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La ferocia del consumismo nipponico

di Valerio Zecchini - 24/10/2012



Ci si lamenta spesso della crescente aggressivita’ della pubblicita’ e del consumismo in Italia e in Europa, ma chi ha viaggiato o vissuto in estremo oriente sa bene che in quei paesi la situazione e’ molto peggiore. I centri commerciali di megalopoli come Giacarta, Tokyo, Manila o Bangkok talvolta sono grandi come citta’ e se ne trovano perfino sottoterra, le catene di ristoranti fast food sono presenti ad ogni angolo di strada, la pubblicita’ e’ martellante ed onnipervasiva: in metropolitana o in corriera voci suadenti vogliono indurvi ad acquistare le piu’ svariate merci coi loro ripetitivi slogan, alle fermate dell’autobus e nelle stazioni ferroviarie video enormi proiettano spot 24 ore al giorno, il paesaggio urbano ma ormai anche extra-urbano e’ quasi completamente devastato da una cartellonistica gigantesca.E tutto cio’ senza contare la debordante propaganda commerciale dei media domestici.
Mari Akasaka e’ un’importante scrittrice giapponese, vincitrice del premio Noma nel 2000, che nei suoi romanzi e’ riuscita a sviscerare in maniera esemplare i compulsivi meccanismi della mentalita’ consumista; e non ha certo nulla da invidiare ai suoi sopravvalutati colleghi Banana Yoshimoto e Haruki Murakami, tuttavia le sue opere non sono mai state tradotte in Italia. Questo nonostante il successo internazionale di “Vibrator” (1999 – chi sa l’inglese  puo’ leggerselo nella bella edizione di Faber and Faber), da cui nel 2003 fu tratto anche un film che ha girato piu’ che altro nel circuito dei festival internazionali. E’ un romanzo fondamentale per capire a fondo le dinamiche della vita quotidiana nel Giappone di oggi e anche la condizione femminile in quel paese, situazione che poi non differisce di molto da quella delle altre nazioni cosiddette “industrialmente avanzate”.
La protagonista Rei Hayakawa e’ una problematica giornalista free lance poco piu’ che trentenne; nonostante stia conoscendo un certo successo nella sua professione, sta sprofondando lentamente nel vizio dell’alcolismo. Il casuale incontro con un affascinante camionista ex-membro della yakuza, gia’ sposato, completamente estraneo agli ambienti da lei frequentati, la immergono in una nuova dimensione, in cui sembra trovare una via d’uscita  dal suo percorso autodistruttivo. A bordo del camion Rei  viaggera’ per una settimana attraverso un Giappone crepuscolare ed invernale, vivendo esperienze erotiche, emotive ed affettive estreme. In parte favola ed in parte racconto ultrarealista, “Vibrator” pecca forse di un eccesso di meticolosa introspezione, anzi spesso la Akasaka finisce per parlarsi addosso. E’ quindi una lettura un po’ ossessiva, a tratti irritante, quasi un lungo, ininterrotto flusso di coscienza che non da’ tregua. Ma il flusso di coscienza e’ la piu’ realistica delle tecniche letterarie, quella che non ha paraventi ideologici ed elude gli schemi precostituiti.
Uno dei grandi meriti di questo romanzo e’ quello di spiegare assai bene le modalita’ con cui una persona puo’ iniziare a sentire le voci; in sostanza Rei inizia a bere proprio perche’ non riesce a sbarazzarsi di queste voci (che hanno avuto origine in un trauma infantile). Ma questo e’ solo il lato interiore del suo problema – esistono una miriade di fattori esterni che la stanno portandio verso l’autodistruzione. In primis, il sentirsi intrappolata in un’enorme macchina sociale che, come ha ben appreso anche dalla sua professione (ad esempio la pubblicita’ mascherata negli articoli delle riviste illustrate su cui scrive), e’ tutta proiettata verso gli obiettivi dettati dalla catena del marketing/pubblicita’/consumo. Il flusso di coscienza della protagonist ci focalizza inoltre sulla questione dell’impossibilita’ della realizzazione femminile nel mondo postmoderno, spiegandoci accuratamente come la presunta emancipazione della donna sia stata trasformata in un enorme business: la donna infatti, oltre ad assolvere ai doveri professionali e consumistici, deve fare la madre, la moglie e soprattutto mantenersi sempre in forma (tanto che l’industria dei cosmetici e’ oggi una delle piu’ importanti del mondo in termini di fatturato).
In una societa’ postreligiosa e anaffettiva, dominata da legami liquidi, Rei vede nel raggiungimento dell’estasi erotica l’unica forma di spiritualita’ possibile. Ma non e’ cio’ che succede a tanti di noi oggi? Sbriciolatisi i riferimenti simbolici che facevano da bussole per orientare le nostre vite, la sofferenza fa perdere ogni contatto con l’inconscio allontanando il soggetto dai suoi desideri autentici e ancorandolo a un narcisismo esasperato, di comoda assimilazione conformista con il mondo esterno. Quando il desiderio riesce a ri-materializzarsi nell’attivita’ erotica, ci sembra di ricongiungerci con la nostra interiorita’ perduta.
Il personaggio maschile, Okabe, non ha consapevolezza di tutto cio’: egli e’ puro istinto, puro impulso, un vero torello da monta, ma simpatico e affettuoso. Per suo tramite il lettore si informa sui retroscena del trasporto su gomma in Giappone e sulla routine quotidiana (violenta ma un po’ noiosa)degli yakuza.
Il Giappone che ci mostra Mari Akasaka e’ un luogo di disperazione, ossessionato dallo status sociale, dove si vive tra sovraccarico digitale e multitasking (l’abilita’ di svolgere contemporaneamente diversi compiti), la soglia dell’attenzione sempre piu’ bassa e la lotta contro sempre nuove forme di dipendenza (ultimamente si parla molto di una delirante dipendenza dai videogames tra i piu’ giovani). E dov’e’ finito il Giappone dello scintoismo, del buddismo zen, della sfavillante ma sobria eleganza dei suoi rituali e delle sue tradizioni? C’e’ ma e’ pura sopravvivenza, al suo posto c’e’ invece quell’eterno presente che avevano anticipato gia’ nel 1984 i Pet Shop Boys, con la loro magnifica canzone “West end girls”:
“Non c’e’ passato
non c’e’ futuro
il mondo in un vicolo cieco”.
In questo vicolo cieco l’uomo contemporaneo si trova in una condizione simile a quella del maiale: avendo archiviato definitivamente i miti, i riti e qualsiasi forma di spiritualita’ autentica, ha trasformato la societa’ in religione di se’ stessa. Le societa’ piu’ tecnologicamente avanzate si basano ormai su un’economia “di servizi”; dunque non abbiamo piu’ alcuna divinita’ da servire, ma siamo diventati servi gli uni degli altri (e che servi diligenti!) – e proprio come i maiali, non riusciamo piu’ a guardare in alto, ma siamo condannati cosi’, a guardarci tra di noi, con un’espressione attonita.