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Fin dove possiamo arrivare quando ci facciamo travolgere dalle passioni?

di Francesco Lamendola - 11/06/2012




Fin dove possiamo arrivare, fino a quali estremi ci possiamo spingere, allorché ci lasciamo afferrare, dominare e travolgere dalle passioni più istintive e primordiali?
Un fatto di sangue accaduto lo scorso mese di novembre, e passato quasi inosservato in mezzo al «grand guignol» della cronaca nera, ce ne può fornire un indizio.
Una dottoressa ventottenne aveva conosciuto, durante un corso di specializzazione, un medico di base sessantunenne, del quale si era follemente innamorata e che, per lei, aveva lasciato la famiglia, andando a vivere con la ragazza. Persone colte, dunque, con una buona laurea in medicina, sullo sfondo del prestigioso ospedale San Raffaele di Milano.
La relazione, comunque, dura appena qualche mese; poi l’uomo, pentito, lascia la giovane e ritorna dalla moglie di cinquantotto anni, anche per il senso di colpa dovuto a quei trentatré anni di differenza (ha una figlia quasi della stessa età di lei).
A quel punto, dopo un tempestoso scambio di telefonate fra la giovane amante e la rivale, la prima chiede e ottiene un appuntamento “chiarificatore” con la seconda, in realtà con lo scopo di farla innervosire e di provocare, se possibile, un definitivo allontanamento fra la moglie e il marito. Infatti si mette a raccontare, per provocarla, i particolari intimi della relazione, finché la signora, turbata, scende dalla macchina.
La ragazza, però, non desiste: scende a sua volta, la affianca e ricomincia a tormentarla; spintonata, cade sul sedile dell’auto e si ricorda all’improvviso (questa la sua versione) di un coltello, con la lama di venti centimetri, che tiene nel cruscotto della propria vettura; lo impugna e infierisce contro la donna, tagliandole di netto la gola. Poi trascina per qualche metro il cadavere sull’asfalto, prima di abbandonarlo e risalire in auto, allontanandosi.
Davanti alle forze dell’ordine che l’arrestano, poche ore dopo, dapprima tenta di negare, infine confessa tutto e, da ultimo, domanda: «Adesso posso tornare a casa?».
Quest’ultimo particolare ricorre sempre più spesso nelle cronache dei fatti di violenza; una domanda identica era stata fatta dal giovane che aveva mandato in coma, con un pugno, una infermiera romena, al termine di un futile diverbio nella stazione della metropolitana romana (dopo di che si era tranquillamente allontanato, senza voltarsi indietro, ed era rimasto molto stupito quando un agente in borghese lo aveva fermato). La donna era poi morta senza riprendere conoscenza e il giovane è stato condannato a nove anni di prigione con il verdetto di omicidio preterintenzionale.
Questo secondo episodio si potrebbe registrare sotto la voce “la banalità del male”: usare una violenza sproporzionata per vendicare una offesa di poco conto, in un impulso di rabbia cieca e incontrollabile; con l’aggravante del totale disinteresse per quanto si è commesso, cioè senza mostrare alcun segno di pentimento o, se la parola è eccessiva, di preoccupazione per la sorte della propria vittima (che, nella fattispecie, era una donna, una moglie e una madre).
L’altro episodio, invece, contiene, a quel che sembra, non piccoli elementi di premeditazione; ma, soprattutto, non scaturisce da un pretesto occasionale, ma da una fissazione affettiva: la fissazione dell’amante abbandonata che non riesce a darsi pace per quanto le è successo; che non riesce ad accettare l’idea che un uomo, che potrebbe essere tranquillamente suo padre, e anche qualcosa di più, le preferisca una moglie quasi altrettanto anziana di lui; che, soprattutto, non riesca a considerare la possibilità che la propria vita possa riprendere e proseguire, dopotutto, su binari soddisfacenti, e che quella relazione non era poi così essenziale, per non dire che era puramente e francamente sbagliata.
La gelosia, l’ansia da abbandono, la frustrazione della giovinezza respinta, l’incapacità di elaborare un dolore, una perdita, un insuccesso: c’è tutto questo nel comportamento della dottoressa che si stava specializzando in neurochirurgia; insieme, forse, a un bisogno patologico di dipendenza e di rassicurazione, al bisogno patologico di trovare nel proprio compagno un sostituto permanente della figura paterna: dunque, una pericolosa regressione all’infanzia o, quanto meno, un rifiuto di crescere, di assumersi responsabilità, di scegliere liberamente, ma anche responsabilmente, la propria vita.
Tutte queste cause, comunque, non spiegano affatto come si possa giungere a un delitto così efferato e così assurdo: spiegano il malessere che covava nell’anima di quella persona, o almeno tentano di spiegarlo; ma non ci dicono per quali tenebrosi percorsi una violenza cieca e distruttiva si sia aperta la strada attraverso le maglie della coscienza, e abbia poi soprafatto ogni barlume di volontà e di ragionevolezza.
Si osserverà che le passioni non sono mai ragionevoli, il che è giusto; ed è proprio per questo che non bisogna abbandonare ad esse la briglia sul collo, non bisogna accarezzarle troppo, non bisogna, soprattutto, esaltarle e celebrarle, in nome di una malintesa liberazione dalle repressioni familiari, sociali, del Super-Io e chissà di cos’altro ancora; però è evidente che una tale spiegazione non soddisfa nessuno, perché, grazie al cielo, coloro che si fanno così travolgere dagli impulsi violenti non sono che una esigua minoranza, anche se, forse, in costante aumento.
In ogni caso è difficile, se non impossibile, dire se davvero questo genere di comportamenti aberranti sia cresciuto nel corso degli ultimi anni, o se l’impressione di ciò sia data, semplicemente, dal morboso indugiare su di essi dei mezzi d’informazione, ben decisi a sfruttare al massimo la “merce” della cronaca nera, prima di venderla al migliore offerente; e anche, è ovvio, dall’imperversare di messaggi violenti da parte del cinema e della televisione, mediante film e serie televisive che, sebbene di fantasia, martellano con ossessionante ripetitività il pubblico e lasciano segni indelebili nella psiche degli spettatori più fragili.
Questa quotidiana banalizzazione del male, come è stata chiamata, è quella per cui le persone, dopo aver visto infinite scene di violenza al cinema e alla televisione, in situazioni di tipo immaginario (però descritte con crudo realismo), finiscono per assuefarsi all’idea che il male, la cattiveria, la violenza irrefrenabile, siano elementi “normali” della vita umana, e che non valga la pena di contrastarli per mezzo della coscienza, delle riflessione e della volontà.
Non esistono, infatti, ricette miracolose per metterci al riparo dalle nostre tendenze omicide, sadiche o pedofile, se non un lungo percorso di consapevolezza di sé, un costante allenamento alla chiarificazione interiore, una accettazione della propria umana debolezza che richiede, per resistere al richiamo tenebroso del male,  un aiuto soprannaturale, o almeno una disponibilità a riceverlo e ad accoglierlo, invece di chiudersi nelle proprie orgogliose sicurezze “razionali”.
La razionalità, infatti, non è il vero antidoto alle passioni sfrenate e distruttive; sappiamo, anzi - e la storia ce ne offre non pochi esempi - che il massimo della razionalità strumentale e calcolante può associarsi al massimo della malvagità fredda e pianificata, come avvenne nei campi di sterminio di Hitler o in quelli di Stalin.
La verità è che noi non sappiamo fin dove possa discendere la nostra anima, allorché si lascia sedurre e travolgere dalle passioni primordiali, la paura, la rabbia, la gelosia; così come non sappiamo, bisogna dire anche questo e ricordarlo sempre, fino a quali altezze essa sia in grado di innalzarsi, allorché si lascia guidare da quella forza benefica e potente che taluni chiamano Grazia e che viene in soccorso alla umana fragilità e debolezza, quando l’anima è abbastanza umile e abbastanza coraggiosa da affidarsi ad essa con piena fiducia.
Vi sono, in noi, degli abissi di oscurità e delle vette di luce, che tutta la nostra scienza (o pseudoscienza), materialista e meccanicista, non riuscirebbe nemmeno ad immaginare, di cui non sospetta neppure l’esistenza; ed è un gioco assai pericoloso quello della società contemporanea, di stuzzicare continuamente la belva semi-addormentata delle nostre passioni primordiali.
Le passioni primordiali nascono dal piccolo ego che grida ed esige sempre, senza fermarsi mai, che ogni sua brama sia soddisfatta, che ogni suo timore sia placato, che ogni sua aspettativa si realizzi; e che, se ciò non avviene, si infuria, trascende, si scatena con una forza terribile, non fermandosi davanti a niente e a nessuno, fino ai delitti più feroci.
Una persona con la quale sono in lite per una faccenda di eredità intralcia i miei piani? Imbraccio il fucile e la uccido, così, per la strada, come una belva feroce; poi risalgo in macchina e mi allontano, non senza mostrare la lucidità necessaria a confondere gli astanti, spacciandomi per un carabiniere. È accaduto l’altro giorno e ormai cose del genere non fanno più nemmeno notizia.
La mia mamma mi impedisce di fare della mia vita quello che voglio, mi rimprovera per i miei comportamenti egoisti e immaturi? Chiedo aiuto al fidanzatino e la massacro con decine e decine di coltellate; e, già che ci sono, ammazzo a coltellate anche il mio fratellino, di nulla colpevole se non di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato - o forse, chissà, di apparirmi come un “rivale” nell’amore dei genitori, poiché si prende la parte di affetto a me spettante.
Il bambino che piange nella culla mi logora i nervi? Lo sopprimo, infliggendogli innumerevoli colpi con un corpo contundente; poi, per giorni, per mesi, per anni, nego ogni addebito, nego ogni responsabilità, nego ogni evidenza, perché tutti sanno, ed io per prima, che sono una mamma perfetta, una mamma che ama i suoi figli; tutti lo sanno al mio paese, le altre mamme non esitano ad affidarmi i loro figlioletti per mostrare a tutti che non credono alla mia colpevolezza, che sono pronte a giurare sulla mia assoluta innocenza. Posso permettermi i migliori avvocati; e poi, guarda, mentre è in corso l’inchiesta faccio un altro figlio, così voglio vedere se qualcuno avrà ancora il coraggio di accusarmi, se i giudici oseranno trascinarmi in prigione.
Potremmo fare tanti altri esempi; troppi. Quel che essi hanno in comune è una strana forma di insensibilità affettiva circa le conseguenze dei propri atti, talvolta preceduta o accompagnata, per converso, da una sensibilità esacerbata alle offese (vere o presunte), alle tensioni, alle sfide che la vita presenta quasi quotidianamente.
Non dobbiamo, però, commettere l’errore di lasciarci ipnotizzare dal mistero del male: a forza di guardare nell’abisso, diceva un Nietzsche straordinariamente saggio, l’abisso finirà per guardare entro di noi. Siamo capaci di compiere un male quasi infinito; ma anche, in circostanze opposte, un bene altrettanto smisurato.
Siamo un mistero per noi stessi: il più grande, il più ricco, il più affascinante mistero del mondo in cui ci troviamo a vivere. Dobbiamo avvicinarci ad esso con delicatezza, in punta di piedi, perché anche il più piccolo rumore potrebbe turbare faticosi equilibri, dolorose verità. Non si scherza impunemente con l’abisso.
Perciò, invece di accarezzare e corteggiare la nostra pare volubile e concupiscente, che sempre brama e sempre teme qualcosa che è fuori di noi, dovremmo abituarci all’introspezione, al dialogo onesto con noi stessi, alla ricerca esigente della verità che giace nei recessi dell’anima: cioè alla nostra parte luminosa e permanente.
Siamo fatti per questo; non per inseguire ogni miraggio di piacere e per fuggire, atterriti, davanti a ogni avvisaglia di sofferenza. Vi sono dei piaceri che fanno del male all’anima e vi sono delle sofferenze che la purificano: aver esaltato il principio del piacere, in sé e per sé, e aver demonizzato il principio della sofferenza, senza distinguere quella utile da quella inutile, quella benefica da quella malefica, è stato il più grande errore commesso dalla nostra società edonista.
Oltre a questo, bisogna pur dire che i ritmi e gli stili di vita, nella società dominata dalla finanza e dalla tecnica, sono quanto di più esiziale si possa immaginare per la stabilità ed il bene dell’anima. Siamo sottoposti a una pressione quotidiana pressoché intollerabile, che richiede una grande forza morale e un notevole grado di lucidità e consapevolezza, per non lasciarsene sopraffare.
Siamo in lotta: questo è certo.
Però non siamo soli, a meno che noi non lo vogliamo.
Questo è il segno della nostra maturazione spirituale: il comprendere che non siamo soli; che una forza benevola ci aiuta, ci incoraggia e ci sostiene, purché noi siamo disposti ad aprirci alla sua azione e purché rimaniamo fedeli, pur fra incertezze ed errori, alla sua chiamata.