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Echi di Weimar

di Giacomo Gabellini - 12/03/2012


La proposta di legge finalizzata ad introdurre il vincolo del pareggio di bilancio nella Costituzione italiana, già approvata alla Camera, appare destinata a ottenere la ratifica da parte del Senato. Una ratifica che aggirerebbe l’ostacolo del referendum confermativo qualora i due terzi dei senatori concedano il proprio voto favorevole.
Il pareggio di bilancio – ovvero un equilibrio tra entrate ed uscite – che Angela Merkel e i suoi connazionali pretendono da tutti i paesi dell’Eurozona si accinge quindi a divenire un obbligo giuridico, soppiantando il principale obiettivo prefissato da John Maynard Keynes, secondo il quale uno Stato si sarebbe dovuto preoccupare prioritariamente di adottare le misure necessarie ad equilibrare l’intero ciclo economico. L’Italia sta quindi assecondando le pretese avanzate da Berlino, scaturite da una falsa e tendenziosa analisi della difficile situazione vigente che individua nella cosiddetta “esosità” di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (i cosiddetti “PIIGS”) l’origine della stessa crisi economica che minaccia di affossare l’Eurozona.
L’ossessione tedesca per il rigore dei conti pubblici appare come un riflesso condizionato risalente alla Repubblica di Weimar, con una Germania uscita sconfitta dalla Prima Guerra Mondiale ed umiliata al tavolo di Versailles.
Allora, i corrotti e parassitari parlamentari della Repubblica di Weimar assecondarono i principi basilari del mantra liberista spalancando le porte della Germania al “mercato” così da agevolare un afflusso di capitali internazionali, che piovvero puntualmente attratti dall’esorbitante offerta di manodopera a basso costo.
Tale manodopera a basso costo stimolò orde di imprenditori a contrarre i debiti necessari ad ammodernare le proprie aziende, e nell’arco di pochi mesi grandi complessi industriali andarono a sostituirsi alle vecchie fabbriche, incoraggiando un pesante esodo di massa verso le grandi città, che innescò un immediato boom edilizio capace di sortire le parallele ripercussioni, in termine di rincaro (si parla di qualcosa come il 600%), sui prezzi dei terreni edificabili. I burocrati di Weimar abolirono con un colpo di spugna il calmieraggio degli affitti e del costo dei terreni, rimpinguando corposamente le tasche dei palazzinari a scapito di milioni di cittadini e creando le condizioni idonee affinché la bolla speculativa legata all’edilizia e al valore dei terreni si gonfiasse a dismisura, per poi scoppiare con grande fragore.
Gli imprenditori tedeschi avevano opposto ai segnali d’allarme che arrivavano continuamente le solite contromisure, che sono il licenziamento di massa e la riduzione dei salari, in ottemperanza alle direttive impartite dai padri del liberismo, secondo cui l’impoverimento della classe operaia avrebbe provocato un’impennata dell’offerta di manodopera a basso costo, attirando l’attenzione degli investitori. Escogitando stratagemmi per razionalizzare la produzione, essi non fecero altro che abbattere i costi per sfornare sempre più merci destinate a rimanere invendute a causa della drammatica perdita del potere d’acquisto dei salari dei lavoratori.
I costi incomprimibili continuarono però a lievitare, ed andarono così a sommarsi all’inevitabile calo di profitti. L’inflazione iniziò a galoppare, milioni di tedeschi si ritrovarono disoccupati e decine di banche fallirono a causa dell’insolvenza degli imprenditori cui avevano concesso credito. A beneficiare di questo sfacelo fu un nugolo di proprietari terrieri in combutta con la grande finanza internazionale, mentre i lavoratori tedeschi sprofondarono nella miseria più nera. I celeberrimi studiosi che ancora oggi si interrogano sul cosiddetto “enigma del consenso” che i tedeschi accordarono ad Adolf Hitler tendono sovente ad ignorare che l’ascesa al potere del nazionalsocialismo si stagliò sullo sfondo di questa realtà, che i paesi vincitori della Prima Guerra Mondiale e gli inadeguati parlamentari di Weimar concorsero primariamente a plasmare.
E’ quindi comprensibile che Berlino si prodighi per impedire che si instaurino condizioni similari a quelle che provocarono il crollo della fallimentare Repubblica di Weimar e gettarono le basi per il trionfo del nazismo, ma occorre sottolineare il fatto che la Germania sta perseverando nei medesimi errori commessi allora, ricorrendo alla consueta ricetta liberista per tentare di porre rimedio a una situazione che va progressivamente aggravandosi e che dimostra ogni giorno di più gli enormi limiti di quella particolare dottrina economica assurta allo status di dogma. Oggi come allora i governi di Berlino che si sono succeduti negli ultimi anni hanno adottato misure capaci di produrre una forte deflazione salariale, provocando un inevitabile calo di consumi interni che ha di fatto consentito a Berlino di orientare i propri sforzi sul potenziamento dell’export.
La contrazione degli stipendi in Germania è all’origine del calo – pari al 15% circa – della domanda interna, ma Berlino ha potuto sfruttare la mancanza di unità politica da parte dell’Unione Europea per avvalersi dai vantaggi garantiti dal dumping fiscale effettuato nei riguardi di paesi come la Grecia.
I medesimi burocrati di Weimar adottarono le stesse misure deflazionistiche comprensive di tagli sulle retribuzioni pubbliche e sulle pensioni proprio per evitare di creare “caos contabile” e di infilare quindi la Germania nella mortale spirale inflazionistica. La storia ha ampiamente dimostrato che questo rigore non ha affatto evitato l’avvento della terribile inflazione degli anni ’30 ed appare pertanto paradossale che Angela Merkel e i suoi compatrioti continuino a pizzicare ossessivamente la sola corda del debito pubblico.
Nel caso specifico va infatti evidenziato il fatto che proprio la Germania ha registrato un’esorbitante impennata – pari a circa 750 miliardi di euro – di debito pubblico nel corso dell’ultimo decennio.
Tale esplosione del debito è principalmente dovuta alle spese effettuate per sostenere i consumi interni, come nel caso degli incentivi per la rottamazione, i quali sono stati iscritti nel novero degli investimenti a sostegno della tecnologia “ecologica” malgrado si tratti di puri e semplici esborsi di denaro pubblico a sostegno dell’industria automobilistica, erogati per mantenere inalterato il livello di consumi interni. La Germania, inoltre, ha ripetutamente oltrepassato la fatidica soglia del 3% nel rapporto tra deficit e Prodotto Interno Lordo, senza che la Commissione Europea effettuasse alcun intervento (presumibilmente a causa del “lavoro ai fianchi” operato da Berlino) ed ha stanziato oltre 90 miliardi di euro per salvare gli istituti di credito tedeschi dalla bancarotta.
Il risultato di questa spesa è che il rapporto tra debito e Prodotto Interno Lordo ha sforato di ben 23 punti il limite massimo – pari al 60% – stabilito a Maastricht nel 1992. Il che sta a significare che la crescita repentina del debito pubblico è sempre legata a squilibri interni di altra natura e che quindi, più in generale, tale indicatore rappresenta il più affidabile indice dello stato di salute delle attività che si svolgono in ambito nazionale.
La Germania se ne accorgerà bruscamente poiché, proprio come accadde all’agonizzante Repubblica di Weimar, il problema non è la caduta. Ma l’atterraggio.