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I dieci miliardi divorati dai partiti

di Sergio Rizzo - 04/04/2012




 
 «Che cosa ne facciamo di tutti quei soldi?" Questo chiede Giancarlo Pagliarini, il 16 novembre dei 2006, in una lettera indirizzata a Umberto Bossi, Roberto Calderoli e allo stato maggiore della Lega Nord. E quell'imbarazzante interrogativo, precisa l'ex ministro leghista, non è suo. «E una domanda», scrive nella lettera che ha rivelato Paolo Bracalini nel libro Partiti s.p.a. edito da Ponte alle Grazie, «che mi hanno fatto dei militanti». I quali si dovranno rassegnare. Non avranno mai una risposta. Come non l'avrà neppure Paglia-rini: un anno dopo lascerà la Lega. Parole scomode, le sue. Scomodissimo, in un sistema sempre più ingordo e mai sazio di denari pubblici, ammettere che girano troppi soldi. Tanti che non si sa dove metterli: a meno di non volerli investire in Tanzania, come avrebbe fatto cinque anni più tardi Francesco Belsito. Ancora più scomode, quelle parole, perché quando Pagliarini scrive la lettera non sono passati che pochi mesi dall'ultimo schiaffo assestato dai partiti ai contribuenti. Quale schiaffo? Una leggina indecente infilata di soppiatto in un provvedimento approvato a febbraio 2006 che garantisce l'erogazione dei contributi elettorali anche nel caso di scioglimento anticipato delle Camere (con il risultato che i partiti avranno poi per tre anni doppia razione) e consente di far restare anonimi i contributi privati di valore fino a so mila euro.
Alla faccia degli italiani. Perché è bene non dimenticarsi che nel 1993 gli elettori avevano detto chiaramente «basta» con un referendum al finanziamento pubblico. Giusta o sbagliata che fosse, la decisione era stata quella. Messi in crisi, i partiti avevano cercato di correre ai ripari. Con un sistema identico a quello utilizzato per far sopravvivere il ministero dell'Agricoltura, cancellato anch'es - so dal referendum: cambiando semplicemente nome. Il ministero è stato così ribattezzato «delle Politiche agricole», mentre il finanziamento pubblico dei partiti è diventato «rimborso elettorale». Calcolato subdolamente a forfait. E con questo trucco la pioggia di denaro si è trasformata in un acquazzone. Da 800 lire a elettore nel 1993 si è passati nel 2002 a 5 euro per ogni consultazione (Camera, Senato, europee e regionali), ora ridotti del 3o% sull'onda dell'indignazione popolare. Dal 1999 al 2o08, mentre le retribuzioni dei dipendenti pubblici crescevano del 42,1% e le risorse per i beni culturali si riducevano del 5o%, il finanziamento pubblico ai partiti lievitava del 1.110 per cento. Senza risparmiarci particolari sconcertanti. Per esempio: il rimborso si calcola sul numero di iscritti alle liste elettorali della Camera che sono oltre 5o milioni, anche per le elezioni del Senato, dove la soglia di età per partecipare al voto è 25 anni e gli elettori sono quindi circa 4 milioni
di meno. Per esempio: i partiti che non raggiungono l'1 per cento non hanno diritto al rimborso, ma i soldi che questi non incassano se li dividono gli altri. Per esempio: fin quando esistevano i collegi e non c'era ancora il «porcellum», si aveva diritto ai rimborsi elettorali anche per le elezioni suppletive, nonostante il costo della campagna per quei seggi fosse stato già rimborsato. Per esempio: grazie alla norma votata nel 2006, ai rimborsi elettorali hanno diritto anche i partiti morti, come la Margherita e i Ds. Nonché quelli non presenti in Parlamento perché non hanno superato la soglia di sbarramento del 4%, ma hanno comunque raggiunto 1'1%, come la Destra.
Quando poi si parla di finanziamento pubblico, ci si limita sempre al rimborso elettorale. Ma i quattrini arrivano anche da tanti altri rivoli. Ci sono infatti i fondi destinati ai gruppi parlamentari di Camera e Senato e dei consigli regionali, i finanziamenti ai giornali di partito e lo sgravio del 19% spettante ai contributi «privati»: per capirci, quelli che ora possono restare anonimi fino a 5o mila euro. Per non parlare dei soldi che molti parlamentari versano nelle casse del proprio partito: denari pubblici anch'essi, spesso prelevati dal fondo per i collaboratori. Tutte queste voci più che raddoppiano il rimborso elettorale. Se dunque il finanziamento pubblico «nudo e crudo» ha garantito ai partiti dal 1974 a oggi una somma pari, in euro attuali, a oltre 5,6 miliardi, non è azzardato ipotizzare che le formazioni politiche abbiano assorbito in 37 anni almeno io miliardi di euro. Praticamente, è la pura verità, senza alcun controllo. Nessun partito, a eccezione del Pd, fa certificare il bilancio da un revisore esterno. Il collegio sindacale interno è composto da fedelissimi della segreteria e del tesoriere. E sebbene qui si stia parlando di denaro pubblico, la Corte dei conti non può metterci il naso. I giudici contabili hanno il solo compito di esaminare la correttezza formale dei rendiconti elettorali, senza alcun potere sanzionatorio. Più volte hanno sottolineato pubblicamente l'ipocrisia di chiamare «rimborso» un finanziamento che è auattro volte superiore alle spese documentate: 503 milioni contro 136, per le sole elezioni del 2008. Ma nessuno ha dato loro ascolto. E da questi pochi numeri si capisce perché. Nel 2008 il Carroccio ha dichiarato spese elettorali per 3 milioni 562 mila euro e ha incassato 41 milioni 384 mila euro. Nemmeno se avesse investito in un titolo spazzatura, ai tempi d'oro degli hedge fund, avrebbe avuto un ritorno simile. E agli altri partiti non è andato certamente peggio. Il folle aumento dei rimborsi, per giunta, ha causato anche la crescita esponenziale delle spese elettorali, andate letteralmente in orbita. Nel 1996 Alleanza nazionale e Forza Italia denunciarono una campagna elettorale da poco più di 5 milioni? Ebbene, nel 2008 il Pdl ne ha spesi oltre 68. Del resto le regole, approvate dagli stessi partiti, sono fatte ad hoc. Sul modello delle tre scimmiette: non sento, non vedo, non parlo. Compresa quella, sconosciuta ai comuni mortali, che consente al tesoriere di andare in banca con la Gazzetta ufficiale e farsi anticipare le rate dei rimborsi di fatto su base fiduciaria e senza rendere conto a nessuno. E nessuno, finora, le ha mai cambiate quelle regole, anche se a parole sono tutti d'accordo. In Parlamento ci sono circa ao proposte di legge.
Metà arrivate, guarda caso, soltanto dopo che è scoppiato lo scandalo dei soldi della Margherita. Una di queste porta come prima firma quella del presidente della Margherita Francesco Rutelli: dentro c'è scritto che le proprietà immobiliari acquistate con i fondi dei partito devono essere intestate al partito. C'entra qualcosa con una certa villa di Gemano comprata dal tesoriere Luigi Lusi? Inutile dire che è meglio non farsi troppe illusioni. Nessuna di queste proposte è ai primi punti dell'ordine del giorno. E si mettano l'anima in pace anche quelli del Movimento difesa del cittadino rappresentati dall'avvocato Gianluigi Pellegrino, che hanno spedito due diffide a Camera e Senato. La prima perché i 20 milioni ancora nelle casse della Margherita vengano restituiti all'Erario. La seconda, perché vengano bloccati i rimborsi al partito di Bossi. Già, il Carroccio. Dicevamo che almeno a parole sono tutti d'accordo sul cambiamento delle regole, ma non è esatto. Perché c'è un partito che non ha mai presentato in questa legislatura una proposta per intervenire sulle piaghe dei rimborsi elettorali e dell'opacità dei bilanci dei partiti: è la Lega Nord. Ma questa, almeno, si chiama coerenza... Sergio Rizzo