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Negare la verità dei propri sentimenti è cosa meno grave che ammetterla solo a metà

di Francesco Lamendola - 23/03/2012


 

 

Esistono almeno sei possibili atteggiamenti nei confronti della propria verità interiore, della verità dei propri sentimenti.

Il primo, che potremmo definire nichilista, è quello di negare la possibilità che tale verità sia da noi attingibile; o, addirittura, che essa esista, cioè che esista UNA verità, in luogo delle molte che si sovrappongono e si intrecciano contemporaneamente e inestricabilmente, a volte anche in maniera palesemente contraddittoria (e questa variante del primo atteggiamento potrebbe essere definita come relativista).

Il secondo, che potremmo chiamare indifferente, o anche superficiale, è quello di riconoscere che essa esiste, ma di agire come se non esistesse; di ignorarla, puramente e semplicemente, e di procedere a seconda del capriccio del momento, senza alcuno scrupolo di coerenza, di lealtà, di trasparenza, né verso se stessi, né verso gli altri.

Il terzo, che potremmo chiamare ipocrita, è quello di distorcerla a nostro uso e consumo, secondo il nostro comodo e la convenienza del momento: per esempio, riconoscendola quando essa risulti compatibile con i nostri interessi e i nostri piani, oppure con l’immagine che vogliamo avere di noi stessi, e negandola quando rappresenta un ostacolo o un fardello.

Il quarto, che potremmo definire solipsista, consiste nel fabbricarci una verità su misura, di volta in volta, negandola o capovolgendola se ciò appare utile o necessario; di solito ciò avviene in maniera sostanzialmente inconsapevole, per cui questo atteggiamento si distingue dal precedente per la “bona fides”; ma attenzione: si tratta di una sincerità del tutto soggettiva.

Il quinto atteggiamento, che potremmo definire cinico, è quello di chi riesce a vedere, almeno a grandi linee, la verità del proprio sentire, ma la tiene celata agli altri e, in una certa misura, anche a se stesso, per non perdere il vantaggio che gli deriva dal tenere nascoste le proprie carte, specialmente se ha a che fare con persone leali e sincere, disposte a scoprirsi.

Il sesto atteggiamento, che possiamo chiamare consapevole, è, appunto, quello che contraddistingue una persona la quale abbia raggiunto un livello minimo di consapevolezza: essa è in gradi di leggere in se stessa, lo può fare e lo vuole fare, e non ha alcuna intenzione di barare al gioco, raccontando a se stessa o al prossimo una verità di comodo.

Sei atteggiamenti nei confronti del “conosci te stesso”, sei caratteri, sei tipi psicologici e morali: il nichilista (e il relativista), l’indifferente o superficiale; l’ipocrita; il solipsista; il cinico; il consapevole.

Solo il sesto rappresenta un tipo umano spiritualmente evoluto; non diciamo “perfetto”, che sarebbe troppo: il tipo evoluto ha le sue brave debolezze, le sue temporanee infedeltà, le sue crisi di scoraggiamento: però, fondamentalmente, non viene mai a patti con la propria coscienza, non transige con i principî, primo fra tutti la fedeltà alla propria verità interiore. Semplicemente, non ritiene che essa sia in vendita, né che si possa tacitarla con versioni addomesticate.

Esistono, poi, diverse sfumature del sesto tipo, a seconda della strada che ha percorso sulla via della consapevolezza (ed è una via che non finisce mai, fino all’ultimo giorno della vita umana) e a seconda della sua capacità di mettere a frutto le occasioni, ivi comprese le cadute e gli errori. Il tipo inferiore si muove ancora in una zona ambigua, tra la verità e la menzogna; quello superiore, procede con passo ormai sicuro - anche se, talvolta, affaticato - verso una coerenza sempre più netta, sempre più chiara, fra il sentire, il pensare, il parlare e l’agire.

Ora, la domanda che vogliamo porci in questa sede è se sia preferibile una capacità di vedere, riconoscere ed esprimere una mezza verità, oppure se, rispetto ad essa, non siano da preferirsi addirittura l’ignoranza completa, la menzogna aperta  e, magari, consapevole, insomma l’ipocrisia e il calcolo sfacciati.

Prendiamo il caso di una donna che sia indecisa fra l’amore di due uomini; o, per dir meglio, che amai entrambi e non sappia, né voglia scegliere, perché non si sente di rinunciare a nessuno dei due. È una situazione assai più frequente di quel che non si pensi, anzi, è una situazione che, per certi soggetti - sia donne che uomini - si presenta più di una volta nel corso della vita; e, come tutti i nodi irrisolti dell’anima, tornerà a presentarsi, ancora e ancora, perché non le circostanze esterne, ma fattori che agiscono dall’interno, la mettono in moto senza posa.

Premettiamo che non ci interessa emettere alcun giudizio di valore sui sentimenti: i sentimenti esistono, questo è il fatto, questa é la verità interiore; e, a monte di essi, esistono gl’impulsi e gl’istinti.

Chi non riesce a convivere con essi, dovrebbe intraprendere un percorso radicale di chiarificazione; il guaio è che ci sono così pochi medici dell’anima in giro, e così pochi che non siano venali; e, inoltre, che il vero percorso di guarigione è quello che parte da noi stessi, ma qui appunto si palesa il circolo vizioso, perché chi non ha la capacità di fare chiarezza entro di sé, tende per forza di cose a cercare un sostegno fuori di sé.

Prendiamo, dunque il caso sopra descritto, di una donna divisa fra due amori.  Abbiamo scelto questo caso non per misoginia, ma perché la donna, più dell’uomo, possiede una vita interiore sfumata e complessa, in cui simili casi si danno con una certa frequenza. Non stiamo parlando del puro e semplice tradimento fisico, ma di qualcosa di molto più sottile; stiamo parlando della possibilità di amare più persone nel medesimo tempo - di amarle sessualmente, sia chiaro, oltre che affettivamente e spiritualmente.

Vi sono molte persone che non esitano a parlare apertamente di simili conflitti interiori e che amano quasi esibirli, evidentemente pensando che tale sincerità sia un titolo di merito. Un celebre esempio maschile è quello delle «Confessioni» di Rousseau (e, prima di lui, quelle di Agostino, ma con la non piccola differenza: che quelle del secondo trovano posto all’interno di un discorso filosofico profondo e originale; quelle del primo, non vanno oltre un esibizionismo e un narcisismo di dubbio gusto).

Di esempi femminili se ne potrebbero fare molti, specie negli ultimi anni, quando, dopo la cosiddetta “liberazione sessuale”, molte scrittrici, come Erica Jong o Germaine Greer, hanno ritenuto utile e interessante rendere edotti i propri lettori circa le loro vicende amorose più intime e le loro prestazioni di genere più privato, tanto eterosessuali che omosessuali.

Prendiamone dunque uno a caso, che non è di una femminista, ma di una giornalista tedesca trapiantata in Africa, dove si è sposata con un guerriero Samburu del Kenya: Christiana Hachfeld-Tapukai, che alle proprie vicende sentimentali ha dedicato un libro di successo: «Con l’amore di una leonessa. La mia vita con un guerriero Samburu» (titolo originale. «Mit der Liebe einer Löwin», 2004).

Il fatto che il triangolo amoroso sia complicato dal fatto della diversa provenienza etnica e culturale non è importante, dal punto di vista della sincerità del “conosci te stesso”; così come non lo sono le complicazioni “magiche” dovute a un probabile caso di malocchio, ampiamente descritto nel libro (e che, in verità, ne costituisce la parte più interessante; perché in Africa, e non solo in Africa, tali pratiche esistono ancora, e producono effetti sorprendenti).

È più importante il fatto che l’Autrice si dia l’aria di voler raccontare, come si direbbe davanti a un giudice, tutta la verità e nient’altro che la verità, dato che ella intrattiene il lettore anche su numerosi particolari intimi e sempre con una certa aria ammiccante, come se si ritenesse molto franca e molto coraggiosa nel mettersi a nudo in tal modo.

A dire il vero, si tratta di una sua libera scelta: la verità dei propri sentimenti andrebbe rivelata, secondo noi, alla persona cui sono diretti e non ad altri, tanto meno ad un pubblico sconosciuto di lettori, e meno che meno per ragioni di interesse economico; senza voler fare del moralismo, ci sembra che vi sia qualcosa di turpe nel raccontare i dettagli della propria vita amorosa e coniugale a centinaia di migliaia di perfetti sconosciuti, attraverso le pagine di un libro che non ha, oltretutto, finalità scientifiche di alcun tipo, ma solo e unicamente di tornaconto privato.

Ciò detto, il punto è questo: posto che una persona, in questo caso una signora non più giovanissima (dice lei stessa che la ragazza indigena che le insidiava il suo bel marito, dal bel sedere e dai bei muscoli, eccetera, doveva avere circa trent’anni meno di lei), decida di metterci a parte di tutti i suoi segreti d’alcova, cosa che potrebbe benissimo risparmiarci; posto che voglia farlo, dicevamo, il lettore ha il diritto di pretendere che ella sia veramente sincera con se stessa e anche con lui, che insomma racconti la verità tutta intera, e non solo a metà.

Una mezza verità è peggio di una bugia: è una bugia ipocrita, che non ha il coraggio di essere menzognera sino in fondo; e per questo è peggiore: perché si dà le arie di essere la verità, mentre non è che una verità mutilata e, dunque, ingannevole. La signora in questione dice molte cose dei propri sentimenti; quando si tratta del suo agire pratico, invece, rimane discretamente nel vago; forse vorrebbe essere ammirata per aver osato tanto, lei, bianca, ammettere di aver desiderato e amato degli uomini di colore, ammirandone prima di tutto il fisico statuario. Invece si sente che, nel suo racconto, qualcosa manca: qualcosa di essenziale.

In particolare, la Hachfeld si dilunga, con toni patetici, sulla tragica malattia che porta alla morte il suo secondo uomo, un musicista zairese molto colto e sensibile, che l‘aveva consolata quando suo marito, il bel guerriero della foresta - una specie di Tarzan personale, docile e remissivo, oltretutto molto più giovane di lei, che si era assicurato con il suo ascendente di donna bianca, sofisticata, cosmopolita e ben provvista di denaro, in un paese di tribù poverissime e sottoposte alle periodiche siccità della savana - aveva cominciato a maltrattarla, inspiegabilmente, forse per perfetto di una operazione magica operata da una donna che avrebbe voluto fargli prendere come seconda moglie la propria giovane figlia.

Ella si attarda a spiegare che per entrambi gli amanti sentiva un sentimento assai vivo: più simile a una profonda amicizia con il musicista, più immediato e spontaneo con il guerriero tribale; non viene però mai al punto, anche se alcuni indizi, da lei lasciati cadere qua e là, lo tradiscono involontariamente (questa, ameno, è l’impressione che se ne ricava): che, cioè, sarebbe stata felicissima di tenerseli entrambi, perché, come la Donna Flor dell’omonimo romanzo di Jorge Amado, il musicista è con lei un perfetto gentiluomo, mentre “Tarzan” deve essere un fenomeno sotto le lenzuola. E non sceglie, infatti: è la morte a scegliere per lei: la morte del giovane zairese, che schiude alla matura signora tedesca il ritorno dal marito abbandonato, ma non mai rassegnato al definitivo distacco.

Sia come sia, la Hachfeld parla di grandi sentimenti, di molte lacrime, di intensi travagli interiori; più volte depreca la propria educazione europea, che le ha reso così difficile riconoscere quel che prova realmente; però quel che prova realmente, si direbbe che non l’abbia mai riconosciuto sino in fondo. Non son i grandi sentimenti che la mettono in agitazione e la rendono una donna intimamente lacerata, ma la nostalgia delle potenti carezze del vigoroso guerriero Samburu, una specie di Mrs. Crocodile Dundee indigeno, che ella ha deciso di tenere al guinzaglio, sfruttando i vantaggi della maggiore età, della maggiore cultura, della disponibilità di denaro.

Nel ricordo struggente e tormentoso di quelle carezze ella finisce per perdonare al suo Tarzan privato non solo le botte ricevute e il furto dei suoi risparmi, nonché le frequenti ubriacature di lui, ma anche il fatto di aver perso il bambino che aveva in  grembo a causa di quelle botte, e di non poter più avere figli (ne adotteranno cinque oltre ai due che la signora già aveva dal primo matrimonio, in Germania, avanti di restare vedova).

Non che tali cose siano particolarmente interessanti per il lettore, lo ripetiamo; anzi, lo sono pochissimo,  ma il punto è: se qualcuno vuole raccontare la propria verità interiore sino in fondo, gettando alle ortiche la riservatezza e il pudore, ebbene, allora che lo faccia per davvero, e non solo a metà. O si è sinceri del tutto, o non lo si è affatto; ed essere sinceri vuol dire mettere a nudo tutto quel che si prova, non solo la parte più nobile e presentabile, ma anche quella più primitiva e imbarazzante.

Piuttosto, è preferibile il comportamento di quelle persone che negano apertamente, a dispetto di ogni evidenza, la verità dei propri sentimenti; che negano, ad esempio, di amare qualcuno, dopo avergli mandato numerosi segnali del contrario, sia in pubblico che in privato. Non è veramente difficile essere sinceri con se stessi, se si ha il coraggio di andare sino in fondo: in ogni caso, ne vale la pena, una volta che ci si è messi su quella strada.

Dire le cose a metà; dire e non dire; dire e negare; dire con gli occhi, ma non con la bocca; dire coi gesti, ma non con le parole: questo è brutto e condannabile. È indice di un’anima poco evoluta, poco consapevole, ma che crede di esserlo: il tipo umano più pericoloso, quello che fa più danni a se stesso e agli altri.

Nel romanzo autobiografico di Enzo Bettiza, «Esilio», si racconta di una giovane professoressa di liceo che stuzzica in ogni modo, ma senza mai scoprirsi apertamente, il proprio alunno preferito. Gli accarezza i capelli, ogni giorno, a lungo, davanti a tutti; poi, di colpo, lo fa morire di gelosia, ignorandolo bruscamente e rivolgendo tutte le sue attenzioni ad un altro scolaro, che peraltro sembra poco gradirle; in breve: fa impazzire il poverino, che, infatti, a un certo punto cede alla tensione nervosa e, per due volte, fa delle scenate in mezzo alla classe.

Finalmente quella strana insegnante sparisce dalla vita del ragazzo: a metà dell’anno scolastico, molla tutto e se ne va a fare la crocerossina volontaria per la guerra d’Etiopia (siamo nel 1936); gli manda, mesi dopo, una lettera, in risposta a quella che lui, avvampando di vergogna, le aveva indirizzato durante una specie di malattia nervosa, che lo aveva tenuto a casa per parecchio tempo. Un chiarimento, dunque, e sia pure a riflettori ormai spenti; un atto di coraggio, di onestà, di schiettezza? Nemmeno per sogno: anche in quella lettera, in cui, ormai, la donna non ha più nulla da perdere, anche perché ormai non vedrà mai più quel suo alunno del liceo di Zara, si esprime in maniera obliqua e allusiva, dice e non dice, sembra dire e poi nega; non scioglie il nodo fino all’ultimo, non confessa apertamente, come ha fatto il ragazzo a suo tempo, che quel che provava era amore.

Eppure, una tale confessione sarebbe stata l’unico atto di verità, capace di riscattare un comportamento, per altri versi, a dir poco censurabile; anche se certe cose, nella scuola, sono sempre accadute e, senza dubbio, sempre accadranno, resta il fatto che un insegnante non dovrebbe mai abusare della condizione di superiorità che gode rispetto ai suoi allievi, e tanto meno nella sfera dei sentimenti privati. Ma dire con franchezza, e sia pure da lontano e a distanza di tempo: «Ho perduto la testa!», questa bella sincerità riscatterebbe gran parte di un simile errore.

Invece no.

Vi sono molte persone che agiscono così: scagliano il sasso e poi nascondono la mano; giocano con i sentimenti altrui, perché non sanno leggere nei propri; e, quando incominciano a farlo, si ritraggono spaventate, negano furiosamente, mentono, o, peggio, buttano fuori delle mezze verità, che non fanno bene né a loro, né all’altro.

Perché la verità negata, tradita e beffata, si vendica, imputridendo nelle profondità dell’anima  e mandando in cancrena tutta la vita interiore di quella persona.