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Siamo “colpevoli” dei nostri sentimenti?

di Francesco Lamendola - 27/04/2012



 

I tragici greci, Eschilo, Sofocle ed Euripide, avevano già detto tutto e scandagliato gli abissi del cuore umano, molto prima che i moderni inventori della psicologia scoprissero l’acqua calda e che si arrabattassero a mettere a punto delle teorie tanto sconclusionate quanto tenebrose, etichettandole sotto il nome pomposo e velleitario di “scienza”.

E sempre la loro riflessione aveva travalicato l’ambito contingente delle problematiche individuali, per interrogarsi pensosamente sul mistero del bene e del male, delle luci e delle tenebre dell’anima, sulla libertà dell’uomo e sul ruolo giocato dal Fato e dal volere divino; sempre avevano cercato ansiosamente una risposta di ordine universale, valida per l’uomo di qualunque età, di qualunque cultura e di qualsiasi condizione.

Prendiamo il caso di Fedra, oggetto di una tragedia di Euripide, poi di Seneca, indi, fra i moderni, di Racine e, da ultimo, di D’Annunzio. Fedra ha sposato Teseo, che aveva già un figlio quasi adulto, Ippolito, nato dal suo precedente matrimonio; e, davanti alla bellezza e alle qualità del giovane, se ne innamora disperatamente, pur sforzandosi di reprimere o, almeno, di tener nascosto entro di sé quel sentimento devastante e terribile; e qui le versioni del mito divergono.

Per Euripide (la cui tragedia s’intitola «Ippolito» e fa perno non sulla matrigna, ma sul figliastro), la nutrice di Fedra, venuta a conoscenza del terribile segreto, cercando di alleviare le sofferenze della sua signora, confida tutto al giovane, impegnandolo però, con solenne giuramento, a non divulgarlo ad anima viva. Ippolito rimane sdegnato nell’apprendere quel che la donna prova per lui, pronuncia parole umilianti e offensive al suo indirizzo, tanto che la sventurata, distrutta dalla vergogna e dall’amarezza, decide i togliersi la vita: non prima, però, di essersi vendicata, lasciando un biglietto in cui accusa il figliastro di averla violentata. Teseo, leggendolo, lancia una terribile maledizione contro il figlio, accanto al cadavere della sposa: questi tenta di spiegare al padre la verità, ma non viene creduto; allora, vincolato al silenzio dal giuramento fatto alla nutrice, parte sdegnosamente, ma rimane ucciso allorché il cocchio si fracassa contro le rocce, a causa di un toro mostruoso emerso dalle onde del mare.

Per Seneca (che forse si è ispirato alla tragedia di Euripide, forse a quella, perduta, di Sofocle), è Fedra stessa a confessare ad Ippolito il suo amore; respinta duramente dal ragazzo, lo accusa presso il marito di aver tentato di sedurla e lo fa scacciare con una atroce maledizione, sicché egli muore, orribilmente dilaniato. Quando il suo cadavere a brandelli viene riportato alla reggia, Fedra, pentita, confessa la propria menzogna e poi, sconvolta, si uccide: a Teseo, rimasto solo, non rimane che piangere la propria amara sorte.

Per Racine, Fedra è soprattutto la vittima di Venere, che vuol punire non lei, ma una colpa della madre sua, Pasifae: l’amore incestuoso per Ippolito non è veramente suo, ma ispirato dalla dea; nondimeno ella ne soffre e se ne vergogna atrocemente. Consigliata dalla nutrice Enone, la donna rivela al figliastro il suo amore, ma è respinta da questi con orrore, anche perché egli già ama Aricia; dopo di che Enone, per salvare la sua padrona, accusa falsamente Ippolito di tentata violenza contro la matrigna, davanti a Teseo, che scaccia e maledice il figlio. Fedra a quel punto vorrebbe confessare al marito la verità, ma si trattiene, perché nel frattempo ha appreso dell’amore di Teseo per Aricia, e una rovente gelosia la infiamma. Ippolito, allontanandosi da Atene, va incontro al suo destino: muore sbalzato dal suo carro, allorché i cavalli si imbizzarriscono per l’apparizione di un mostro marino, inviato da Nettuno. A Fedra, disperata, non resta che confessare finalmente la verità e, poi, uccidersi.

D’Annunzio vuole reagire sia alla Fedra pagana di Euripide e Seneca, sia alla Fedra “cristiana” di Racine, creando una donna moderna, protesa ad affermare la propria volontà, quasi una versione femminile del Superuomo nietzschiano; e, per riuscirvi, insiste sulle circostanze attenuanti di quell’illecito amore, in particolare sul fatto che non si tratta di un amore realmente incestuoso, perché Fedra non è la madre, ma solo la matrigna di Ippolito.

Ma è colpevole, Fedra, di amare sessualmente il giovane figliastro? Questo è il punto cruciale, sul quale da sempre si è concentrato l’interesse dei drammaturghi antichi e moderni, e, naturalmente, del pubblico.

Inoltre, più in generale: siamo noi “colpevoli”, siamo responsabili di quel che proviamo, delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti; oppure non abbiamo alcuna responsabilità per ciò che nasce nella nostra sfera affettiva e, perciò, siamo soltanto delle marionette trascinate da forze strapotenti e incomprensibili, che fanno di noi quel che vogliono, senza che noi possiamo opporci e senza che riusciamo ad essere i veri protagonisti della nostra vita?

Crediamo che sia una domanda fondamentale e che sia necessario tentare di rispondervi, specialmente nel contesto di una cultura, come la nostra, che tende a esaltare la forza delle passioni e a subordinare ad esse ogni altro fattore e ogni altra considerazione, come se vivere a pieno la propria vita volesse dire abbandonarsi all’ebbrezza di tutto ciò che si prova.

Ebbene, la prima cosa da fare è distinguere nettamente l’ambito delle emozioni e dei sentimenti da quello della volontà. Oggi si dà quasi per scontato che non ci si debba opporre a nessun istinto, a nessuna pulsione, a nessun capriccio dell’io; che il fatto di provare una certa emozione o un certo sentimento, e il fatto di accondiscendervi, siano un’unica cosa.

Si tratta, invece, di due cose diverse: riconoscere le proprie emozioni e i propri sentimenti è un dovere; assentirvi, è una scelta che ciascuno deve prendere a ragion veduta, pesando sulla bilancia i pro e i contro, e muovendo da una propria scala di valori etici, che possono anche discostarsi da quelli della comunità; in tal caso, però, è giusto sapere a cosa si va incontro e quali forze imprevedibili si possono mettere in movimento.

La Fedra di Racine è ben consapevole della illiceità del proprio sentimento e cerca di combatterlo con energia, al punto da simulare inimicizia verso l’oggetto del suo amore e da reclamarne l’esilio da parte del marito; si tratta, dunque, di una eroina lacerata e straziata da forze che tenta invano di padroneggiare e alle quali vorrebbe resistere: se finisce per cedere, è solo per una debolezza della volontà e per una fatale somma di circostanze, tutte riconducibili, comunque, al volere di Venere, decisa a punirla per una colpa non sua.

In questo particolare “taglio” della vicenda, e specialmente nella interpretazione fatalistica di ciò che si muove nel fondo dell’anima di Fedra, si può riconoscere la matrice non tanto cattolica, bensì giansenista, dell’autore: Racine, infatti, studente a Port-Royal, aveva accolto le idee di Giansenio sulla debolezza della volontà umana, che si collocavano al polo opposto di quanto sostenuto dalla dottrina cattolica ortodossa, e specialmente dai Gesuiti.

Il dissidio interiore di Fedra appare evidente nelle parole che rivolge quasi a se stessa, allorché, nel corso di un concitato colloquio con la fedele Enone (che ne rimane profondamente scandalizzata), finisce per confessarle la natura dei suoi sentimenti verso il figliastro; e pur tuttavia sente come “ingiusti” i rimproveri della nutrice, perché sa di aver fatto di tutto per resistere alla sua fatale passione, che la squassa per volere della dea e non per una sua sciagurata libidine (J. Racine, «Fedra», a cura di A. Capatti, traduzione di G. Ungaretti, Milano, Mondadori, 1990):

 

«Viene da più lontano il male mio.

Non appena da leggi dell’imene impegnata,

al figliuolo d’Egeo, quiete, felicità

sembravano essersi per me affermate.

Atene mi mostrò il nemico superbo.

Lo vidi, ed arrossi, impallidii vedendolo,;

confusione s’alzò nell’anima mia scossa;

non vedevano più

gli occhi miei, e non potevo più parlare;

sentii tutto il mio corpo e agghiacciarsi e bruciare.

Venere riconobbi e i suoi fuochi terribili,

a sangue che perseguiti tormenti inevitabili.

Con assidue promesse, mi lusingai di sviarli:

le eressi un tempio e l’adornai con cura.

Continuamente io stessa circondata da vittime,

nei loro fianchi frugando, la persa

mia ragione cercavo.

D’un amore inguaribile, impotenti rimedi!

Invano la mia mano, andava incenso

Bruciando sugli altari:

quando il nome implorava della Dea la mia bocca,

Ippolito adoravo; e vedendolo sempre,

anche appié degli altari che annebbiavo di fumo,

tutto offrivo a quel Dio

che invocare per nome non ardivo.

Ovunque lo evitavo. O colmo di miseria!

I miei occhi nei tratti

lo ritrovavano del padre suo.

Contro me stessa infine osai farmi ribelle:

il cuore mio incitai a perseguitarlo.

Per bandire il nemico del quale ero idolatra,

Ostentai insofferenza d’un’ingiusta matrigna;

ed io l’esilio ne sollecitai

ed i miei eterni lagni

dalle braccia paterne lo strapparono.

Enone, respiravo; durante la sua assenza

Giorni meno agitati,

cara, scorrevano nell’innocenza.

Sottomessa al mio sposo, le mie noie celando,

d’attenzioni ero prodiga

verso i frutti del suo fatale imene.

Ah! precauzioni vane! Mio crudele destino!

Dallo stesso mio sposo a Trezene condotta,

ho rivisto il nemico che avevo allontanato.

La mia ferita, troppo

viva, è presto tornata a sanguinare.

Non è iù ardore ascoso entro le vene:

è tutta intera Venere avvinghiata alla preda,.

Per la mia colpa, giusto terrore ho concepito;

la vita ho preso in odio, la mia fiamma in orrore.

Volevo col morire

Dimostrare che ancora mi curo della gloria,

e fiamma tanto nera, alla luce sottrarre..

Sostenere non ho potuto tante tue

Lacrime, tante lotte: ti ho tutto confessato;

non me ne pento, purché della morte

l’approssimarsi rispettando, tu

non m’affligga mai più con ingiusti rimproveri;

purché i tuoi aiuti inutili

di stimolare cessino un residuo

di calore già prossimo a esalarsi.»

 

Dunque, di nuovo: è colpevole Fedra; siamo colpevoli noi tutti di quel che proviamo, di quel che si accende nella nostra sfera affettiva?

La risposta, senza alcuna incertezza, è negativa: noi non siamo più responsabili di quel che proviamo, di quanto potremmo esserlo se dei neri corvi si mettessero a svolazzare sopra il nostro capo.

Nessuno, però, ci costringe a fissare quei corvi; abbiamo anzi il diritto e il dovere di andare avanti con la nostra vita, senza badare ai loro sgraziati richiami e senza prestar loro alcuna attenzione; insomma senza permettere a quei visitatori indesiderati di condizionare il nostro presente ed il nostro futuro.

Inoltre, se in un certo luogo sappiamo che svolazzano i corvi del malaugurio, faremmo bene a tenercene lontani, per quel che sta in noi: agire diversamente, significa scherzare con il pericolo e mettersi nelle condizioni di fare la prova della propria fragilità, pagandone il prezzo.

L’importante è che noi troviamo abbastanza coraggio da guardarci dentro e da riconoscere quel che proviamo: se non lo faremo, il pericolo di lasciarci prendere la mano da forze più grandi di noi si farà ancora maggiore, per non parlare di tutti i malintesi e le situazioni ambigue in cui, fatalmente, finiremmo per venirci a trovare nei confronti degli altri.

«Conosci te stesso», rimane sempre la regola numero uno; sii fedele ai tuoi valori, è la numero due; non aver paura, ma confida nella guida del Maestro interiore, la terza.

E poi, coraggio.

La vita offre sempre occasioni di crescita e di ulteriore consapevolezza, proprio passando attraverso gli errori, le debolezze, le cadute, con tutte le sofferenze che ne conseguono.