane e assecondato da uno stuolo di servitori in uniforme da ministri e da parlamentari?

In Italia, la realizzazione di un’opera pubblica viene affidata all’impresa che presenta il preventivo più basso, cioè più conveniente per lo Sato: peccato che, fra il progetto e la consegna finale, il preventivo lieviti sistematicamente di due, tre, quattro volte rispetto alla cifra iniziale; e nessuno ci trova niente di strano, nessuno apre delle inchieste, nessuno trascina in tribunale, a render conto del loro operato, gli scialacquatori del pubblico denaro.

E poi queste facce di bronzo hanno pure il coraggio di affermare che loro non mettono le mani nelle tasche degli Italiani: come se quegli stadi lasciati a metà, quelle autostrade che avanzano di mezzo metro alla settimana, quegli ospedali che cadono a pezzi prima ancora di essere entrati in funzione, quelle scuole costruite con il cemento armato di sabbia, ma costate egualmente carissime, non fossero finanziati dalle tasche dei contribuenti!

Insomma: se potessimo essere certi che una determinata opera pubblica, dannosa per gli equilibri ambientali, ma realmente necessaria, sarà, almeno, realizzata nel modo più intelligente, sì da produrre l’impatto minore possibile, e, al tempo stesso, non costerà un euro in più di quanto preventivato, non diventerà una gigantesca occasione di banchetto per politici, funzionari e amministratori disonesti, non darà luogo ad intrallazzi vergognosi e a macroscopici conflitti d’interesse (come quando un governo affida il ministero dei lavori pubblici a un imprenditore che lavora precisamente in quel settore) o che, addirittura, non fornirà occasioni di lauti guadagni alle organizzazioni malavitose, come la mafia e la camorra, allora potremmo metterci il cuore in pace e, sia pure con qualche perplessità, lasciare che il governo vada avanti per la sua strada.

Ma in Italia, oggi, esistono queste pre-condizioni? Abbiamo queste garanzie di correttezza, di onestà, di dedizione al pubblico bene, da parte della nostra classe dirigente? Possiamo arrischiarci a mettere tutti quei soldi nelle mani di lorsignori; possiamo fidarci della serietà e della imparzialità delle loro perizie e dei loro progetti; siamo certi che ogni cosa sarà fatta nel modo migliore, ossia nel rispetto della legalità e del superiore interesse della comunità nazionale?

E adesso veniamo alle riflessioni di ordine ancora più ampio, cioè filosofico.

Un’opera come la Tav si inscrive nel paradigma dello Sviluppo e del Progresso illimitato, nel paradigma della Crescita continua: presuppone che si debba viaggiare, uomini e merci, sempre di più e sempre più in fretta; che ogni cosa debba essere pianificata e realizzata in senso ultra-efficientistico ed ultra-produttivistico; che l’economia sia più importante di qualunque altra cosa, di qualunque altro bene, di qualunque altro valore: che le banche, il denaro, il profitto, siano divinità assolute e gelose, e che non avremo altro Dio al di fuori di esse.

Si può essere d’accordo, oppure no: siamo in democrazia, appunto. Però bisogna essere coerenti, comunque la si pensi.

Se si ritiene che vi siano altri valori più importanti del Progresso e del Denaro, allora non si può protestare, onestamente, contro la realizzazione di opere del genere e però, al tempo stesso, non modificare in nulla uno stile di vita improntato al consumo frenetico, al viaggiare superfluo, allo spreco energetico, e così via.

Non si può essere contro la Tav e poi andare ogni sabato al centro commerciale; portare i bambini a scuola o andare a far la spesa con il Suv o la Range Rover; fare una scappatella turistica ogni due o tre mesi a Londra o New York con i voli low cost (low cost per il singolo viaggiatore, non certo per la comunità nazionale che li finanzia). Esattamente come gli abitanti dei piccoli centri non possono sfruttare le occasioni di lavoro e di consumo del grosso centro limitrofo, e poi rifiutare, nel loro territorio comunale, la costruzione di una discarica o di un inceneritore per smaltire i suoi rifiuti: non si può dire di sì ai vantaggi e dire di no agli inconvenienti. C’è un prezzo da pagare in ogni cosa, in ogni scelta.

Siamo disposti a modificare radicalmente il nostro stile di vita, a riscoprire uno stile basato sulla sobrietà, sul riutilizzo, sull’impiego di sostanze e materiali ecologici o, comunque, compatibili con l’equilibrio ambientale, dai farmaci all’abbigliamento, dai giocattoli all’edilizia?

Se sì, allora dobbiamo ridurre i consumi inutili, ridurre gli sprechi: puntare sulle energie rinnovabili, sui pannelli solari, sulle biomasse: ma poi non bisogna fare cortei e proteste perché non vogliamo i pannelli solari vicino a casa, o perché ci disturba l’odore delle biomasse. Dobbiamo assumerci le conseguenze delle nostre scelte, con un minimo di coerenza.

Sul piano politico, dobbiamo mandare a casa una classe dirigente penosamente inadeguata, sconciamente avida e corrotta: perché, con una classe dirigente come quella attuale, non si va da nessuna parte.  

Parliamoci chiaro: una classe dirigente così, non la vorrebbe nessuno; e nessuno ha fiducia in essa. Il dramma dello spread ha qui la sua radice: se l’Italia stava per fare bancarotta, la causa principale risiedeva nella disistima che gli altri Pesi avevano nei confronti dei nostri governanti, dei nostri banchieri, dei nostri dirigenti d’industria.

Gente con una mentalità feudale, che vorrebbe solo i vantaggi del potere - profitti sicuri e garantiti, pubblici finanziamenti a pioggia, nessuna “seccatura” dalle controparti sociali -, ma che non è disposta ad assumersi nessun rischio, specialmente in tempi di vacche magre. Gente che fugge con i capitali all’estero, magari nascosti in fondo alla valigia; gente che fugge come Vittorio Emanuele III fuggì da Roma, la mattina del 9 settembre 1943, piantando in asso baracca e burattini: con quali conseguenze per il Paese, lo sappiamo fin troppo bene.

Ma per avere una classe dirigente degna di questo nome, bisogna essere un popolo degno di questo nome. La tragedia non è avere dei politici, degli amministratori o dei banchieri cinici o disonesti; la tragedia è non avere nessuno da mettere al loro posto, perché tale è il livello medio di moralità e di competenza dell’intera comunità nazionale.

In un Paese serio, come la Germania, basta la minima infrazione al patto di fiducia fra eletti ed elettori, perché i primi debbano lasciare le poltrone in un batter d’occhio. Noi, invece, tolleriamo tutto, scusiamo tutto, perfino ci scherziamo sopra: e, così facendo, mostriamo di non meritare di essere trattati meglio dalla nostra classe dirigente; di non essere degni di essere rappresentati e governati da qualcuno che sia onesto e competente.

La vicenda della Tav, dunque, porta allo scoperto una serie di nodi strutturali, rimasti perennemente irrisolti, non solo della nostra politica e della nostra amministrazione, ma anche della nostra cultura, della nostra morale, del nostro vivere civile.

E a tutto ciò si aggiunga una stampa e una televisione che non informano, ma disinformano: asserviti ai vari poteri economici, per lo più direttamente interessati alle vicende che dovrebbero raccontare con imparzialità, molti, troppi giornalisti si limitano a belare, a muggire e a ragliare, secondo la bacchetta dei rispettivi direttori d’orchestra.

«Libero» e il «Giornale» hanno fatto a gara nel buttare in ridere o nel fare oggetto di giudizi impietosi e sprezzanti l’incidente che ha visto ridotto in fin di vita un manifestante no-Tav, precipitato da un traliccio dell’elettricità. Al di là del giudizio politico che si vuol dare di quelle proteste, tanto cinismo è semplicemente rivoltante: definire “cretinetto” un essere umano che lotta, in ospedale, tra la vita e la morte, è cosa che si qualifica da sola.

Roba da Terzo Mondo, appunto; roba di cui una opinione pubblica matura dovrebbe vergognarsi, comunque ciascuno la pensi.

C’è un livello di decenza morale, al di sotto del quale non si dovrebbe mai scendere: mai, per nessuna ragione al mondo.

E non solo per quel che riguarda una vicenda contingente, come il fattaccio verificatosi durante le proteste contro la Tv in Val di Susa, ma per quel che concerne il senso e il valore della vita associata; a meno di voler regredire al livello di una tribù di cannibali, al livello di un branco di belve feroci: sempre pronti a sbranarsi l’un l’altro, senza rispetto nemmeno per il corpo dell’avversario morto.