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La valle di ognidove: le entrate e le chiavi

di Andrea G. Sciffo - 11/07/2012

 

 

Dei quattro luoghi nei quali l’uomo è vissuto sin dalle ere primordiali, il bosco è la quintessenza: esso rappresenta il quinto elemento fra i quattro ambienti del passaggio dell’umanità sulla Terra; né le pianure né il deserto e nemmeno il mare o i ghiacci hanno offerto alle civiltà preistoriche e storiche il medesimo conforto donato dal bosco.

A differenza degli altri quattro habitat naturali, abitando tra foreste e boschi l’uomo trova infatti asilo, e una simile accoglienza gli permette di esercitare la sovrana prerogativa di  “restare fermo”; per i popoli nomadi o pionieri o navigatori o conquistatori non esiste possibilità di domicilio: per loro, ci sono solo accampamenti, bivacchi o approdi provvisori.

Le genti del bosco invece risiedono, hanno un domicilio sul posto e, radicate come alberi nel terreno, vivono restando per lo più nascosti, infrattati nella penombra del fogliame; in quieta attesa. Con le vampe bestiali del calore, il piattume brullo delle polveri, le città di pianura (di ieri e di oggi e di sempre) negano ai proprio abitatori questo corroborante segno dell’eternità fisica. Ha qui origine il riconoscimento che risveglia in molti il senso dell’eternità, se si tiene conto che il Paradiso è sempre stato rappresentato come un giardino (un piccolo bosco ordinato) nel quale viene promesso di poter ritornare, come una volta, per far festa in eterno, dopo la morte. Dove siamo diretti? si domandava il poeta romantico Novalis: sempre verso casa.

Però soltanto in questa “casa del padre” è possibile festeggiare in abbondanza perché qui vive la madre della condivisione e del gratuito; nel calcolo, atteggiamento principe dell’inferno a cielo aperto del XXI secolo, quasi nessuno gode delle gioie del convivio: per quale motivo dovrebbe farlo? L’operosità borghese degli ultimi cinque secoli non coincide affatto con la quiete attiva garantita dal bosco, per il semplice fatto che nelle abitazioni moderne regna la solitudine, oltre allo strazio o alla noia, e a un silenzio inumano, artificiale. Oggi, chi rimane immobile lo fa perché in preda allo sconforto, alla depressione; ma solo in un’epoca in cui gli individui si spostavano a piedi poté essere scritta la famosa massima domi manere convenit felicibus (“restare a casa è cosa per uomini felici”). Facile immaginare che quella frase non fosse propriamente incisa a belle lettere sul citofono di un libero professionista cittadino… Veniva piuttosto a emergere come una vena di verità irrorata direttamente dagli organi vitali quel sapere ancestrale che portò, lungo i millenni, alcune comunità a diventare società: adesso la massa[1] si muove attraverso le megalopoli, ma le città attuali non sono figlie dei paesi, dei borghi o delle contrade. Poiché sorgono in contrapposizione agli antichi villaggi, e di solito in esse si allevano generazioni che ignorano dove andare e come andare: tutti si spostano, magari dopo aver comunicato ai conoscenti che “siamo via”, con un’espressione tragica e veritiera allo stesso tempo.

Quasi nessuno ricorda, purtroppo, che nei boschi è nato il tempo. È gocciolato come resina dai tronchi delle conifere nelle menti di quegli uomini che rifiutarono di amputare il cuore dall’intelligenza dei sensi, e come resina si è messo a profumare il legno compatto delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni; ancora sino a ottant’anni fa si poteva udire nella boscaglia l’eco del canto dei nani: “Sette volte bosco, sette volte prato: poi tutto torna come era stato”.

Assieme al tempo, nel bosco è nato anche il silenzio, che non coincide con l’ammutolirsi delle voci o l’assenza di rumore: il silenzio scrive la colonna sonora delle azioni che non violano il canto e la danza nascosti nel lavoro umano. È un fondale o un letto fluviale per il ritmo. Marco Simi diceva che “il bosco è l’immagine della creazione, che attende”[2] e questa fedeltà ancora si verifica, per esempio, osservando la scena di un cane legato alla catena a guardia di un cantiere edile nell’orrenda calura lombarda, o nel gelo impuro degli ultimi inverni. Oggi, con la celebrazione dell’infedeltà (la più grave è l’infedeltà  a sé stessi, dilagante…) siamo agli antipodi della forma di esistenza per la quale il nostro genere fu destinato nel momento in cui fece la sua apparizione su questo pianeta.

La selva spiega che senso ha il servizio, dato che essa si pone come il luogo della “passività” creatrice: se non altro perché, come un animale inerme, la foresta non può reagire agli insulti, e può solo subirli. Ma nell’intrico silvestre, gli uomini possono anche imbattersi nelle radure che, sin dai tempi arcani, offrono anche le risposte della luce (due tra i maggiori filosofi del ’900, Heidegger e la Zambrano, hanno camminato su simili sentieri: ma l’esperienza è offerta a chiunque, e a tutti). Qui si vorrebbe costruire in legno la propria baita. Nel folto del bosco, difatti, la vita cresce perché può crescere: ne è controprova il fatto che qui, nel fitto della vegetazione, persino le disgrazie appaiono per quello che veramente sono: opera dell’uomo.

Nel bosco avviene così l’incontro decisivo: ci si imbatte in se stessi al cospetto della “vita della vita”. Da un simile rendez-vous a tre deriva la possibilità di convivere con gli altri, anche se è difficile riconoscere in una metropoli affannata il prossimo di cui parla Gesù Cristo nel Vangelo: gli appartamenti condominiali sono architettati affinché i “vicini di casa” si incontrino il meno possibile e semmai non stringano autentici legami reciproci. Prossimo significa etimologicamente “il più vicino” ed è ognidove… Ma il vero orrore è che nessuno protesta davanti a questa lunga automutilazione.

Ci si è limitati per un secolo a descrivere l’incubo, come fece Kafka o prima ancora Hawthorne, il quale nella novella Wakefield (1837) narrava di come un individuo potesse scomparire per trent’anni dalla presenza della moglie “senza lasciare la città”: semplicemente, andando ad abitare in un edificio dall’altra parte della piazza. L’indifferenza chiamata cortesia o buona educazione può rendere anche irreperibili a pochi isolati da casa.

Per questo è stato detto: fuggite sui monti. Senza guardarsi indietro. Lo ripete con altri termini anche il libro di cui qui si tratta: “La valle di ognidove”, un’opera di Davide Sapienza pubblicata nel 2007 ma che in seguito ha generato una sequela di eventi a oggi ininterrotta, la cui cronaca si trova sul sito http://www.lavallediognidove.it .

Quando uscì in libreria era giusto il primo giorno di settembre, una data un tempo dedicata, nei paesi alpini o nell’area continentale laddove le società erano legate ai cicli stagionali, all’apertura della caccia alla selvaggina di grossa taglia, e soprattutto ai cervi: proprio mentre la festa liturgica del calendario ricordava sant’Egidio, un monaco di origini greco-orientali venuto in Europa attratto da Cristo e sbarcato sulle coste provenzali; si narra che avesse vissuto in solitudini silvestri per un lungo periodo, dove venne nutrito dal latte di una cerva.

Anche certi libri “ricorrono” cioè vogliono ritornare, ciclicamente, periodicamente: e questo appartiene a quel genere. Presto infatti, La valle di ognidove tornerà in libreria, in riedizione ampliata, perché è un’opera organica che cresce con chi la legge e con chi l’ha scritta; come quando si cammina, è con l’esperienza che aumenta l’abilità di posare il piede. E del resto Davide Sapienza, scrittore di escursioni, ha già parlato di “intelligenza dei piedi” in una sua prosa in cui descrive cosa succede quando si esce di casa al buio percorrendo un sentiero fatto mille volte d’abitudine…

 


Comunque, per chi può farne esperienza, il libro sulla Everywhere Valley segna un sentiero sul quale, per stare alle parole dell’autore:

 

Quando incontri un certo genere di volto su un certo genere di persona, è facile avere difficoltà a pensarli in un passato. Sembra quasi che non siano mai nate, alcune persone. Sembra impossibile che siano stati bambini e poi giovani, che abbiano avuto sogni, ideali, aspirazioni. La spiegazione, comunque, era nel sogno: le persone come Johan sono la cosa che fanno, incarnano talmente la propria missione da aderire completamente all’ambiente. Immaginarli e vederli, è la stessa cosa.

Vengono da Ognidove. Queste creature sono e basta. La musica si distendeva verso ogni angolo dello stanzone come una brezza amichevole e attraverso il legno si intrecciava al silenzio. Così creava un’agile figura mitologica, un arco di energia proveniente da fuori: come se l’acqua, arrivata alla spiaggia, d’incanto si tramutasse in suoni. Suoni e voci. E silenzio continuo. Persino lo scricchiolare della ripida scalinata che conduceva all’alloggio di Johan non era rumore ma assenza di esso. Ogni cosa era essenziale come i colori sul suo tavolo, l’attestato di Est appeso al muro in una cornice di vetro, le coperte robuste e disordinate.

 

         Da parte mia, qui sotto, segnalo i miei volti, i miei incontri, precedenti o seguenti la lettura della Valle di Ognidove, che si amplificano gli uni gli altri:

 

Hölderlin Der Wanderer (da Elegie e poemetti, 1803-1807)

W.B. Yeats, In the Seven Woods  (lirica del 1902-1904)

Alfredo Tràdigo, Cercando il cervo  (Book, 2003)

Valerio Merlo, La foresta come chiostro (San Paolo, 1997)

Valerio Merlo, Voglia di campagna. Neoruralismo e città    (Città Aperta, 2006)

 

Quindi, se nelle città si può scomparire da un giorno all’altro senza cessare di risiedervi, o si può risiedere senza però esistere, come fantasmi colpevoli, così non avviene per l’imbocco del sentiero “per ognidove”: esso è una finestra mobile, un infisso semovibile che si apre solo in certi punti e a determinate condizioni, imprevedibili, impreviste. Il vero valligiano, anche quando deve abitare in pianura per motivi di servizio, ha questo istinto puro nel cuore, di trovare il luogo in cui la finestra mobile e l’infisso semovibile coincidono per un istante e concedono di passare attraverso: la vita è di passaggio, e comunque all things must pass, recita la saggezza oggi tanto odiata e violentata.

         Non sarà facile entrare, dunque, anche se il giogo vallivo è ampio e a forma di accogliente “v” e anche se su qualche mappa l’Ognidove ogni tanto appare; occorre prima liberarsi di chi “chiude” e dedicarsi totalmente alla cerca della chiave che apre. Era già scritto altrove, del resto: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.” (Mt. 23,13). La musica che si accompagna a questa sensazione drammatica e apparentemente triste è la Romanza in F op. 50 di Beethoven, nell’arrangiamento sinfonico di James Last (anno 1975): è una chiave possibile per “quelli che vogliono entrarci”.

 




[1] “The mass of men lives in a quiet desperation” scriveva H.D.Thoreau nel suo Walden. Vita nei boschi (1854).

[2] Cfr. Nel bosco di Marco (TEMPI, maggio 2004) e san Paolo: “Tutta la creazione geme e soffre sino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (ai Romani, 8,22)