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Bossi e gli altri: la colpa è di chi li vota

di Federico Zamboni - 10/04/2012

Fiducia tradita? Elettori “in buona fede” che cadono dalle nuvole e scoppiano, metaforicamente o concretamente, a piangere? Non fateci ridere. 

Che razza di personaggio fosse Umberto Bossi non lo si deve certo scoprire ora, e così come in tanti altri casi il punto non è l’eventuale, o probabile, commissione di veri e propri reati. Il punto è che si tratta di individui a dir poco spregiudicati che stringono un patto perverso con i propri sostenitori: in cambio del potere personale che essi conseguiranno, via via che le loro carriere li porteranno dalle oscure contese locali agli scranni del Parlamento, o addirittura ai banchi del governo, dovranno garantire a chi li vota una qualche contropartita, a volte materiale ma più spesso psicologica. Nel caso della Lega, com’è noto, quest’ultima consiste nella sensazione di addivenire, o anche solo di avvicinarsi, al sospiratissimo federalismo.  

In nome di questo obiettivo, ben presto innalzato a totem al quale inchinarsi e a panacea alla quale tendere con tutte le proprie forze, i leghisti si sono lanciati a capofitto in un tunnel senza fine: tutti dietro all’Umberto, che in un modo o nell’altro avrebbe sicuramente portato “i Padani” alla vittoria e al riscatto, e bando alle discussioni. Un classico esempio di obbedienza “cieca, pronta e assoluta” di guareschiana memoria. Un’apertura di credito illimitata e ottusa, che demonizza a priori i critici riclassificandoli come pusillanimi, o persino traditori. Una lampante dimostrazione di ciò che accade quando si viene travolti dal bisogno di identificarsi in un Capo carismatico, al quale tutto va concesso proprio perché dotato di una superiore e inarrivabile capacità di leadership. 

Ribadito che la questione non riguarda affatto il solo Bossi – tanto è vero che nel centrosinistra è prassi normale acclamare come salvatore della Patria chiunque prometta un rilancio, in una sconfortante sequenza che ha già inanellato i vari Prodi e Veltroni, e che in futuro potrebbe comprendere anche un Matteo Renzi – basterebbe ricordare i clamorosi e ripetuti voltafaccia nei confronti di Berlusconi, per avere la prova provata di una totale mancanza di scrupoli. A fronte della quale la cosa più ovvia sarebbe domandarsi se essa sia davvero una “licenza politica”, anziché il riflesso di un’attitudine generale, e patologica, a strafottersene di qualunque principio di coerenza e di correttezza. 

In altre parole: il soldato che spara sul nemico di turno, o la spia che è pronta a ingannare chiunque fingendosi suo amico, sono davvero delle persone che agiscono così solo per portare a termine la propria missione? O piuttosto sono individui che prendono a pretesto la guerra, esplicita o strisciante che essa sia, per dare libero sfogo ai loro istinti di sopraffazione? 

Bisognerebbe chiederselo sempre, quando ci si affida a qualche genere di guida: in che mani ci stiamo mettendo? Qual è la vera natura dell’accordo, implicito ma vincolante, che andiamo a sottoscrivere? E quale sarà il prezzo da pagare, soprattutto se non eserciteremo assiduamente le nostre facoltà di controllo?

L’esperienza attesta che i più se ne fregano. L’ansia di pervenire a una meta spinge a sorvolare sulle modalità con cui la si consegue, o si tenta di farlo. Per restare in ambito leghista, Calderoli che partorisce il Porcellum è ritenuto poco meno di un genio. Un sottile stratega che bisogna rallegrarsi di avere nelle proprie file. E pazienza, poi, se lo stesso Umberto Bossi promuove l’ascesa a consigliere regionale, per cominciare, di un somaro patentato come suo figlio Renzo: debolezze di padre nei riguardi del suo rampollo malriuscito, invece che arroganze da padre-padrone nei confronti di un intero partito. Nonché di quell’entità ancora più ampia, e celebrata con accenti quasi sacri, che è, o sarebbe, il “popolo padano”.

Per dirla con il proverbio, si raccoglie quel che si semina. O presto o tardi un terreno contaminato, e abbandonato a se stesso, non potrà che produrre dei frutti tossici. Come riporta il Corriere, «“Oggi, alle 14:15, tutti in Bellerio per solidarietà con il capo, mi raccomando”: è l'sms che hanno fatto girare, giovedì mattina, alcuni dirigenti leghisti. L'invito era a raggiungere la sede federale del partito per sostenere Umberto Bossi. Lo stesso appello ai militanti è stato lanciato giovedì mattina dai microfoni di «Radio Padania» da Giuseppe Leoni, fondatore, insieme a Umberto Bossi, della Lega autonomista lombarda, nel 1984. “Dobbiamo stare tutti uniti e vicini al capo”, ha detto Leoni».

Infatti. Ognuno ha i capi che si merita. E il minimo che si deve pretendere è che, dopo esserseli scelti all’inizio e averli riconfermati per chissà quanti anni, non ci si sorprenda delle loro caratteristiche. Soprattutto quando, come nel caso di Bossi, sono state messe in mostra innumerevoli volte.  Esibendole, e con ciò rivendicandole, come le stimmate del grande leader: che è appunto troppo grande, per sottostare ad alcun principio inderogabile che ne limiti la libertà d’azione. O di abuso.