Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Possiamo vedere sempre “tutto nero”?

Possiamo vedere sempre “tutto nero”?

di Enrico Galoppini - 13/05/2012



Queste note prendono lo spunto da una riflessione, inoltratami da un corrispondente, riguardante il degrado in cui versano alcune vie dei centri storici delle città italiane, segnatamente quelle di Genova, infestate di loschi individui stranieri dediti allo spaccio di droga e ad altre attività criminali, cosicché esse sono diventate praticamente “impraticabili” per le persone per bene che non intendono passare qualche brutto guaio.

Da questo dato di fatto, lo scritto proseguiva delineando, con toni allarmanti, lo scenario più probabile se proseguirà la tendenza in atto: ovvero che entro un paio di generazioni, in alcune realtà europee, la popolazione autoctona diventerà minoranza, con l’Italia che seguirà inevitabilmente. E il mio corrispondente, dolendosi per quella che non è certo una bella notizia, se non altro perché ciascuno è in varia misura affezionato, “attaccato” al proprio ambiente così come l’ha conosciuto e vi è cresciuto, metteva comunque in guardia dalla truffa rappresentata da una certa “reazione” preconfezionata e scomposta, cioè quella della cosiddetta “estrema destra”, dalla visione asfittica e gretta, e talvolta addirittura diretta dagli stessi apparati di potere che alimentano l’”immigrazione selvaggia”.

Di fronte a questa, come ad altre situazioni poco allegre (sempre a Genova sono in azione bande di “latinos” composte da vere e proprie belve), se poi assommiamo tutto il resto che va sotto la fuorviante denominazione di “crisi”, il primo impulso è quello di sprofondarsi in un pessimismo tragico e vedere “tutto nero”. La tentazione, in effetti, è forte.

La cosiddetta “controinformazione”, difatti, che ha il merito di far “aprire gli occhi” su una realtà sempre più artefatta, inautentica e dunque “insopportabile”, racchiude in sé il rischio di condurre chi ne fruisce, di “scoperta” in “scoperta”, ad uno stato in cui rabbia, impotenza ed abbattimento, alternati e/o mescolati, producono nel migliore dei casi “immobilismo”, nel peggiore una reazione smodata che va dalla strage alla Casseri (sempre che il personaggio non sia stato manipolato) ad uno stato depressivo in cui non si scorge più alcuna “via d’uscita”, per cui tanto vale attendere “la fine” nel mentre si collezionano, leggendo e leggendo, vere e proprie gallerie di orrori e nefandezze che ripugnano sinceramente ad un animo ancora non irrimediabilmente corrotto.

Lungi da me l’intenzione di prendermela col mio corrispondente, che anzi ringrazio indirettamente per avermi fornito lo spunto per queste riflessioni, e che so sinceramente preoccupato per il destino della nostra nazione, della nostra “civiltà” (o meglio dei suoi elementi sani, poiché, non lo si dimentichi, l’Europa è stata la fucina da cui è uscita la fase virulenta della perversione “moderna”), passo ad esporre il mio pensiero sul principiale limite della “controinformazione”, di cui – lo ammetto senza infingimenti – pure il sottoscritto è un piuttosto assiduo consumatore.

D’altra parte, l’anelito a “sapere” - non tanto ad “informarsi”, ché trattasi di una fisima moderna inauguratasi con le “gazettes” francesi funzionali alla “democrazia” che andava profilandosi nel Settecento -; l’anelito a conoscere il mondo in cui viviamo e che ci condiziona a vario grado è un sentimento sano, poiché sull’ignoranza non si è mai costruito un gran che. Anzi, l’ignoranza – che può riguardare i vari livelli dello scibile – è sempre una buona notizia per i dominanti, che nell’era “moderna” hanno non a caso sviluppato un apparato “mediatico”, un’istruzione di massa svuotata di ogni significato superiore ed altri strumenti (ad esempio il cinema) mirati al rincitrullimento di masse sempre più estese e sottoposte ad una specie di “incantesimo”.

Di qui l’esigenza, come per reazione, sentita da un novero crescente di  persone, di andare oltre l’ufficialità, la “vulgata” imposta e difesa a spada tratta dal “sistema”. Ma una volta giunti ad un certo grado di consapevolezza di quello che rappresenta “sapere”, o meglio di quale responsabilità esso comporta, a chi ha colto la sostanziale unità perversa delle indefinite deviazioni del “mondo moderno” non resta che prendere atto che non ha senso scavare all’infinito nella ‘fogna’, per far emergere altri ‘miasmi’, perché c’è il concreto rischio di intossicarsi irrimediabilmente. Pertanto ci si trova di fronte a un bivio. O si lascia perdere (“non ne voglio più sapere”, “ne ho abbastanza”!) perché non si riesce a reggere la tensione e il “peso” di quanto è stato compreso, o, una volta constatato che la situazione ha preso una piega talmente unidirezionale, verso il baratro, nella sua apparente e ingannevole molteplicità, si prende atto che non si può attuare alcuna “azione” con qualche garanzia di successo in quel che vi è di più essenziale. È tramontato, probabilmente, il tempo di un’attività di tipo partitico, movimentistico eccetera per opporsi ed evitare la “barbarie” più assoluta. Il “sistema”, al momento, non mostra crepe sul piano che gli è congeniale (quello della materia e del numero, con quello “psichico” letteralmente scatenato), quindi è bene scordarsi “rivoluzioni” e simili, che, anzi, se non verranno affrontati alcuni punti irrisolti, ovverosia “il” punto irrisolto – quello della “morte di Dio” – nella nostra “civiltà”, non condurranno che ad altrettante deviazioni rispetto alla “retta via” indicata provvidenzialmente dagli “Uomini di Dio” in ogni epoca.

Ma la domanda a questo punto è: ci attende inesorabilmente il caos più completo oppure esiste ancora qualche elemento d’ordine a cui riferirsi? Non ci resta che vedere “tutto nero” oppure esiste qualche ‘raggio di sole’?

La mia impressione, in mezzo a questa “crisi”, pianificata e diretta in ogni suo aspetto, è che siamo in una fase di transizione, verso un “mondo”, una “civiltà” i cui lineamenti  non ci sono ancora del tutto chiari, anche se attualmente sembra che tutto, ineluttabilmente, vada verso uno “sfacelo”, una “barbarie”, un totale “non senso”. Ora, siccome un obbrobrio unilaterale, un totale buco nero, è un’impossibilità pura e semplice, l'unica via d'uscita per raccapezzarsi in tutto questo guazzabuglio è cominciare a smetterla di vedere solo e sempre catastrofi e tirare fuori la “bellezza” che c'è in noi. Il “mondo”, difatti, è “brutto” se noi decidiamo di essere “brutti”, mentre “Allâh è bello ed ama la Bellezza”…

Con questo non voglio dire che in determinate realtà non esistano gravi problemi generati anche - e sottolineo anche (lo straniero si adegua al livello che trova) - da un eccessivo afflusso di immigrati, perlopiù in quartieri popolari, mentre in quelli “bene” - dove vivono i benpensanti lettori di “Repubblica” che predicano le virtù del “multiculturalismo”- non se ne vede nemmeno l'ombra. Varie situazioni sono dure da sostenere e non è giusto che dei politici cialtroni, camerieri dei banchieri che dirigono la “crisi”, le impongano alla gente, la quale in determinate circostanze – abbandonata a se stessa – avrebbe anche il sacrosanto diritto di fare autonomamente un po’ di “pulizia” .

Tuttavia, se non vogliamo che il nostro ambiente diventi una sorta di “jungla” o “far west”, sta a noi - noi italiani ed immigrati intenzionati ad “integrarsi” (il che non vuol dire trasformarsi in quello che non sono né appiattirsi su un qualche “decalogo del bravo cittadino” così come lo vuole la “modernità” atea) - uscire dalla logica del piagnisteo e dell’indignazione, per proporci con un’identità forte e sicura, se la sappiamo trovare in noi; non tanto per darsene una purché sia una da usare come una clava verso chi viene da fuori (il che è sinceramente gretto e vergognoso), bensì per “integrarlo” e, nel breve volgere di tempo, farlo sentire “come noi”; o meglio, in maniera che da questo incontro emerga una sintesi, una nuova “civiltà” secondo le immortali linee di vetta del Giusto, del Bello e del Vero: qualità che l'uomo ha dentro di sé, ma che possono emergere solo grazie ad una costante ascesi, che implica uno sforzo contro le tendenze più basse insite in noi stessi. La questione - trasposta ad un livello “nazionale” - è quindi: cosa sappiamo tirare fuori da dentro di noi come “italiani”?

Siccome ho vissuto - venendo da fuori - la mia infanzia a Siena, e conosco bene tutto il meccanismo del Palio e delle Contrade (concepite e vissute come tante piccole “patrie” che compongono la più grande Patria, Siena), pur ammettendo la singolarità della situazione senese, è quello un buon modello da seguire: anche il bambino giunto da fuori, attraverso tutto un rituale, un calendario di “feste” in cui “sacro” e “profano” si mescolano di modo che tutto diventa “sacralizzato” si sente subito contradaiolo e "senese", anziché percepirsi “né carne né pesce”, e se si farà una famiglia a Siena quella sarà una famiglia a tutti gli effetti senese. E anche i genitori, in una certa misura, poiché lo seguono nelle varie ricorrenze e respirano perciò un dato “clima”, sono aiutati a non sentirsi perennemente degli sradicati. Aggiungiamo poi che a Siena votano da sempre “sinistra”, ma manco per idea vedi ciondolare stranieri sfaccendati in città, per il semplice fatto che il territorio, corrispondente a quello delle Contrade, non è abbandonato all’incuria semplicemente perché è amato. Cosa è rimasto nel resto d'Italia a parte questa “isola felice” (anch'essa ammaliata dalle sirene della “modernità”…)?

Per il resto, si fa un gran parlare di “identità”, ma di contenuti davvero forti ed imperituri a me non pare di vederne. La “italianità” così come viene propinata in ogni sua forma oggi sa di posticcio ed imposto; di un “nazionalismo” molto “americano”, ideologico, non legato alla terra, e addirittura elemento esso stesso di perversione “moderna”. Devo ammettere che fino a un po’ di tempo fa mi rodevo il fegato al pensiero di che fine stanno facendo l'Italia e gli Italiani, ma poi ad un certo punto – dopo alcune dimostrazioni smaccate di che cosa è questo ‘patriottismo all’amatriciana’ - in me è scattato non tanto un “menefreghismo” quanto la consapevolezza che se ad un certo punto gli autoctoni non sono in grado né di darsi dei veri capi né di vivere nel rispetto degli avi e della terra, e ancor meno di concepire e vivere il senso del sacro, tanto vale che andiamo oltre questo perpetuo stato tra l’inferocito e il malinconico per i “bei tempi che furono”. Come “italiani” l'ultima occasione ce la siamo giocata settant'anni fa, ed il resto è solo un fatale decadimento… Forse non l’abbiamo capito alla svelta, ma ormai è troppo tardi per rimediare al danno.

Se poi gli immigrati fanno molti più figli e la cosa dà fastidio a qualcuno, il problema non è loro, ma nostro. Una comunità sana non è quella del figlio unico o del “single”. E una comunità, quando non crede più, quando non prega più, quando smette di “ringraziare” e vede negli altri, nei suoi stessi simili, solo degli individui con cui “competere”, si scava inesorabilmente la fossa, e l’attende solo un salutare e purificatore “flagello” alla Sodoma e Gomorra. Cosa sono ormai “gli italiani”? Hanno, a parte un'esigua minoranza, una loro religiosità? Rispettano le leggi divine? Non sanno nemmeno cosa sia il concetto! Hanno a cuore davvero il loro “patrimonio”,  la loro “eredità”, oppure si scandalizzano a comando solo quando c'è da dare addosso a qualcuno “brutto”, “sporco” e “cattivo” con la barba? Hanno capito o no chi è che li vuole cancellare e ridurre ad un’ombra di se stessi? Prima di inorridire per una moschea (di nuovo, a Genova, la questione è all’ordine del giorno, sennò di che si parla in campagna elettorale?), io mi preoccuperei, e parecchio, dell'ateismo dichiarato o di fatto (anche più pericoloso del primo) che informa il nostro vivere sociale, economico, politico e culturale.

Se l’uomo decide di essere “brutto” la realtà che lo circonda sarà necessariamente “brutta”. Sembra di parlare come dei bambini dell’asilo (“bello” e “brutto”), ma alla fine il travaso di bile e/o il senso di scoramento a forza di sapere che siamo “ingannati” e di sorbirci “ brutte notizie” (i tg), se non serve a farci fare un cambio di registro o un salto di qualità ci condurrà dritti verso una condizione fallimentare, qui e nell’altra vita.

Tutto questo – potrebbe pensare qualcuno mosso da “spirito pratico” – non è forse un discettare sul “sesso degli angeli”? Nient’affatto, ha molto più a che fare con le questioni “concrete” di quanto comunemente si creda. Se ci fa rivoltare lo stomaco sapere cos’è diventata la moneta, se ci deprime il livello abietto della politica, se troviamo insulsa e falsa la “cultura moderna”, se intuiamo che l'uomo non è la “macchina” a cui la medicina moderna cambia i “pezzi di ricambio”, se non ci diamo pace nel vedere che i nostri cieli sono costantemente scarabocchiati eccetera... beh, tutto questo dipende da un problema di fondo del nostro popolo, come di tutti quelli “moderni”, felici del loro essersi lasciati alle spalle “il passato” e la “superstizione”… Disconoscere la nostra natura più profonda, la nostra origine divina, concepirsi come una “scimmia evoluta” è quanto di più devastante possa combinare l’essere umano. Il “mondo” che ne uscirà sarà esattamente un riflesso di come s’è ridotto interiormente.

Non è dunque questione di passare ad un vago “ottimismo”, ma di saperci orientare verso ciò che ci eleva e non verso quel che ci abbassa. L“informazione”, compresa quella “contro” o “alternativa”, per il solo fatto d’inanellare una serie di notizie allarmanti e “preoccupanti”, di “complotti” talmente “potenti” contro i quali non possiamo “fare nulla”, ci tira senza dubbio verso il basso. Anche quando in un primo momento ci può galvanizzare ed apparirci come la premessa, lo stimolo per una decisiva “azione” pratica che verrà regolarmente frustrata e si tradurrà in una “perdita di tempo”, quando il tempo a disposizione di ciascuno di noi non è infinito...

Bisogna invece spiccare il volo, come le aquile, che vedono dall’alto, dal cielo luminoso, e sanno, a quel punto, “colpire”. Se invece ci riduciamo a vivere come capponi, perché così ci hanno convinto, mentre invece siamo aquile, finiremo solo nel proverbiale sacco di Renzo, al buio, a beccarci l’un l’altro senza costrutto.

Dunque, se non è vero che “è meglio non sapere”, bisogna evitare il pericolo insito in una cattivo uso di quest’indubbia vasta mole di informazioni di cui oggi veniamo in possesso. Esse possono, anzi devono, una volta inquadrate in una visione del mondo coerente che non escluda la trascendenza e che consenta d’interpretarle correttamente, essere il trampolino da cui partire per ampliare i nostri orizzonti, esplorare nuove possibilità e finalmente diventare “liberi”, anche dall’influenza nefasta di una “informazione” che, se resa fine a se stessa, non farà che farci vedere sempre “tutto nero”.