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Che fine ha fatto lo spirito di abnegazione?

di Francesco Lamendola - 30/08/2012


 

Una volta, lo spirito di sacrificio e la sua forma più generosa, lo spirito di abnegazione, venivano celebrati e portati ad esempio delle giovani generazioni: l’oraziano «dulce et decorum est pro patria mori» veniva attualizzato, universalizzato ed esteso a svariate situazioni e possibilità esistenziali; importante non era l’oggetto del sacrificio, ma l’atto in sé o, quanto meno, la disponibilità a compierlo, senza viltà e senza rimpianti.

Si esaltava il gesto del comandante della nave che rifiutava di mettersi in salvo, preferendo affondare insieme ad essa, con animo impavido e soprattutto con l’onore intatto; quello del ragazzo che si tuffava nelle acque impetuose di un fiume per soccorrere e portare in salvo una donna o un bambino, che vi erano scivolati; quello del padre che, davanti all’arma puntata di un malvivente, faceva scudo col suo corpo ai propri familiari e sacrificava la vita per amor loro; quello, infine, del medico o dell’infermiere che, come padre Cristoforo, incurante del rischio, si prodigava in mezzo ai malati di un lazzaretto e faceva serenamente dono di sé, fino all’ultimo respiro.

«Abnegare» indica, etimologicamente, l’allontanamento e la negazione di sé. La particella “ab” indica il movimento di allontanarsi da qualcosa, il verbo “negare” indica l’azione del dire di no: dire di no ai propri desideri esclusivi, allontanarsi dalla propria parte egoistica; se è vero, con buona pace di Max Stirner, che nessuno vive per se stesso e che, se è giusto amare se stessi non meno del prossimo, la parte di noi che va amata non è il piccolo “ego” che sempre brama qualcosa a scapito degli altri, ma il Sé luminoso che scopre la sua non separatezza col mondo e impara a desiderare ciò che è bene per il tutto di cui egli è parte.

Sta di fatto che, se gli antichi Greci insegnavano ai loro giovani ad ammirare l’esempio dei Trecento caduti con Leonida alle Termopili per la libertà della patria, e se il cristianesimo ha insegnato ai giovani ad ammirare l’esempio di Gesù che affronta la Passione per amore dell’umanità e che muore perdonando i nemici, prima di risorgere, si può dire che la cultura moderna non insegna più nulla che possa equivalere al concetto dell’abnegazione: né verso la Patria, né verso Dio, né verso la famiglia o gli amici, né verso il lavoro; non insegna nulla di nulla, tranne che il perseguimento delle brame del piccolo “io”.

Gli adulti sono i primi a dare l’esempio di ciò, e al loro comportamento si sommano gli effetti di una pubblicità martellante e di una letteratura, di un cinema, di una musica leggera, persino di una fumettistica che battono e ribattono sempre sul tasto dei diritti, mai su quello dei doveri; sulla ricerca della felicità individuale, mai sull’apertura, sulla disponibilità agli altri, sull’abnegazione e anche, eventualmente, sul sacrificio di sé.

Si assiste, addirittura, alla quotidiana e sistematica derisione delle poche e sempre più rare voci che si odono in controtendenza, come se spirito di sacrificio e abnegazione fossero delle trappole, degli inganni, delle forme di suprema ipocrisia, quando non delle vere e proprie manifestazioni di disturbi mentali e di alienazione psichica. Certo, nella società edonista e consumista, solo un pazzo può pensare che sia bello sacrificarsi per qualcosa o per qualcuno; ma anche per questo c’è il rimedio: una bella terapia psicanalitica che riporti a galla i suoi impulsi rimossi, i suoi ricordi negati, le sue pulsioni inconfessabili.

Il fatto che Freud, l’ideatore della psicanalisi, sia appunto, insieme a Marx e a Nietzsche, uno dei grandi “maestri del sospetto” non è certo casuale; tutta la cultura dell’ultimo secolo e mezzo, infatti, si può riassumere nella formula. «Che cosa ci sarà dietro? Cosa mi si vorrebbe dare a intendere? Con quale strategia si cerca di ingannarmi?»; senza distinguere fra interlocutore leale e sleale, onesto e disonesto, sincero e bugiardo: perché, per la cultura del sospetto, tutti gli uomini senza eccezione sono fondamentalmente sleali, disonesti e bugiardi. Machiavelli sarebbe lusingato di vedere un simile trionfo della sua concezione antropologica.

Un buon esempio del sospetto, della irrisione e del dileggio cui sono stati esposti i “buoni sentimenti” è la rivisitazione, faziosa e antistorica, che è stata fatta di alcune opere letterarie ad essi ispirate, prima fra tutte il libro «Cuore» di Edmondo De Amicis, a suo tempo amatissimo dal pubblico, anche se snobbato dalla critica.

La pedagogia delle scuole elementari di fine Ottocento prevedeva che i maestri facessero trascrivere agli alunni, affinché se li imprimessero bene in mente, dei racconti mensili, nei quali rifulgevano sentimenti come il coraggio, la lealtà, l’onore, la riconoscenza e, appunto, l’abnegazione e lo spirito di sacrificio. L’ultimo dei “racconti mensili” trascritti da Enrico, il protagonista del libro deamicisiano,  si intitola «Naufragio» e racconta di due ragazzini, Mario - più piccolo fisicamente, particolare che si rivelerà decisivo -,  rimasto orfano, e Giulietta, di ritorno presso la famiglia, i quali diventano amici a bordo di un vapore diretto da Liverpool a Malta, allorché si scatena una terribile tempesta. Lui va a sbattere con la testa contro uno spigolo a causa di un’ondata e lei, premurosa, incurante di sporcarsi il vestito di sangue, si sfila il suo fazzoletto rosso dai capelli e lo lega attorno alla fronte del bambino.

Il giorno dopo la nave, semi-allagata, è in procinto di affondare; il capitano rifiuta di abbandonarla; a bordo dell’unica scialuppa rimasta indenne c’è ancora un posto libero e i marinai esortano a salirvi una donna o un bambino, fra i passeggeri rimasti a bordo come instupiditi dalla subitaneità della tragedia. Una donna si fa avanti, ma, terrorizzata dal salto che dovrebbe compiere, ricade sopra coperta, fra le braccia del capitano.

A questo punto è bene cedere la parola a De Amicis («Cuore», Milano, Garzanti, 1958, pp. 200-02):

 

«- Una ragazzo! - gridarono i marinai.

A quel grido, il ragazzo siciliano e la sua compagna, che erano rimasti fino allora come pietrificati da uno stupore sovrumano,   ridestati improvvisamente dal violento istinto della vita, si staccarono a un punto solo dall’albero e si slanciarono all’orlo del bastimento, urlando ad alta voce: - A me! - e cercando di cacciarsi indietro a vicenda, come due belve furiose.

- Il più piccolo! - gridarono i marinai. - La barca è sopraccarica! Il più piccolo!

All’udire quella parola la ragazza, come fulminata, lasciò cascar le braccia, e rimase immobile, guardando Mario con gli occhi morti.

Mario guardò lei un momento - le vide la macchia di sangue sul petto -, si ricordò, - il lampo di un’idea divina gli passò sul viso.

- Il più piccolo! - gridarono in coro i marinai, con imperiosa impazienza. - Noi partiamo!

E allora Mario, con una vice che non pareva più la sua, gridò: - Lei è più leggera! A te, Giulietta! Tu hai padre e madre! Io son solo! Ti do il mio posto! Va’ giù.

- Gettala in mare! - gridarono i marinai.

Mario afferrò Giulietta alla vita e la gettò in mare.

La ragazza mise un grido e fece un tonfo; un marinaio l’afferrò per un braccio e la tirò su nella barca.

Il ragazzo rimase ritto sull’orlo del bastimento, con la fronte alta, coi capelli al vento, immobile, tranquillo, sublime.

La barca si mosse, e fece appena in tempo a scampare dal movimento vorticoso delle acque prodotto dal bastimento che andava sotto, e che minacciò di travolgerla.

Allora la ragazza, rimasta fino a quel momento quasi fuori di senso, alzò gli occhi verso il fanciullo e diede in uno scroscio di pianto.

- Addio, Mario! - gli gridò fra i singhiozzi, con le braccia tese verso di lui. - Addio! Addio! Addio!

- Addio! - rispose il ragazzo, levando la mano in alto.

La barca s’allontanava velocemente sopra il mare agitato, sotto il cielo tetro. Nessuno gridava più sul bastimento. L’acqua lambiva già gli orli della coperta. A un tratto il ragazzo cadde in ginocchio con le mani giunte e con gli occhi al cielo.

La ragazza si coperse il viso.

Quando rialzò il capo, girò uno sguardo sul mare: il bastimento non c’era più.»

 

Esagerazione retorica, scoperta strategia per commuovere il lettore e strappargli qualche lacrima facile? Lo si è detto e ripetuto, perché - i maestri del sospetto lo pongono come un dogma - nessuno parla dei buoni sentimenti senza un secondo fine, senza un tornaconto inconfessabile e, soprattutto, senza una buona dose di ipocrisia.

Ma è giusto guardare al mondo con questa perenne diffidenza, guardare all’uomo con questa sfiducia sistematica? A ben guardare, questo atteggiamento di suprema diffidenza e di pessimismo pregiudiziale nasce specialmente dall’idea freudiana che le tenebrose verità nascoste nell’inconscio ci spingono continuamente, per mascherarle, a dire e a fare tutto l’opposto di quel che pensiamo e che sentiamo. Piccolo particolare: Freud si era formato tale convinzione studiando la psiche dei malati, non dei sani: e, se è vero che una separazione netta fra gli uni e gli altri non è sempre agevole da tracciare, non perciò ne deriva che salute e malattia siano la stessa e identica cosa, né che tutti gli esseri umani siano dominati da logiche aberranti.

Quanto a noi, osiamo dire che, se un essere umano non ha provato, almeno una volta nella vita, lo stesso genere d’impulso generoso e disinteressato, assolutamente spontaneo e privo di secondi fini, che spinse Mario a rifiutare la salvezza a bordo della scialuppa, per cedere il suo posto a Giulietta, una ragazza che aveva appena conosciuto e che sicuramente, una volta arrivati a destinazione, non avrebbe più rivisto, allora vuol dire che non ha sangue, ma acqua nelle vene; e che, in definitiva, non sa né può comprendere cosa voglia dire amare qualcuno.

Ripetiamo: chi non ha mai provato l’impulso, assolutamente spontaneo e assolutamente sincero, a sacrificare la propria vita per un altro essere umano, non solo serenamente, ma anche lietamente, qualora si presentassero le condizioni estreme descritte nel racconto di De Amicis; chi non ha mai sentito uno slancio dell’anima che gli dice: «Io per quest’uomo, o per questa donna, darei la mia vita senza esitazione!», costui non è un essere umano se non a metà, e ha piuttosto qualcosa della lucertola, del rettile, dell’animale a sangue freddo.

Né basta averlo provato: bisogna anche aver sentito, nella parte più vera e profonda di se stessi, che quel gesto, qualora le circostanze si fossero presentate all’improvviso, lo si sarebbe compiuto senz’altro - averlo sentito con quel grado di certezza con cui si sente di amare, anche se non è una cosa oggettivamente dimostrabile -; solo allora si può dire di aver compreso che cosa sia la vita e per che cosa valga la pena di vivere o morire.

Non ha importanza se, poi, la vita stessa ci insegna quanto ci eravamo ingannati; e quanto, per esempio, quella persona fosse immeritevole di sentimenti così elevati, di come ella fosse soltanto una fantasia creata dalla nostra mente, e, per il resto, una persona mediocrissima, egoista, preoccupata solo di sé, perfino cattiva e determinata ad affermare il proprio ego su tutto e su tutti, magari rivestendo i panni, fasulli, della generosità e del disinteresse. Non ha importanza, perché la bellezza di quel sentimento, di quel pensiero, di quella disponibilità al sacrificio e alla totale abnegazione, non ne esce in alcun modo sminuita.

La nostra verità interiore non è mai sottoposta all’altalena delle cose esteriori e mutevoli: ciò che abbiamo provato, sentito, pensato, rimane per sempre, se lo abbiamo provato, sentito, pensato con assoluta lealtà e sincerità, senza cercare di apparire diversi da quel che eravamo, senza presentare una versione manipolata di noi, né agli altri né  a noi stessi.

Lo spirito di abnegazione è importante, perché ci consente di capire che noi non siamo il centro del mondo; che esistono cose più grandi di noi, davanti alle quali è giusto che ci facciamo piccoli: e queste cose non sono tanto, come sul momento ci può sembrare, delle persone o degli oggetti che ci appaiono provvisti di un valore infinito, per cui, possedendoli, anche noi accresceremmo l’idea che abbiamo di noi medesimi, ma, al contrario, sono delle cose che si rivelano in noi, anche se non vengono da noi, ma dall’alto, perché noi, da soli, non ne saremmo capaci.

Tale è il mistero della Grazia: e la disponibilità a rinnegare noi stessi per amore di quelle cose, di quei sentimenti, di quei valori, è cosa divina, della quale non saremmo capaci, se potessimo e dovessimo contare sulle nostre sole forze. Ma, per fortuna, quando intensamente desideriamo il bene, c’è una forza più grande di noi, che ci soccorre, ci sostiene, ci aiuta ad andare avanti…