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Un’altra tangentopoli…e poi?

di Marina Simeone - 27/01/2013


 

Sembra la fine definitiva della politica italiana. Sulla scia di Tangentopoli la magistratura indaga sugli affari tra politica e criminalità e scopre illeciti, corruzioni, concussioni.

E così quello che sembrava essere solamente un modus operandi della vecchia balena bianca si è mostrato come “il sistema”, accettato silentemente dagli incoscienti rappresentanti della società civile.

La democrazia liberale, affermatasi categoricamente con la fine della seconda guerra mondiale, sembra aver fatto il suo corso, naufragata nel cercare di cavalcare l’alta marea di una società di massa, divenuta incontrollabile, se non dietro ricatto, tipico di qualsivoglia società capitalistica: la fame, il lavoro, la ricchezza. Ricatto operato da una ristretta classe di oligarchia politico-mediatica-finanziaria, cui il meccanismo democratico moderno spinge il popolo ad affidarsi, presentandola nell’opinione pubblica come democrazia sociale e quindi assistenziale; non però nella volontà.

Per questo nessuna meraviglia che anche a Benevento, tranquilla cittadina campana di cui sono natia, sia giunta la mannaia della magistratura a far crollare la giunta comunale, assegnando i domiciliari con impossibilità di dimora a Benevento per il sindaco Fausto Pepe, con il quale rimangono indagati  altri 27 amministratori comunali. La Procura sannita parla di sistema illegale, “comitato trasversale d’affari” e volontà di depredare risorse pubbliche, atteggiamento comune a chi ha amministrato la cittadina fino ad oggi, preoccupandosi soltanto di sistemare il sottobosco del partito e accrescendo emigrazione, disoccupazione, criminalità, abbandono.

Eppure per le strade cittadine paralizzate dalla morsa dell’umidità invernale e’ stato subito giubilo e tra i banchi dell’opposizione si è riaccesa la speranza di rivalsa e vittoria.

Ma chi continua a perdere è il Sannio. E’ L’Italia.

Soltanto l’ultimo episodio di cronaca politico-giudiziaria dopo i numerosi arresti e avvisi di garanzia registrati negli ultimi anni tra le fila della politica italiana.

La sinistra prima con il centro e poi la destra hanno espresso la loro retorica avversione al luccichio carrieristico e opportunismo politico per poi mostrare un reale attaccamento alla ricchezza, anche quella illecita, alle lusinghe del clientelismo, che crea favori e affari e non lascia mai soli, avversando sfacciatamente una reale e concreta alternativa.

Nel lontano ’93, il simbolo di un nuovo partito si intravide con le luci dell’alba, si chiamava MSI e rivendicava la sua purezza ideale e non solo, il suo progetto culturale e politico di contro al nulla; forte di una tradizione, di un apparato ideologico oramai apparentemente consolidato, arrivò a legittimare la sua presenza, passando per l’unica via concessa dal parlamentarismo: le elezioni.

Ma il potere logora chi non ce l’ha e chi ce l’ha e l’aver anche solo assaporato la sedia calda e ristoratrice della legittimazione ha finito con il far obliare il fine e il far intravedere l’opportunità.

Il resto lo hanno fatto i proclami Fiuggiani, gli appalti truccati, le marchette, le case a Montecarlo, le segretarie fedeli, le vallette di Arcore, i doppi Fini, la colpevole svendita della propria sovranità ai colonizzatori d’oltreoceano e poi europeisti, e l’accettazione di una egemonia impressionante al punto che neppure una crisi economica tanto profonda riesce a scrollare.

La destra ha fallito, questa politica nata dal dopo guerra mondiale ha fallito, con la sua religione dei diritti dell’uomo, dei buoni sentimenti, della non violenza, almeno su carta, del potere al popolo, ma degli interessi personali, del contrabbando dell’etica in politica, come forza avvelenatrice del soggettivo e quindi di qualsivoglia opposizione al “ben pensare”. Così l’Occidente, non quello Tolkeniano, ha ammansito i ruggiti identitari, in nome di un monoculturalismo pomposamente propagandato dai media, dalla moda, dalla politica, dalla istituzione scolastica, dalla famiglia, dall’associazionismo lavorativo. Un monoculturalismo a garanzia della realizzazione e conservazione di una società popperiana aperta e globale, in cui circolano vorticosamente uomini e cose.

E nonostante l’indiscutibile impegno dei diffusori di ciarpame ideologico, con il capo perennemente chino dinanzi ai principi del’’89, le azioni politiche continuano a svelare a destra come a sinistra e al centro il decadimento spirituale dell’uomo moderno, individualista cronico, impossibilitato, per mancanza di volontà e non di potenzialità, a coltivare valori come onestà e lealtà e amicizia e dignità e coraggio, non quotati in borsa e per questo fuori mercato.

Ecco perché perderemo l’ennesima occasione della storia. Ecco perché Tangentopoli non modificò allora il sistema come non lo faranno ora le inchieste giudiziarie. Si sostituiranno uomini intercambiabili nel medesimo ingranaggio, difensori del “vivi e lascia vivere”, della cultura accomodante, accattivante, consociativa, trasversale, che alla fine tutto livella e tutto controlla, tutto appiattisce e tutto atrofizza.

E gli indignati affolleranno le piazze senza divenire “il nuovo”, perché il nuovo per affermarsi concretamente necessita di progettualità e capacità, di impegno e costanza, non soltanto di cortei, adesioni “internettiane” e rifugio nel giovanilismo.

E Grillo con il suo indiscutibile savoir faire griderà dal palco i suoi “vaffa” e i suoi “mandiamoli tutti a casa”, ilare tragicommedia del nostro tempo, nella frenetica ricerca di rendere questa democrazia meno apatica, stuzzicando il ventre molle con promesse  di facili soddisfacimenti ed ergendosi a fautore di un nuovo ed immediato qualunquismo italiota, nel momento in cui in Europa e in Italia si tende a vedere nel populismo la via di liberazione dei popoli impoveriti ed ingrigiti dalle dominanti burocrazie turbo capitalistiche e bancocentriche.

Le frange estreme invece di sinistra e destra (ammesso che tali connotazioni assiali abbiano ancora senso) rimangono con la testa tra le nuvole fino a quando qualche movimentino non decide di mettere i piedi nel fango di Orweliana memoria e di voltare le spalle all’antiparlamentarismo.

La sinistra continua a vivere di antifascismo come valore irrinunciabile, accantonata da tempo la lotta di classe in favore di un riformismo ultra borghese e di un cosmopolitismo sui generis funzionali all’alta finanza.

L’anarchismo ha finito con il rappresentare la protesta parassitaria e astratta dell’individuo, abdicando negli anni finanche al fine di “programmare politicamente la libertà”, caratteristica riconosciuta al movimento anarchico, polemicamente, da Gramsci.

La destra radicale cammina come nella bolgia dantesca con gli occhi rivolti all’indietro a piccoli passi e cerca di liberarsi dal guscio protettivo del fascismo, per poi rientrarvi impaurita quando ha l’ardire di vedere fuori e di scoprire l’arsura del deserto. Non parla se non in preda a sbornia retorica, esibendo simboli guerrieri, ardimento e carattere nelle rievocazioni storiche di piazza oppure negli scontri “a fuoco” con gli avversari di sempre, rendendo il vero nemico forte anche della sua strumentalizzazione. Talvolta si chiude in un vuoto e inconsistente elitismo, anacronistico oltre che infondato, ricorrendo alla immagine di un anarca moderno, confuso tra l’attesa, dello stare appollaiato tanto in alto da non farsi toccare dal fango, perché consapevole di non appartenere più a nulla, e l’immobilismo di chi sa di essere incapace a muoversi in alcuna direzione.

Oltre il tempo, oltre la linea, oltre il ponte…l’oltrepassamento di nietzschiana memoria non sarà possibile se non saremo in grado di far convivere esperienze, sensibilità, spiritualità diverse tese ad un unico fine condiviso. Qui non si tratta più di difendere il nuovo contro il vecchio, qui si tratta del diverso, del reale, del progetto, delle idee, della volontà, della identità, delle aspirazioni, di tutto quello che portiamo dentro senza poterlo mai esprimere.

Alla fine del 1800 in Francia le frange estreme dei partiti radicali di sinistra e i nazionalisti riconobbero nel comune avversario, la democrazia liberale e il parlamentarismo, la soluzione ad un avvicinamento, al superamento di steccati altrimenti insuperabili e poi la guerra appianò tali propositi per riproporli successivamente. Si cercavano delle risposte e le si cercavano nella storia, nella politica, riconoscendo la supremazia del politico sull’economia. Fu possibile così una terza via.

Si partì allora, lo si deve fare oggi, dalle idee. Perché, nonostante il comprensibile pessimismo di alcuni, la politica anche in questo momento tanto oscuro deve essere fatta con le idee e poi con la capacità di riversare queste ultime in una realistica progettualità, onde evitare lo scadere nell’utopia e “nell’esposizione al museo delle bazzecole dei propri propositi”.

La partita va giocata sui grandi temi e sulla risposta a questi. A quel punto si possono individuare amici e nemici, alleati e avversari, a quel punto si potrà mettere seriamente in gioco l’attuale “sistema” Italia. Altrimenti rimarranno i proclami o la testimonianza e quando questa non basterà per saziare la nostra fame di gloria e coraggio potremmo sempre rifugiarsi nel mito.