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Adelaide Antici fu davvero quella cattiva madre che la tradizione leopardiana ha descritto?

di Francesco Lamendola - 26/09/2012



 

Fu davvero una cattiva mamma, la mamma di Giacomo Leopardi?

Questo è quanto abbiamo sentito dire da sempre, quanto ci hanno detto i nostri professori al liceo, quanto hanno ribadito quasi tutti i biografi di Leopardi.

Una cattiva mamma: dura, insensibile, avara, incapace di dare affetto a quel figlio così sensibile e infelice; non parliamo poi di sostenerlo e incoraggiarlo nelle sue prove filologiche e poetiche e nella sua passione letteraria; e, nel Paese dei poeti e del mammismo, si tratta di una duplice accusa che non lascia scampo, né speranza di riabilitazione.

Ma da dove deriva la tradizione che ci dipinge la marchesa Adelaide Antici, sposa del conte Monaldo Leopardi, con tinte così fosche? Ebbene proprio dal figlio, da Giacomo, il quale, in una tristemente celebre pagina dello «Zibaldone» (I, 411), così si esprime:

 

«Io ho intimamente conosciuto una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana  e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gli individuava intimamente e sinceramente perché questi erano volati al paradiso senza pericoli e avevano liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio perché li facesse morire perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere ed affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa e provava un vero sensibile dispetto. Era esattissima nei doveri che rendeva a quei poveri ammalati, ma nel fondo dell’anima desiderava che fossero inutili… Vedendo nei malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda… Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti e deformi ne ringraziava Iddio, non per eroismo ma di tutta voglia… Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo ed era stata così ridotta dalla sola religione.»

 

Ora, ammesso che questo brano si riferisca proprio a sua madre - senza di che tutto il castello cadrebbe inesorabilmente -, resta da vedere se si debba prendere per buono tutto quel che Leopardi vi ha scritto o se non vi sia parecchia esagerazione e, forse, un grave fraintendimento del carattere morale della donna.

Finora, a quanto sembra, quest’ultima ipotesi è stata presa in considerazione da pochissimi: la grandezza poetica di Leopardi ha fatto sì che tutto quanto è uscito dalla sua penna venisse accolto come oro colato; come mettere in dubbio che, anche in questo caso, egli non abbia detto che la pura verità? E poi, come potremmo farlo, dal momento che quasi le sole notizie che abbiamo sul carattere di Adelaide Antici provengono proprio da suo figlio, e precisamente da questo spietato brano di prosa? Eppure, basta una lettura anche superficiale di tale pagina, per rendersi conto che il ritratto in essa delineato presenta delle evidenti incongruenze di ordine logico.

In buona sostanza, Leopardi non accusa quella madre di non essersi prodigata per i propri figli, di non averli assistiti nelle malattie o cose simili, anzi afferma il contrario; piuttosto le fa un processo alle intenzioni, affermando che il suo vero, intimo desiderio era che i figli morissero, e ciò per due ragioni, entrambe esecrabili: una di natura pseudo-religiosa, ossia perché volassero in cielo puri dai peccati che avrebbero potuto commettere, se fossero cresciuti; l’altra di natura grettamente materiale, cioè per risparmiarsi il fastidio di accudirli e di crescerli.

Non vengono fornite prove, non vengono citati fatti o circostanze: dobbiamo credere a questo giudizio, anzi, a questa interpretazione, sulla sola parola di Leopardi, senza nemmeno avere l’assoluta certezza circa l’identità della persona di cui parla.

Una sola cosa balza evidente: egli detesta la religione cattolica e vuol far vedere a quali eccessi di superstizione, durezza di cuore e inconsapevole cinismo essa può condurre; e tuttavia, incoerentemente, si premura di specificare, fin dalla prima riga, che non si trattava di una cattolica superstiziosa, ma di una cattolica molto attenta e scrupolosa nell’esercizio della propria religione. Tuttavia, alla fine, Leopardi si smentisce in pieno, a meno che la frase iniziale vada intesa in senso ironico o addirittura sarcastico (ma, dal contesto, non si direbbe), perché conclude dicendo che quella donna, dotata dalla natura di un cuore sensibile, era diventata una madre snaturata precisamente per colpa della religione e di essa soltanto (come dire: vedete quali danni produce il credere in Dio?).

Ora, si può ben comprendere che la critica letteraria italiana, quasi tutta anticlericale e anticattolica, si sia gettata sul ghiotto boccone e abbia fatto proprio, senza una parvenza d’indagine critica (contraddizione in termini: una critica senza spirito critico), il crudele giudizio di Leopardi, in omaggio ai propri pregiudizi ideologici e a dimostrazione dei propri presupposti razionalisti, illuministi e materialisti; ma come non notare, sul piano puramente logico, la fragilità della - chiamiamola così - tesi accusatoria di quel brano di prosa dello «Zibaldone»?

Leopardi sostiene che quella madre gioiva intimamente delle gravi malattie che colpivano i suoi figli; riconosce, però, a denti stretti, che non fece loro mancare alcuna premura e sollecitudine nell’assisterli. E dunque? A sostegno della sua tesi, egli può solo dire che, nel fondo dell’anima  (ma chi può leggere davvero in fondo a un’anima umana, e fosse pure la propria?), ella si augurava che tutte le sue cure e sollecitudini risultassero inutili.

Ancora: Leopardi afferma che, davanti al dolore del marito per la morte dei figli, ella si rannicchiava in se stessa, indispettita; ma pare che nessuno si dia domandato: indispettita da cosa? Dal fatto che il marito non si rallegrasse, come lei, della loro morte (ipotesi mostruosa, e tuttavia apertamente suggerita) oppure, come a noi sembra tanto più probabile, dal fatto che quel brav’uomo, del quale dovette prendersi cura come di un bambino per tutto il tempo della loro vita coniugale, invece di offrire a lei un po’ di conforto, anche in quelle circostanze si mostrasse sempre così debole e bisognoso di aiuto? Forse la donna, semplicemente, era stanca di fare l’uomo di casa: ne aveva abbastanza, ecco tutto; e avrebbe desiderato, nel suo dolore di madre, che, per una vola, fosse suo marito a indossare i pantaloni e  capace di mostrarsi forte e protettivo verso di lei.

Fra i pochissimi biografi di Leopardi che hanno fornito un ritratto della marchese Adelaide fuori dagli stereotipi, ricordiamo Egidio Boschi, autore di un libro poco noto sul grande poeta recanatese, libro che è passato a suo tempo pressoché inosservato e che subito dopo è caduto nelle acque stagnanti del voluto dimenticatoio culturale nostrano (da: E. Boschi, «Giacomo Leopardi», Alba, Edizioni Paoline, 1948, pp. 22-29):

 

«... La sua figura di madre è stata fino a questi ultimi tempi incompresa, e l’opera sua fu giudicata molto sinistramente sulla falsariga di una descrizione, più che esagerata, calunniosa, e scritta certo in un momento di umor nero da quel Giacomo che nel suo pessimismo ha travisato molte cose buone.

Naturalmente, per i troppi criteri settari prevalenti nella seconda metà dell’Ottocento, tra una madre tenacemente attaccata alla fede degli avi, e il figliolo posto al di fuori di ogni fede, il torto non poteva essere che della madre!

Aprioristicamente la si chiamò allora inumana, spigolistra (sic) e bigotta, autoritaria ed avara,  “un mostro addirittura di egoismo gretto, arido e quasi feroce”, completamente chiusa ad ogni palpito di amore materno e di simpatia umana, specie a riguardo di Giacomo. La si descrisse chiavi alla cintola, con in capo un berretto da marinaio e ai piedi scarponi da contadino, indossando quasi sempre una mantiglia vecchia e tutta stinta, continuamente in moto su e giù per le scale per vigilare ed impartire ordini come un generale in tempo di guerra, non trovando tregua che alla sera, quando in camera “confusamente mescolava preghiere e conti della giornata” (Saponaro). Né con ciò è detto tutto quel che si disse contro l’Adelaide, se non con ingratitudine, ché questa è del solo Giacomo, certo con una corrività di giudizio assolutamente strana. […] La ragione si ribella a credere alla possibilità di un tale tipo umano. Quindi on è cosa difficile convenire col Ferretti, al certo uno dei più sereni indagatori di cose leopardiane,  quando disse: “Il profilo dello “Zibaldone” è pazzesco. Crea un tipo irreale e malato, ed è frutto di uno di quei momenti di odio che ognuno di noi vive contro tutto il creato”. Si vede allora con quanta critica e serietà hanno agito coloro che sono partiti da questa pagina per delineare dell’Adelaide il ritratto che abbiamo riferito sopra.

Un giudizio equo e veritiero sulla persona e sull’opera  di Adelaide Antici, come bene e sensatamente annotò il Moroncini, non è possibile darlo se non si tengano presenti assieme il tempo in cui visse, l’educazione da essa ricevuta, le qualità e le condizioni della famiglia da cui uscì e di quella in cui entrò sposa a soli diciannove anni, il suo carattere forte, le sue idee religiose e politiche, le sue norme amministrative il fine a cui mirò  in tutta la sua vita laboriosa di sposa e di madre. Come per qualsiasi avvenimento storico, anche qui,  se si vogliono avere gli elementi completi del giudizio,  è Assolutamente necessario ricomporre il tutto nella prospettiva di un secolo fa. In caso contrario si sarà condannati a non capire nulla, , neppure cose in se stesse tanto insignificanti, e a pronunciare giudizi di lode e di biasimo infondati e soggettivi.  […]

Triste aurora dovette per certo essere quella della giovanissima Adelaide Antici nel nuovo stato matrimoniale! (1797) Era appena entrata in casa Leopardi che ebbe la sensazione dei nuovi e gravosi doveri le incombevano. Le difficoltà opposte al lieto viaggio di nozze, per quanto ricoperte con speciose ragioni,  le manifestarono la non lieta prospettiva di grosse e forse irrimediabili  falle aperte nella fortuna del Leopardi che essa aveva creduto florida e sicura.

Donna di alto spirito e di energica azione, si propose di ricostruirla, riparando con provvida  economia ed una amministrazione oculata al dissesto delle finanze esauste, e facendo mano mano tacitare le molestie dei creditori usurai che avevano imprestato al tasso del ventiquattro per cento! Tolta l’amministrazione di mano all’incapace Monaldo e attraverso la cura vigilante di ben quarant’anni, riuscì a ricostituire il patrimonio disperso. Così, fra l’altro, pochi giorni dopo le nozze, parecchi preziosi del suo personale abbigliamento e doni matrimoniali presero la via di Roma per essere cambiati in denaro liquido, buttati poi a chiudere le falle più urgenti e salvare dall’incombente rovina il patrimonio oberato di debiti.

Venne presto ala luce il primo dei molti figlioli, Giacomo (1798). Fu quella una nascita particolarmente laboriosa che pose in pericolo la vita della madre, ma dove si vide fulgente l’anino eroico di quella donna che in mezzo ai dolori badava a ripetere ai familiari e al medico la sua disposizione di morire  ella stessa purché si salvasse il figlio nascituro. E nato, essa stessa lo allattò fino alla venuta del secondogenito Carlo (1799). …]

Ed ecco aprirsi un nuovo campo in cui saggiare l’animo virile di Adelaide. Il 1803, a soli nove mesi di vita, moriva il figlio Luigi. Contro tutto quello che potrebbe far supporre il ritratto riportato dello “Zibaldone”, il dolore provato da quella madre fu immenso.  Anche dopo la sepoltura del piccolo Luigi, per alcune notti, nella sua preoccupazione materna restò essa in piedi a vegliare il sonno dei cari superstiti. Vera madre e non attrice drammatica, come volle far supporre qualcuno. E così altre ed altre volle ancora, dato che la morte batté spesso in quella casa…»

Ma c’è ancora una cosa che, si direbbe, è passata quasi inosservata agli occhi dei biografi di Leopardi, tutti così severi verso di lei, quasi quanto lo sono stati i biografai di Nietzsche verso la sorella di questi, Elisabeth (un riflesso condizionato maschilista?): intendiamo parlare della sua bellezza. Una bellezza straordinaria che, pur essendo fine, era quasi eccessiva.

Che fosse intelligente, energica e volitiva, lo dimostra il fatto che seppe rialzare il decaduto patrimonio del marito e tirar su una famiglia numerosa e difficile (con tanto di marito legalmente interdetto a occuparsi delle finanze di casa); che fosse straordinariamente bella, anche se di una bellezza severa e malinconica, appare dai suoi ritratti.

Chissà, forse qualche critico affetto da complessi psicologici ha voluto punirla di tanto splendore…