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Davvero Dio non è necessario per l’etica?

di Francesco Lamendola - 24/10/2012


Sostenere che l’etica ha bisogno di un Dio che le offra un fondamento è, per i filosofi “progressisti”, la grande eresia della religione laica dei Lumi, che va estirpata ad ogni costo; una eresia contro la quale essi lottano strenuamente come in una crociata ideale, nella quale sono in gioco i destini della civiltà e, si capisce, di un’etica più nobile e alta di quella derivata dalla religione.

Eugenio Lecaldano è in prima fila nella battaglia ideale di tali pensatori “progressisti” per emancipare l’etica da secoli di sudditanza al bieco potere di preti fanatici e avidi di potere, e metterla al passo con i tempi, ossia con i grandi temi della bioetica, dall’eutanasia alla fecondazione eterologa, sì da rendere l’Italia finalmente un Paese laico e normale, allineato con il resto del mondo civile, che non crede più alle favole, né cede ai ricatti del clero.

Ma siamo proprio sicuri che Dio non sia necessario per l’etica? I disastri e gli orrori cui la modernità, sulla spinta della tecnoscienza e di una sfrenata “hybris” prometeica, hanno spinto l’umanità, non hanno insegnato neanche un briciolo di umiltà a questi attardati neopositivisti, che parlano e ragionano come se fossimo ancora nel 1880 e si potesse ancora raccontare la storiella della Ragione e della Scienza che conducono felicemente l’umanità verso i paradisi del Progresso?

Scrive Eugenio Lecaldano nel suo saggio dal titolo assai eloquente: «Un’etica senza Dio» (Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 5-13):

 

«Coloro che in buona o in mala fede cercano di imporre l’idea che, affinché gli esseri umani abbiano un’etica, è necessario che credano in un Dio, presentano una concezione fallace e inestricabilmente impregnata di errori e illusioni. In millenni di riflessione umana, una gran quantità di pensatori hanno prodotto obiezioni e argomentazioni volte a smascherare tali errori e illusioni, ma esse non sembrano servite a molto. Esse semplicemente sono state accantonate in buona o mala fede. Legare la possibilità di un’etica all’esistenza di Dio comporta in primo luogo che si sia in grado di provarne l’esistenza. L’argomento più comunemente usato per dimostrare  l’esistenza di Dio è il cosiddetto argomento del progetto. Secondo quest’argomento, l’ordine e l’armonia che ravvisiamo tanto nell’universo nel suo complesso quanto nelle sue singole parti possono essere spiegati solo come esito di un progetto di un divino architetto - di un Dio creatore, insomma. […] Hume e Kant, i più significativi filosofi del pensiero moderno, hanno criticato in modo convergente questo argomento…[…]

Chi sostiene che Dio è condizione necessaria per l’etica dovrebbe dirci a quale Dio far riferimento e perché mai dovremmo privilegiare il suo Dio rispetto a quello di altre religioni. A noi, non sembra esserci ragione alcuna al di là - come spiegava John Stuart Mill in “La libertà (1859) della mera casualità storica e biografica che ci ha fatto nascere in un certo tempo e i un certo luogo, e che spiega la rivendicata superiorità della religione alla quale siamo stati educati rispetto a quella di altri popoli (se fossimo nati al Cairo, molto probabilmente saremmo stati musulmani e non cristiani).

Ancora una volta siamo costretti a sottolineare la violazione del carattere universale dell’etica: legare l’etica all’esistenza di un Dio rivelato comporta che essa sia possibile solo per una parte limitata dell’umanità - quella che crede esattamente nel nostro stesso Dio. I restanti saranno oggetto di un obiettivo rovinosamente anti-etico: quello di essere biasimati, emarginati, perseguitati o, nel caso migliore, costantemente sollecitati ad abbandonare la loro visione del mondo. L’etica che ritiene necessario un riferimento a Dio non può dunque muoversi che in un orizzonte relativistico che fa dipendere la validità di una moralità dalla particolare rivelazione e concezione  della divinità da cui deriva. Ecco perché sulla strada della riaffermazione e del recupero della propria identità religiosa e morale - strada tanto cara a molti cosiddetti neo-conservatori nostrani e americani - non sembra aprirsi altra prospettiva che quella dello scontro e della contrapposizione con le altre identità.

La riflessione degli ultimi decenni sulle questioni di bioetica ha fatto emergere con grande evidenza un’ulteriore difficoltà sulla strada di chi si richiama alla rivelazione per trovare un fondamento all’etica. Le morali rivelate si sono mostrate impotenti a fronteggiare molte delle situazioni nuove poste dalla bioetica: spesso non hanno trovato alcuna soluzione, o tra i credenti della medesima religione hanno ricevuto risposte e soluzioni differenti – basta pensare che tra i cristiani l’eutanasia attiva volontaria viene considerata moralmente comprensibile da alcune correnti del protestantesimo (ad esempio dai valdesi) e assolutamente condannata dai cattolici. Sempre si è resa necessaria una mediazione - il papa, per rimanere ai cattolici, è dovuto intervenire continuamente per imporre la sua interpretazione della rivelazione di Cristo a proposito di questioni come quelle concernenti la fecondazione in vitro con gamete di donatori, l’ingegneria genetica e la sperimentazione su cellule staminali di embrioni soprannumerari.

Ma le cose sono ancora più rovinose per coloro che sostengono la dipendenza della morale dall’esistenza di Dio se concediamo loro - ovviamente solo per amore di discussione - che siamo in grado non solo di provare che Dio esiste, ma che tutti convergono nel credere in definitiva in un unico Creatore e Autore della Natura, al di là di superficiali diversità legate alle differenti fonti di rivelazione. […]

Ma ammettiamo che le questioni - per così dire - epistemologiche siano risolte e che vi sia effettivamente accordo s quali siano le leggi morali naturali volute da Dio. Vi sono ancora altre ragioni morali sostantive per cui non possiamo seguire coloro che connettono in questo modo l’etica con Dio. Essi, infatti, concepiscono l’etica in modo distorto, assimilandola nella sostanza all’obbedienza a comandi e subordinandola alla conoscenza di realtà già presenti davanti a noi.

Derivare l’etica da Dio significa concepirla come un insieme di comandi emanati, appunto, a un’autorità, e ciò - in un certo senso - equivale a togliere valore etico alle norme morali. Perché questo non accada, è necessario distinguere le norme morali dalle norme che ricevono il loro valore da una qualche autorità: ad esempio, che sia negativa ogni forma di violenza nei confronti di esseri umani non dipende dal fatto che qualcuno ci comandi o ci ordini di non fare violenza a un qualsiasi essere umano, ma dalla natura etica e universale di una tale norma. Questa norma è etica proprio perché il suo valore è indipendente dal comando di questa o quella autorità, di questo o quel paese o luogo geografico, e perché è distinguibile dalle norme consuetudinarie di una comunità ristretta. La tesi che solo Dio può esserne il fondamento adeguato riduce il comportamento etico di un individuo alla pura obbedienza a un comando, mentre il suo vero fondamento risiede nel CARATTERE AUTONOMO della scelta di un individuo di evitare quelle condotte che producono danni o sofferenze agli altri suoi simili Spostare l’attenzione al volere di Dio impedisce di prestare attenzione a quello che gli altri patiscono e subiscono, induce un’atrofia morale pericolosa e ostacola lo sviluppo di una effettiva sensibilità etica, spingendo ad attribuire una priorità a ciò che è stato decretato essere tale, anche se ormai corrotto e crudele. Chi arriva al’etica attraverso il comando divino finisce col ridurre la moralità a qualcosa di simile alle regole di un’etichetta che valgono convenzionalmente tra  membri di una società o tra coloro che riconoscono la stessa autorità. Rimane loro estranea la natura universalistica degli obblighi morali ch sono validi indipendentemente da ciò che qualcuno ci dice di fare.»

 

Apprendiamo così che Hume e Kant sono i più significativi filosofi del pensiero moderno: ciò non viene argomentato, viene posto alla maniera scolastica: ipse dixit. Essi hanno dimostrato che non si può provare l’esistenza di Dio con l’argomento del progetto; e, siccome tale argomento è essenziale alla dimostrazione della sua esistenza, allora Dio non esiste. Molto semplice e chiaro.

Apprendiamo anche John Stuart Mill ha “spiegato” (spiegato, si badi, come dire qualcosa di più che il banale “dimostrato”) che il caso domina il mondo, dunque se noi fossimo nati al Cairo saremmo stati musulmani (chissà perché non copti). A Lecaldano, a quanto pare, non vie in mente né che il ragionamento “per absurdum” possa essere scorretto in se stesso (se mio nonno avesse due ruote, dice un vecchio adagio, sarebbe una carriola), né che sia indimostrabile sul piano logico: se noi siamo nati in Italia e non in Egitto, vi sono milioni di ragioni che lo spiegano perfettamente; quanto a dire che avrebbe potuto benissimo essere altrimenti, questo va dimostrato e non semplicemente affermato come fosse cosa ovvia e naturale. Ai sostenitori della casualità e della perfetta indeterminatezza tocca l’onere della prova, dal momento che la non-casualità e la determinatezza non sono teorie, ma i fatti di cui è intessuta la trama dell’esistente.

Molto ci sarebbe da dire su questo bagaglio filosofico, tutto illuminista e positivista, che ignora la crisi del pensiero moderno e che continua a sbandierare Hume, Kant e Mill come i vertici del sapere mondiale: esso indica un retroterra intellettuale datato, povero, auto-referenziale e assolutamente tetragono alle critiche che da più parti si sono levate, perfino all’interno della galassia razionalista e materialista, nei confronti delle semplicistiche certezze settecentesche e ottocentesche.

Lecaldano, peraltro, non si sente obbligato ad argomentare molto in profondità, perché parte dal presupposto - e lo dice chiaramente - che quanti sostengono idee diverse dalle sue sono, almeno in parte, animati da mala fede: e per sbaragliare una simile marmaglia si può ben tirare di scherma con un braccio solo, con suprema nonchalance. Non vale la pena di sprecare dei ragionamenti troppo raffinati per “smascherare “ (usa proprio questo verbo) le idee di una umanità che vegeta immersa in una «concezione fallace e inestricabilmente impregnata di errori e illusioni»; anzi essa dovrebbe ringraziarlo, novello Eracle, per l’opera meritoria di demolizione di siffatti errori e illusioni.

Apprendiamo inoltre che i veri relativisti non sono i sostenitori di un’etica puramente laica, ma i religiosi, poiché diversi sono i codici morali delle differenti divinità (come se questo problema non esistesse, moltiplicato per mille, per i laici); e che “le morali rivelate” sono impotenti a rispondere ai quesiti posti con forza dalla bioetica. Qui si vede come Lecaldano non sia nemmeno sfiorato dal pensiero che, per un credente, la morale non è “rivelata” dall’esterno, ma una legge interna all’uomo stesso, perché egli non vede Dio come un “Deus ex machina”, ma come la voce che risuona nel silenzio della propria coscienza; mentre, nello stesso tempo, traspare l’idea che la bioetica non sia un tentativo di rispondere a questioni gravi ed urgenti poste da uno sviluppo incontrollato della tecnoscienza, ma un cavallo di Troia che si serve di tali questioni per rovesciare la “morale rivelata” e sostituirla con una puramente umana, nella prospettiva nichilista auspicata da Nietzsche.

Il linguaggio adoperato da Lecaldano lascia trasparire di continuo i suoi pregiudizi scientisti e positivisti, come quando parla di «conseguenze ancora più rovinose» per quanti derivano la morale dall’esistenza di Dio o come quando, sbrigativamente, afferma che essi «concepiscono l’etica in modo distorto», dando per dimostrato ciò che non si è preso neanche la briga di discutere; e ciò dopo una introduzione in cui veste i panni dell’agnello e sostiene di voler solo rivendicare il rispetto per le proprie opinioni. In compenso Lecaldano afferma che far derivare l’etica da Dio genera una vera e propria «atrofia morale» e ostacola lo sviluppo di una reale sensibilità etica; e ribadisce che solo una morale laica può essere davvero naturale e universale, perché tutte le morali religiose sono contingenti e limitate, senza contare che riducono l’uomo a una specie di burattino.

Si vede che non ha mai letto San Tommaso, dove questi dice che, davanti a un conflitto fra la coscienza e l’autorità, quale che essa sia, l’uomo morale deve seguire sempre, in ultima analisi, la propria coscienza e nessun altro; inoltre dovrebbe spiegarci come possa una morale puramente laica superare l’orizzonte storico dalle diverse culture umane, a meno di voler fondare un Nuovo Ordine Mondiale ove queste ultime scompaiano, così come tutte le lingue avrebbero dovuto scomparire per cedere il posto, secondo certi signori di un tempo piuttosto recente, all’esperanto, o così come tutti i sistemi economici e politici dovrebbero inchinarsi alla democrazia totalitaria. Strano, perché Lecaldano aveva appunto paventato il progetto autoritario dei neoconservatori, per usare la sua espressione, «nostrani e americani» (ovvio, del resto, se no che progressista sarebbe): possibile che non veda come i suoi presupposti teorici vadano giusto in quella poco desiderabile direzione?

Quanto, poi, all’asserzione che l’etica “naturale” reca inscritto, kantianamente, l’imperativo di non fare violenza ad alcun essere umano (e pazienza per gli altri esseri viventi), che dire dei milioni di aborti legalizzati dall’etica laica? Ah, già, logico: per costoro, il nascituro non è un essere umano…