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Scherza coi fanti, ma non coi Santi (Teonisto,Tabra e Tabrata), né con le loro chiese

di Francesco Lamendola - 03/10/2012




 

Non è facile fare un po’ di chiarezza sulle origini del culto dei Santi Teonisto, Tabra e Tabrata, a causa della scarsezza, della contraddittorietà e del modesto grado di attendibilità storica delle fonti che parlano di essi; ad ogni modo, ci proviamo.

Il «Martirologio romano», seguendo una tardiva recensione della «Passio» di San Teonisto (o Teonesto), li commemora il 30 ottobre come martiri, uccisi dagli ariani di Altino, che li avrebbero gettati nelle acque del fiume Sile (per inciso, il più lungo fiume di risorgiva d’Europa, con oltre 90 km. di corso, dalla sorgente di Casacorba in frazione di Vedelago, alla foce del porto della Piave Vecchia), da un ponte presso l’attuale Musestre, in un vero e proprio agguato.

Secondo la «Passio» più antica, invece, il martirio avrebbe avuto luogo per opera dei pagani, al tempo dell’imperatore Teodosio. Ma nessuna delle due notizie, come osserva Agostino Amore nella «Enciclopedia cattolica» (Città del Vaticano, 1953, vol. XI, col. 1977), appare sufficientemente attendibile, per il semplice fatto che nessun documento antico degno di fede reca notizia di un San Teonisto, o Teonesto, vescovo di Altino. Pare probabile che si sia fatta qualche confusione con un Teonisto che venne martirizzato a Vercelli, sul cui sepolcro venne eretta una chiesa da San Eusebio e le cui reliquie vennero diffuse in varie località dell’Italia settentrionale, giungendo anche Altino. La presenza di tali reliquie fece pensare erroneamente che il corpo del martire fosse sepolto in quest’ultima località e, per induzione, che egli fosse stato anche vescovo della città.  

Ancora più scarse sono le notizie sicure dei suoi due compagni di martirio, Tabra e Tabrata. Forse erano due martiri goti uccisi in Tracia nel V secolo e arbitrariamente identificati come aiutanti del vescovo Teonisto, rispettivamente in qualità di diacono e suddiacono.

Della «Passio» di San Teonisto esistono due versioni non collimanti fra loro, l’una del X secolo, l‘altra dell’XI (mentre a parlare di Teonisto come vescovo è uno storico del IX), dunque parecchi secoli dopo i supposti eventi storici. Vi si dice che Teonisto, nativo dell’isola di Namsis, era vescovo di Filippi e con Tabra e Tabrata, nonché con il corepiscopo Albano ed il chierico Orso, si sarebbe recato in pellegrinaggio a Roma, sulla tomba degli Apostoli Pietro e Paolo; poi sarebbe passato da Milano, per incontrarsi con Sant’Ambrogio (che lo avrebbe presentato all’imperatore Teodosio) e infine si sarebbe recato in Gallia. Orso fu ucciso durante il viaggio dai pagani, ad Augusta (probabilmente Aosta), mentre Albano sarebbe morto a Magonza durante una incursione dei Vandali. Di ritorno in Italia, gli ariani di Altino avrebbero atteso lungo il corso del Sile i tre superstiti e li avrebbero martirizzati, affogandoli nella località di Musestre.

Secondo l’altra versione, invece, i tre sarebbero stati decapitati; ad ogni modo, il loro martirio sarebbe avvenuto nel 380. Una fonte ancor meno attendibile parla invece del 22 novembre 425, ma a quell’epoca gli ariani non costituivano più una minaccia per i cattolici, in Italia. È interessante il fatto che secondo la «Passio», il ritorno in Italia dalla Gallia non sarebbe avvenuto via terra, ma via mare, a bordo di una nave che, doppiata la Penisola Salentina, avrebbe risalito l’Adriatico e sbarcato i tre santi presso il bordo interno della Laguna veneta: sarebbero stati proprio gli ariani a farli salire a bordo e a costringerli a servirsi di una imbarcazione in pessimo stato, forse con l’intento di farli perire durante il viaggio.

Ma si tratta di una vicenda piuttosto fantasiosa, così come lo è la geografia dell’itinerario, che ci ricorda, se non altro, come fossero decadute nel tardo Impero le vie di comunicazione, un tempo magnifiche, e come fossero diventati malagevoli e pericolosi i viaggi via terra (si ricorderà che il poeta Rutilio Namaziano, per rientrare in Gallia dopo il sacco di Roma del 410, effettuò anch’egli il viaggio via mare, lungo le coste dell’Etruria e della Liguria). Il vescovo veneziano Paolo I avrebbe traslato poi le loro reliquie da Altino a Torcello nel 635, ove, una sessantina d’anni più tardi, nel 697, il vescovo Deodato le avrebbe poste nella Cattedrale di quell’isola. In realtà, è possibile che non solo Teonisto non sia mai stato nel Veneto, ma che sia lui che i suoi due collaboratori siano dei martiri nordafricani, uccisi dai Vandali (loro sì, di religione ariana), le cui reliquie potrebbero essere state trafugate nella zona della Laguna di Venezia dai vescovi delle loro diocesi d’origine.

Sta di fatto che sin dal 1082 siamo documentati circa l’esistenza di un culto dedicato a San Teonisto nella diocesi di Treviso (erede di quella altinate), della quale era considerato il compatrono, assieme a San Liberale. A lui - e ai santi Tabra e Tabrata - era ed è tuttora dedicata la chiesa parrocchiale del paese di Casier, sul Sile, poco a valle della stessa Treviso; mentre non vi è più traccia di un monastero benedettino dedicato a San Teonisto, che esisteva sempre a Casier, lungo la strada che conduce a Iesolo, a noi noto solo grazie a documenti del 710, dunque della tarda età longobarda. Vale inoltre la pena di ricordare che San Teonisto è ricordato e onorato non solo in Italia, ma anche a Magonza, insieme ai suoi collaboratori e martiri Albano e Orso.

Un’altra chiesa, più importante di quella di Casier, era a loro dedicata nello stesso capoluogo della Marca trevigiana, sempre in vicinanza dell’argine del Sile: chiesa tutt’oggi esistente, benché sia stata pressoché interamente ricostruita dopo le distruzioni dell’ultima guerra. Infatti il quartiere ove essa sorge subì un micidiale bombardamento aereo statunitense il 7 aprile 1944, che provocò oltre un migliaio di vittime e danni incalcolabili (ne parla lo scrittore Giuseppe Berto nel suo amaro e bel romanzo «Il cielo è rosso», pubblicato da Leo Longanesi nell’immediato dopoguerra, cambiandone il titolo originario «La perduta gente»); un’altra serie di drammatici bombardamenti aerei ebbero luogo nella settimana del Natale, culminando il 25, il 27 e il 29 dicembre 1944, sì da ridurre la chiesa, che era un piccolo gioiello di architettura settecentesca, ad un cumulo di rovine.

Abbiamo fatto un giro piuttosto lungo per inquadrare il culto di questi tre santi, ma ora è proprio di quest’ultima chiesa che vogliamo parlare, posta nel quartiere a sud-ovest di Treviso, entro le mura, a brevissima distanza dalla monumentale Basilica dei Domenicani, San Nicolò.

Si tratta di un bell’edificio sacro, purtroppo da tempo sconsacrato e lasciato andare lentamente, ma inesorabilmente in rovina.  Così lo descrive Giovanni Netto  nella sua eccellente «Guida di Treviso» (Trieste, Edizioni Lint, 1988, p. 415-16):

 

«Poco oltre la piazzetta Benedetto XI, sulla quale prospetta l’ingresso dell’istituto or ora visitato [cioè il Seminario vescovile], cioè la Chiesa di S. Teonisto con lo stabile (ricostruito dopo la distruzione quasi totale per la guerra) dell’omonimo ex convento delle monache benedettine, qui trasferitesi nel XV secolo dalla sede di Mogliano, dove l’abbazia aveva avuto origine con un insediamento  di monaci del medesimo Ordine nel X secolo.

La legge napoleonica aveva esentato dall’incameramento la chiesa di San Nicolò, in quanto addetta al culto del Liceo dipartimentale, altrettanto sopravvisse San Teonisto perché nell’ex convento fu istituito un collegio femminile, durato fino ai primi decenni del Novecento: il laicismo degli eredi del “secolo dei lumi” non ammetteva che i giovani studenti d’ambo i sessi non avessero la possibilità di adire le pratiche del culto, anche se opportunamente vigilato. Nel convento fu successivamente collocato l’Istituto Magistrale statale e, quando questo nel 1940  ebbe una sua sede in via Caccianiga dietro il Museo Civico, esso fu acquisito dal Seminario; poi venne la guerra. La chiesa, non più riaperta al culto, era rimasta nelle mani del Comune, il quale ne utilizza lo spazio secondo le pubbliche esigenze. L’edificio attuale, settecentesco, non ha pi nulla a che vedere con la costruzione originaria, sorta in età immemorabile e divenuta cappellania della zona sud-occidentale della città fino al 1434, quando, per lo stabilirsi delle monache, in questo lato fu ampliata la parrocchia del duomo.

La dotazione pittorica, a parte le decorazioni parietali perdute,  è quasi tutta nel Museo civico, ivi compresa la “Crocefissione” di Jacopo Bassano proveniente da San Paolo e qui all’epoca delle soppressioni collocata sull’altar maggiore, ritenendola più idonea. Erano invece partite le “Nozze di Cana” di Benedetto Caliari, pur contrastata fino a tempi recenti l’attribuzione alla mano  de fratello Paolo, dopo vario errare finite nella “sala gialla” del palazzo di Montecitorio in Roma.  Il “Martirio di San Teonisto” di Palma il Vecchio fu consegnato nel 1811 alla milanese Galleria di Brera, mentre in quella stessa città, ma al Castello Sforzesco, è segnalato il “Martirio di Santa Giuliana” di Carletto  Caliari. Il coro delle monache, tutto in legno intagliato, è tuttora al suo posto in una adiacenza della chiesa.»

 

La chiesa di san Teonisto, dunque, era da tempo di proprietà del Comune, allorché nel novembre del 2009 è stata messa all’asta e venduta - non subito, poiché l’asta era andata deserta, ma in seconda battuta - all’unico offerente presentatosi, cioè i fratelli Benetton, noti imprenditori della Marca nel settore dell’abbigliamento, per la somma di 1.152.500 euro. Poco più di un milione di euro, dunque: è molto o è poco, per aggiudicarsi un edificio storico-artistico che racchiude un pezzo significativo della memoria collettiva del capoluogo trevigiano? A noi sembra una cifra ridicolmente bassa; sta di fatto che altre offerte non ne sono pervenute e il Comune l’ha ritenuta ammissibile.

L’intenzione degli imprenditori di Ponzano era quella di procedere al restauro dell’edificio e di destinarlo poi, come stabilito esplicitamente dal bando comunale, ad uso culturale, passandolo in gestione, a tale scopo, alla Fondazione Benetton, che attualmente ha sede presso il Palazzo Bomben, in Via Cornarotta, a due passi dal Duomo cittadino. Pare che l’idea di procedere all’acquisto della ex chiesa (ma una chiesa, anche se sconsacrata, diventa “ex” o rimane comunque, agli effetti dello storico dell’arte se non del credente, pur sempre una chiesa, tale e quale lo era in origine?) sia partita dallo stesso Luciano Benetton, che, nelle trattative per l’acquisto, si è fatto rappresentare da un suo delegato, Gianni Cinotti.

I restauri, in effetti, sono stati incominciati ma tuttora, dopo quasi tre anni che la chiesa è passata di mano dal Comune alla ditta Benetton, non si intravede la sua riapertura al pubblico per la prevista destinazione culturale. Perciò possiamo solo sperare che ciò avvenga al più presto, in modo che la cittadinanza rientri in possesso, e sia pure solo nel contesto di particolari eventi o manifestazioni culturali, di un nobile edificio ove ogni singola pietra è carica di arte e storia - ricchezza che evidentemente i “liberatori” americani non possedevano né possiedono e cui non pensano quando bombardano, per esigenze strategiche, degli obiettivi “militari” (come si è visto anche in Iraq nel 1991 e nel 2003).

La questione, in termini generali di filosofia urbanistica, è quale destinazione e quale futuro si debba immaginare per quegli edifici di interesse storico-artistico che l’amministrazione pubblica non è in grado di mantenere e che, d’altra parte, proprio per la loro indubbia rilevanza culturale, non possono essere puramente e semplicemente venduti al primo offerente e dimenticati una volta per tutte, dopo aver intascato i quattrini.

La cosa è ancora più delicata se si tratta di una chiesa; perché, oltre a essere un edificio che si segnala per il suo valore architettonico, essa è anche, e prima di tutto, un luogo di culto: un luogo in cui generazioni di fedeli hanno pregato, sono stati battezzati e hanno accompagnato i loro cari nell’ultimo viaggio terreno; i loro muri non soltanto sono carichi di storia, ma hanno un’anima, perché sono impregnati da un’aura spirituale che si propaga da secoli e secoli.

Pretendere, per tali edifici, una destinazione culturale, quale potrebbe essere una struttura per conferenze o per concerti musicali, oppure un laboratorio teatrale, è il minimo che possono fare le amministrazioni pubbliche, nel momento in cui li mettono all’asta. Se non c’è denaro pubblico per salvare tanti monumenti e tanti edifici dal degrado e dalla rovina, ben vengano le offerte dei privati, purché a condizioni ben precise. Meglio sarebbe stipulare contratti di affitto, comunque, piuttosto che di vendita: quando si tratta di beni della comunità che rivestono un valore storico e artistico, infatti, sarebbe giusto che la comunità ne rimanga sempre la legittima proprietaria.

È vero, c’è un grande patrimonio pubblico in attesa di liquidazione; e, con la crisi che morde, allo Stato e agli enti locali non sembra vero di trasformarlo in moneta sonante: ma questa dovrebbe essere l’”extrema ratio”, perché equivale, spesso, a un impoverimento delle nostre radici culturali.