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Solo, in cima al colle battuto dai venti, col respiro dell’infinito sulla faccia

di Francesco Lamendola - 09/10/2012




 

Solo, in cima al colle battuto dai venti, col respiro dell’infinito sulla faccia: così è bello accogliere la vita, lasciandosi alle spalle - non appena possibile - ansie e preoccupazioni e immergendosi nella fresca vita della natura, in mezzo al verde, a quattro passi dalle nuvole.

In basso, il lago alpino circondato da alti monti; in alto, soltanto l’azzurro sconfinato, sfolgorante di luce; e la brezza sul viso e sulle braccia, pura e gagliarda; e il profumo dell’erba e della resina, il profumo dell’aria rarefatta, che non si sente mai in pianura, se non, talvolta, dopo un violento temporale estivo: orizzonti di libertà, emozioni inebrianti di assoluto.

Chi non ha provato tali emozioni, lasciando la città e parcheggiando la macchina al margine della strada, per avviarsi poi con passo elastico e deciso su per un sentiero di montagna, nella perfetta solitudine dei boschi, rotta soltanto dallo stormire del vento fra milioni e milioni di foglie, dalla caduta di un ramo secco, dal battere improvviso di un paio di ali?

E chi non si è sentito riconciliato con la vita, dimentico degli affanni, grato e ammirato davanti allo scenario incomparabile che è dato di raggiungere in poco più di mezz’ora, magicamente sospeso fra sogno e realtà, eppure così reale da potersi smarrire in esso con felice smemoratezza, fuori dal tempo ordinario, in attimi di consapevolezza che paiono lunghi come ore?

E la genziana sul bordo del fossato, gaia macchia di colore azzurro contro il verde tenero dell’erba; e il giallo ridente dei ranuncoli che fa capolino presso la sponda del torrente; e la magia della farfalla multicolore, aerea fata della radura, che disegna spirali nell’aria; e la piccola, elegantissima felce, «Asplenium trichomanes», che pende dalle rocce e si abbarbica nelle più scabre fenditure: quanta poesia, quale profusione di bellezza per chi possieda occhi capaci di vederla e un cuore capace di albergare meraviglia e riconoscenza.

È allora che l’anima, sgombra di invidie, paure, gelosie, ambizioni, brame disordinate, ritrova la parte più pura e generosa di se stessa, e s’innalza in un volo sublime, fino a sfiorare il cielo, per cogliere scintille d’infinito e per fondersi con l’Origine di tanta luminosità, con l’Essere da cui ogni cosa emana e cui ogni cosa anela a far ritorno, così come la cerva assetata, nell’arsura della steppa, anela ai freschi rivi delle acque, mormoranti sotto l’ombra dei salici e dei pioppi.

Ecco come lo scrittore Xavier Marmier descrive una di queste avventure dell’anima nel suo romanzo «Un viaggio alle Spitzbergen» (titolo originale: «Les fiancés du Spitzberg», traduzione di Valentina Bianconcini, Bologna, Edizioni Capitol, 1959, pp. 49-50):

 

«Quei quindici giorni di sosta dettero al giovane molto tempo disponibile, ch’egli impiegò a studiare il paese in cui era forzato a trattenersi, scendendo spesso a terra, visitando i negozianti che lo accoglievano con gran cordialità, raccogliendo indicazioni sulla vita marittima e commerciale di quella strana cittadina. A volte, secondo il suo solito, s’indugiava in cabina a leggere oppure faceva lunghe passeggiate solitarie nei dintorni di Hammerfest.

Una mattina vide la cima del Tyvefield profilarsi nitida, senza foschia, e risolse di andarvi. Il sole si levava allora; il mare, increspato da una brezza leggera, ne rifletteva i raggi purpurei, e la neve, che ricopriva ancora i campi coltivati, scintillava come una superficie sfaccettata: era il primo sorriso del’estate su quella terra settentrionale, ma un sorriso dolce e malinconico, di un sole privo di calore.

Marcello salì i ripidi fianchi della montagna a passi lenti, soffermandosi ogni tanto ad osservare gli effetti del primo accrescersi della temperatura su quella terra boreale. Non arbusti all’intorno né fiori né ronzio d’insetti nell’aria. Però le masse di neve incominciavano a dissolversi in acqua e gorgogliavano qua e là, sui pendii, in cascatelle sonore. Nelle fenditure delle rocce già libere dal bianco lenzuolo s’affacciavano ciuffi di crittogame, e sulle distese scoperte, tappeti di licheni giallastri. In cima a una forra, un logopede, o pernice di montagna, scavava con le zampe piumate un buco nel ghiaccio per deporvi le uova; un piviere raspava il terreno nudi per cercarvi qualche vermicello; lontano, verso la spiaggia, s’udivano le strida dei gabbiani. Quando si soffermava, a Marcello pareva d’udire  una specie di fremito indistinto, di vago crepitio: ancora un segno che il mondo della natura, già addormentato, s’andava risvegliando.

Egli incontrò non poche difficoltà via via che s’accostava la cima del Tyvefield: affondò più volte in masse di neve molle e inciampò nelle pietre dei crepacci provocando numerose cadute di sassi nella valle sottostante. Ma giunto sulla cresta del monte, che s’innalza a piramide a trecentoventi metri sul livello del mare, non rimpianse la fatica dell’ascensione perché gli si offrì alla vista uno spettacolo stranamente bello e imponente: catene di colline desolate, rocce aspre, precipizi,  e qua e là laghetti gelati scintillanti nel sole; più lungi, da un lato le onde azzurre dell’oceano, dall’altro le gigantesche montagne  di Söro e i risplendenti ghiaccia del Seiland; lontanissimo, peso in una vaporosa foschia, il pianoro del Capo Nord, ultimo limite dell’Europa. In quell’immensa distesa nessun segno di vegetazione né altra apparenza di vita umana se non la punta del campanile di Hammerfest con le casette di legno all’intorno, e in mare, le barche dei pescatori.

Su quel grande scenario incombeva un silenzio solenne che induceva l’anima a pensare a Dio e ad adorarlo.»

 

Marmier (nato a Pontarlier nel 1806 e morto a Parigi nel 1892), grande appassionato delle cose dell’Artide, viaggiatore, etnologo e naturalista, buon conoscitore di tutte le lingue scandinave, non sarà stato un sommo scrittore, ma certo aveva lo spirito del poeta; e il suo romanzo, narrante la struggente storia d’amore di un giovane tenente della marina mercantile e di una ragazza svedese che morirà di tisi durante una drammatica crociera, se non è di certo un capolavoro, è però un’opera  piacevole e leggibilissima; tanto che ci si domanda le ragioni dell’oblio in cui è caduta e si finisce per sospettare che vi sia stata, da parte della critica moderna, una vera e propria selezione alla rovescia, portando alla notorietà e alla fama non le opere migliori, ma quelle conformi alle filosofie materialiste e nichiliste care ai circoli massonici ovunque dominanti, mentre venivano escluse, stroncate o sminuite quelle che parlano di fede, speranza, amore. Ma il discorso  ci porterebbe assai lontano e, del resto, ne abbiamo già parlato altre volte.

Il brano sopra citato offre una pagina di prosa che, se letta con la giusta disposizione di spirito, ossia con un atteggiamento di ammirato stupore davanti al prodigio del mondo, non lascia indifferente chi possieda un animo gentile: quella salita solitaria fino all’estremità della Terra, nel timido ridestarsi della primavera artica; quei vasti, solitari orizzonti marini; quel magnifico colpo d’occhio su acque e monti remoti; quel silenzio incombente e giammai profanato dai rumori della civiltà, ma sottolineato dalle rare voci della natura, dal grido degli uccelli, dal suono della risacca sugli scogli, tutto ciò desta una senso d’infinito ed evoca una dolcissima pace del cuore, come se davanti a tanta grandiosità non vi fosse posto per le miserie del piccolo io che brama, teme, spera incessantemente, senza saper lui stesso che cosa e perché.

L’anima ben nata ha bisogno di respirare tali boccate d’aria pura, per alimentare i suoi sogni più puri e il suo senso del bello: proprio come è difficilissimo alimentare i buoni sentimenti, se si è costretti a rimanere costantemente immersi in un ambiente degradato, sporco, mefitico, circondati da persone volgari e cattive, così è altrettanto difficile alimentare la fantasia e la sensibilità  se si nega all’anima il contatto vivo con la natura, con la bellezza dei boschi, dei monti o del mare, con l’alternarsi delle stagioni, con i profumi della campagna. Vivendo in città, distratti e frastornati da mille cose, molte delle quali superflue o dannose, tendiamo a dimenticarci questa semplice verità: che esiste una ecologia dello spirito, così come esiste una ecologia del corpo.

E così come il distacco dalla natura si ripercuote sul nostro corpo, che diventa sgraziato e cagionevole a causa delle cattive abitudini alimentari, della eccessiva sedentarietà, del vizio del fumo, dell’abuso di alcolici, del ricorso a condizionatori d’aria o a impianti di riscaldamento portati al massimo regime, similmente esso si riflette nella nostra anima, provocando o favorendo l’insorgere dell’ansia, i bruschi sbalzi di umore, la tendenza alla malinconia cronica, le nevrosi, la depressione, il disorientamento morale e lo smarrimento esistenziale.

Quante ferite può risanare il rapporto diretto con la natura; quanto beneficio se ne può ricavare, in fato di rasserenamento delle passioni, di chiarezza del pensiero, di senso dell’equilibrio interiore, di pacatezza nel giudizio, di prudenza e benevolenza nelle relazioni umane, di discernimento e intuitività nelle decisioni da prendere: è come affidarsi ai consigli di un’amica fedele, che non ci chiede mai nulla in cambio, se non nel nostro stesso interesse.

Salire lungo un sentiero di montagna in mezzo ai boschi e ai prati, col vento in faccia che soffia liberamente e un vasto panorama spalancato sotto di noi, produce effetti simili all’ascolto di un pezzo di musica classica, per esempio di una fuga di Bach: tutta l’anima vi partecipa con gioia, se ne abbevera avidamente, si lascia trasportare in una dimensione rarefatta e luminosa, per uscirne, infine, purificata e trasfigurata.

L’uomo è quel che mangia, diceva qualcuno; ma è anche quel che respira, quel che contempla, quello che ascolta, quello che sogna. È molto più di un animale evoluto; è un frammento di luce nella notte oscura: può illuminare la via come una stella cadente, può splendere a beneficio degli altri, se riesce a far leva sulla propria parte migliore e se non si lascia sviare e irretire dalle seduzioni provenienti dai livelli inferiori della coscienza.

Se, invece dello spettacolo sontuoso della natura, con le sue luci e i suoi colori, si hanno sempre negli occhi dei paesaggi urbani squallidi e anonimi, assediati dal traffico e gravati dallo smog; se, invece dei richiami degli uccelli, del chioccolio dell’acqua della cascata, del canto dei grilli, si hanno gli orecchi pieni del rumore delle fabbriche e delle automobili, dei martelli pneumatici e delle falciatrici elettriche; se, invece del profumo dell’erba bagnata di pioggia, della resina che trasuda lungo il tronco degli abeti, del dolce odore animale che esce dalla stalla (da una stalla tradizionale,  a misura d’animale, e non da una moderna, gigantesca stalla totalmente automatizzata), si hanno nelle narici le grevi esalazioni del tubo di scarico degli automezzi, le emissioni di qualche stabilimento industriale, le esalazioni dei liquami putridi che salgono dai tombini quando cambia il tempo, allora non solo la salute e l’equilibrio del corpo, ma anche la salute e l’equilibrio dell’anima sono gravemente minacciati e bisogna correre ai ripari.

Si suole dire che sarebbe bello trovare il tempo per “staccare la spina” dagli impegni quotidiani, per ritagliarsi dei tempi di riposo e di svago, per ricucire il nostro rapporto con la natura, ma che ciò non è materialmente possibile, perché, appunto, troppi sono gli impegni da rispettare, i doveri, le responsabilità: nelle molteplici vesti di lavoratori, di genitori e di figli, di comuni cittadini. Eppure accade che per un gran numero di persone queste ragioni, che pure esistono e che nessuno si sogna di negare, finiscono per divenire delle comode scusanti per la loro rassegnazione, per il loro fatalismo, per la loro rinuncia: in realtà, “staccare la spina” è possibile quasi a chiunque, purché lo voglia davvero, ossia purché possieda una motivazione abbastanza forte da non lasciarsi ricattare da una serie di abitudini non sempre felici, alle quali - però - non sa rinunciare.

E infatti, una immersione nel fresco abbraccio della natura non per tutti ha effetti rigenerativi e rasserenanti; per alcuni, anzi, innesca addirittura delle dinamiche di tipo depressivo. Una persona abituata a non staccarsi mai dal televisore o dal telefonino, dal computer o dai videogiochi, difficilmente sarà in grado di apprezzare la bellezza severa di una foresta di faggi; una persona abituata alle compagnie numerose e rumorose, incapace di raccogliersi in se stessa, di ascoltarsi, di godere del silenzio, apprezzerà ben poco una escursione in montagna o una passeggiata in riva al mare, se si troverà a farle da sola.

La natura ci rivela a noi stessi: se non siamo in grado di apprezzarla, vuol dire che abbiamo un cattivo rapporto con noi stessi, che siamo squilibrati, fuori centro. D’altra parte, essa può aiutarci a ritrovare l’armonia interiore: ma solo se sapremo domandarglielo con le parole giuste…