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L’Influenza di Israele e della sua lobby in America sulla politica americana in Medio Oriente

di Jeffrey Blankfort - 24/07/2006

 

Discorso tenuto alla conferenza della Commissione Islamica per i Diritti Umani, presso la Scuola di Studi Orientali e Africani, Londra, 2 Luglio 2006

Il sistema politico americano: la democrazia in vendita
L’evidente abilità d’Israele, uno dei paesi più piccoli del mondo, nel dare forma alle politiche sul Medio Oriente dell’ultima superpotenza rimasta, è stata sorgente di confusione, congetture, e frustrazione costante per coloro che combattono per la giustizia per i palestinesi e per i popoli della regione, in generale.

Una delle radici di questo unico fenomeno storico può essere riscontrata nell’interpretazione di una decisione di 120 anni fa della Corte Suprema degli Stati Uniti che garantì alle Società per Azioni e alle Corporazioni gli stessi diritti garantiti ad ogni singolo cittadino americano.

Uno di questi diritti è la libertà di espressione garantita dal 1° emendamento della Costituzione degli USA. Grazie allo straordinario grado di corruzione che era palese nella società americana alla fine del 19° secolo, i contributi finanziari ai candidati politici finirono per essere considerati dalla corte come espressione di libertà politica e quindi ricevettero la protezione della corte stessa.

Ciò ha portato il sistema politico americano a diventare un sistema in cui trionfano le campagne politiche interminabili e ancora più costose, e quindi, senza dubbio, il sistema più corrotto tra quelli dei cosiddetti “paesi avanzati”. La decisione della Corte Suprema, ribadita negli anni, ha aperto le porte a ben finanziati “interessi speciali” ed alle lobby ad essi legati, ed ha permesso a queste lobby, che si servono di ciò che è di fatto una forma di corruzione legale, di dare forma alla politica estera ed interna degli Stati Uniti.

Già nel 1907, lo scrittore americano Mark Twain scriveva che c’era un solo ceto nativo che fosse criminale in America – cioè il Congresso e un decennio dopo, l’umorista Will Rogers si prendeva gioco dell’America, affermando che “l’America ha il migliore Congresso che il danaro può comprare.”

All’inizio furono le compagnie ferroviarie e le acciaierie che pagarono il dovuto prezzo, poi vennero le compagnie del legname, del petrolio e quelle edilizie, quindi si presentarono i fabbricanti di armi ed automobili, le industrie aeronautiche e quelle delle comunicazioni, e infine quelli che vengono eufemisticamente detti ‘fornitori di salute’ - cioè i dottori, gli ospedali e i produttori farmaceutici, che hanno fatto in modo che gli americani siano gli unici cittadini di un paese sviluppato a non avere alcun servizio sanitario nazionale.

Nel campo della politica estera, nessuna lobby si è dimostrata tanto potente quanto l’organizzata comunità ebraica americana, che agisce in appoggio ad Israele. Essa di solito viene chiamata la lobby israeliana e nei corridoi del Congresso, semplicemente, “the lobby.”
La sua forza è ancora più impressionante se si pensa che la lobby rappresenta non più di un terzo dei sei milioni di ebrei d’America.

L’obiettivo a senso unico della Lobby
Il fanatismo e la fissazione in un’unica direzione di questo terzo degli ebrei, comunque, è in netto contrasto con la mancanza da parte della schiacciante maggioranza degli americani di coinvolgimento in un sistema politico nei confronti del quale hanno perduto fiducia e rispetto molto tempo fa. Ciò ha reso il compito della lobby molto più semplice di quanto potesse sembrare di primo acchito. Questo spiega anche perché il sostegno incondizionato a Israele rimarrà probabilmente l’unico argomento sul quale Democratici e Repubblicani mettono da parte la loro ostilità e marciano a passo unito come animali da circo ammaestrati. Non solo i provvedimenti a favore di Israele ricevono di solito 400 voti sui 435 membri della Camera e 99 su 100 al Senato, ma quando si parla di aiuti esteri, il Congresso ha spesso votato per garantire ad Israele più denaro di quello richiesto dal presidente o per far passare comunque leggi favorevoli alla lobby nel caso il presidente fosse ad esse contrario.

Dal 1985 l’ammontare dell’aiuto diretto è oscillato tra i 3 ed i 3.5 miliardi di dollari, mentre gli extra non dichiarati nel budget del Pentagono contribuiscono a portare quella cifra considerevolmente più in alto. Si stima che il totale oggi sia di almeno 108 miliardi di dollari. Questa cifra non include i costi, pari a 19 miliardi di dollari, per le garanzie sui prestiti ad Israele dal 1991; non include neanche i miliardi di dollari dei contribuenti investiti nei bond governativi israeliani presi dai fondi pensioni, dai governi dei singoli stati, contee e città, e nemmeno i miliardi di donazioni esentasse fatte dagli ebrei americani alle agenzie paragovernative israeliane ed alle associazioni di beneficenza sin dalla fondazione dello Stato di Israele.

In tutto questo non si è mai preso in considerazione lo stato dell’economia americana. Quando non si sono trovati i fondi per i programmi domestici essenziali, come nel 199l, quando sei città americane su 10 non riuscivano a far quadrare il proprio bilancio e parecchi Stati la loro bilancia dei pagamenti, Israele continuava a ricevere, per soddisfare i desideri del primo presidente Bush, 650 milioni di dollari supplementari in contanti come rimborso parziale delle spese d’emergenza per la Guerra del Golfo. Nel settembre del 1992, dopo aver testardamente resistito per un anno alla richiesta di Israele di 10 miliardi di dollari in garanzie sui prestiti, ma con delle difficili elezioni contro Bill Clinton da lì a due mesi, Bush soddisfece la richiesta del Congresso che chiedeva una decisione favorevole a Israele. Decisione troppo tardiva per aiutarlo alle urne.

Questo è non soltanto un tributo pagato per i milioni di dollari distribuiti da parte di ricchi ebrei americani candidati politici della nazione, ma è anche la testimonianza della paura che l’AIPAC, il Comitato degli Affari Pubblici Americano-Israeliano, la lobby israeliana ufficiale, ha infuso nei membri del congresso che non hanno alcun interesse personale a sostenere Israele, né un importante collegio elettorale ebraico da conquistare.

“Se il voto fosse segreto, gli aiuti ad Israele sarebbero ridotti seriamente,” così si è espresso un parlamentare, considerato come pro-Israele, in un’intervista rilasciata a Morton Kondracke del New Republic (settimanale ultraconservatore sionista, ndt) nel 1989. “Non è assolutamente più per puro amore di Israele che esso riceve 3 miliardi all’anno. È per la paura di svegliarsi una mattina e scoprire il candidato alle elezioni che si oppone a te ha ricevuto una donazione di 500.000 dollari per sconfiggerti”.

AIPAC e oltre
La lobby, tuttavia, è più dello stesso AIPAC, che, da solo, non sarebbe in grado di esercitare un simile potere. Ci sono, in realtà, più di 60 organizzazioni, dalle più piccole alle più grandi, impegnate con un solo obiettivo, promuovere gli interessi di Israele in America e contemporaneamente, emarginare, intimidire e mettere a tacere i suoi critici. Esse prendono di mira anche quegli ebrei che si oppongono sia all’esistenza di Israele in quanto Stato ebraico, come me stesso ed altri che si sentono oltraggiati dalla continua occupazione e furto della terra palestinese da parte di Israele, sia si oppongono ai micidiali metodi con cui questa occupazione e questo furto vengono portati avanti, limitati solo in piccola parte dalle restrizioni della comunità internazionale.
Circa 52 appartengono alla Conferenza dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebraiche Americane, che è considerata la voce della comunità ebraica americana.

Oltre all’AIPAC, le due più grandi e più influenti organizzazioni sono l’ Anti-Defamation League, o ADL (Lega Anti-Diffamazione, ndt), e l’American Jewish Committee, o AJC (Comitato degli Ebrei Americani, ndt). I rappresentanti delle maggiori organizzazioni si incontrano ogni mese per pianificare la strategia per quel mese. Niente può essere lasciato al caso.

L’ADL nacque nel 1914 come propaggine della più vecchia organizzazione sionista della nazione, B’nai B’rith. La sua missione era difendere gli ebrei da attacchi fisici e verbali anti-ebraici. Lo fa ancora, ma il razzismo anti-ebraico ha smesso di essere un problema serio negli Stati Uniti da anni, per cui il compito principale dell’ADL oggi è raccogliere informazioni su coloro che criticano Israele, che essa definisce i «nuovi anti-semiti» per poi infangarli nei Media.

Quattordici anni fa, si sono spinti troppo oltre con la raccolta di informazioni. Un blitz della polizia di San Francisco negli uffici dell’ADL rivelò che l’organizzazione stava conducendo una grande operazione di spionaggio privato in tutti gli Stati Uniti. Nella sola area di San Francisco, i loro agenti avevano raccolto informazioni su più di 600 organizzazioni e 12.000 persone, fra cui il sottoscritto. Non solo gruppi di arabi-americani, palestinesi e musulmani, ma anche neri, latini, asiatici, irlandesi e perfino sindacati.

C’erano dei dossier speciali dedicati ai militanti del movimento anti-apartheid, la qual cosa non era affatto sorprendente dato i legami di Israele con il regime di apartheid del Sud Africa. Quello che è grave però e che le spie dell’ADL passavano le informazioni ai servizi segreti sudafricani insieme ad altre informazioni riguardanti gli esiliati neri sudafricani che vivevano in California.
Le pressioni degli influenti sionisti locali convinsero le autorità cittadine a non portare davanti alla legge l’ADL e l’organizzazione dovette promettere di cessare le sue attività di spionaggio. Non c’è ragione di credere che l’abbia fatto. Oggi, l’ADL lavora a stretto contatto con i dipartimenti di polizia in tutto il paese, istruendoli sui cosiddetti “hate crimes” (crimini d’odio, cioè crimini a sfondo razziale, ndt) ed organizza di routine viaggi gratis in Israele per gruppi di ufficiali della polizia americana per insegnare loro come rispondere ad “attacchi terroristici”. Ciò non preannuncia nulla di buono per ciò che rimane delle libertà civili americane.

Il Comitato degli Ebrei Americani (AJC) fu fondato da ebrei tedeschi nel 1906 ed era stato fermamente anti-sionista fino agli eventi della Seconda Guerra Mondiale; fu l’olocausto ebraico che lo portò a cambiare la propria posizione. Oggi, è l’ufficio esteri non ufficiale della lobby, e fino a poco tempo fa si accontentava di lavorare dietro le quinte facendo pressione sui governi stranieri per conto d’Israele. Ha cominciato a mostrare pubblicamente i muscoli due anni fa quando ha aperto un ufficio a Bruxelles per iniziative di lobby nei confronti dell’Unione Europea.

L’AJC tiene ora riunioni mensili con un alto dirigente del governo dell’UE, quando non si tratta proprio del presidente della Commissione e di questo se ne possono già vedere gli effetti. Durante l’anno scorso l’UE ha fatto marcia indietro sul relativo sostegno ai palestinesi ed ha adottato vari provvedimenti che, l’uno dopo l’altro, seguono le richieste israeliane.

Un bel numero di altre organizzazioni che fanno parte della lobby non partecipano alla Conferenza dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebraiche Americane. Ci riferiamo ai 117 Consigli per le relazioni tra le comunità ebraiche, le 155 federazioni ebraiche, e numerosi potenti ed “indipendenti” think tanks (centri di studi strategici e geopolitici, ndt) siti in Washington come il Washington Institute for Near East Policy (Istituto per le Politiche sul Vicino Oriente di Washington, ndt), creazione dell’AIPAC; l’American Enterprise Institute (l’Istituto di Iniziativa Americano ndt), e la Foundation for the Defense of Democracy (Fondazione per la Difesa della Democrazia, ndt), fondata dopo l’attacco al World Trade Center.

Se aggiungiamo a quanto ho enumerato finora anche gli enti religiosi ebraici che anch’essi fanno iniziative di lobby a favore di Israele, appare ovvio che non esiste altro gruppo etnico o religioso che può paragonarsi, per potenza e organizzazione alla lobby pro-israeliana, con l’eccezione forse dei Cristiani Sionisti, ma l’ambito del suo intervento è relativamente limitato. Questo è infatti una delle cose che distingue la lobby pro-israeliana dalle altre potenti lobby che difendono interessi particolari, a parte il fatto, naturalmente, che difende gli interessi di un paese straniero. Tutte le differenze sono importanti se si vogliono capire le ragioni del suo successo.

La prima di queste ragioni, naturalmente, è il denaro. É impossibile sapere esattamente quanto denaro gli ebrei investano nei politici americani, ma è sicuramente molto di più di quello che investono gli altri gruppi.

La difficoltà sta nel fatto che i gruppi che studiano i finanziamenti alla politica dividono i contributi in relazione al settore finanziario a cui appartengono i donatori. Questo tipo di classificazione, nel caso di Israele, tende a mascherare gli obiettivi che il donatore vuole raggiungere. Per esempio, l’industria della comunicazione negli Stati Uniti è dominata dagli ebrei, la maggior parte dei quali sono noti sostenitori di Israele. Quando, tuttavia, i rappresentanti dell’industria della comunicazione versano denaro ai Partiti Democratico o Repubblicano, il finanziamento non è attribuito alla lobby israeliana ma, appunto, all’industria della comunicazione. Questo vale anche per il settore bancario e per le società finanziarie di Wall Street, le quali sono pure in gran parte ebraiche, o anche ad altri settori del mondo degli affari.

Haim Sabam esemplifica questo problema. Saban, un miliardario israelo-americano nato in Egitto e, per giunta, anche proprietario di vari Media, nel 2002 versò 12,3 milioni di dollari al Partito Democratico, 7,5 milioni furono versati in una sola rata. La somma donata da Saban superava di 2 milioni di dollari il contributo che la Exxon aveva dato al Partito Repubblicano in un periodo di 10 anni ma la notizia fu riportata con un trafiletto di pochi centimetri quadrati nel New York Times. Saban, un buon amico dell’ex-Primo Ministro israeliano Ehud Barak, ha versato sostanziosi contributi anche all’AIPAC.

Saban ha anche fondato il Saban Center on the Middle East presso il Brookings Institute, trasformando quel centro di ricerca, un tempo indipendente, in un’altra articolazione della lobby. Il finanziamento di 12,3 milioni di dollari, tuttavia, non è stato considerato come parte dei versamenti della lobby israeliana.

Ciò che viene considerato denaro strettamente pro-israeliano è in gran parte limitato a quei fondi che provengono da circa tre dozzine di PACs (Political Action Committees) e dai loro membri. I PACs sono gruppi autorizzati a raccogliere donazioni e versarle a quei politici che sostengono interessi particolari, dell’industria, dei sindacati, ecc., oppure ad organizzazioni no-profit che hanno fondato il PAC. Ciò che distingue i PACs pro-israeliani dagli altri è il fatto che essi nascondono la loro identità per evitare che i Media e il pubblico ci metta il naso. Riescono a camuffarsi non menzionando Israele nella loro denominazione. Infatti i loro PACs si denominano, per esempio, Northern Californians for Good Government oppure St. Louisians for Good Government, o ancora The Desert Caucus, o Hudson Valley PAC, o NATPAC, ecc. Per questa ragione sono stati definititi ‘PACs segreti’ da parte di un ex dirigente del Dipartimento di Stato.

Inoltre, diversamente da altri PACs, quelli pro-israeliani sono gli unici a finanziare candidati di altri Stati. Per esempio, il Desert Caucus potrà inviare denaro ai candidati parlamentari, sia uno che sta per essere eletto al Senato o alla Camera dei Rappresentanti, nello Stato dell’Illinois o del New Jersey, esclusivamente alle loro posizioni filo-israeliane. Questo ha portato i critici della Lobby a definirli ‘Quelli di Israele al primo posto’ [Israel Firsters] . Per dire che essi si preoccupano più del benessere di Israele rispetto a quello dei loro concittadini americani.

Il modo in cui io sono riuscito a calcolare i finanziamenti politici pro-israeliani è stato quello di andare sul sito web della rivista Mother Jones, un mensile pro-israeliano di sinistra. Nel 1996 e nel 2000, la rivista ha compilato una lista dei 400 maggiori donatori individuali ad entrambi i partiti politici. Ciò che ho scoperto è che nel 2000, 7 dei 10 maggiori donatori, 12 dei 20 maggiori donatori, e perlomeno 125 su 250 maggiori donatori erano ebrei, e che la maggior parte delle donazioni sono andate al Partito Democratico. In altri termini, perlomeno il 50%, ma sicuramente di più, delle donazioni erano di provenienza ebraica. E’ una cifra veramente sorprendente, se si tiene conto che gli ebrei costituiscono solo il 2,3% della popolazione americana.

La cifra del 50% corrisponde alle stime che vengono da Partito Democratico e dalle organizzazioni ebraiche sebbene alcuni pensano che la realtà si avvicina al 70%.
Il volume di questi contributi, aggiunto a quelli che provengono dai sindacati, i quali sono decisamente pro-isrealiani, almeno a livello della direzione e che hanno investito non meno di 5 miliardi di bond governativi in Israele, hanno trasformato il Partito Democratico in ciò che il professore di Diritto Francis Boyle ha recentemente definito “La prima linea dell’ AIPAC”.

Mentre, da una parte, è presente in modo massiccio nel Campidoglio di Washington, fino al punto da essere chiamata nel Congresso, semplicemente “ La Lobby “, dall’altra l’AIPAC prende la sua forza dai suoi quadri di base e da quelli delle altre organizzazioni ebraiche con le quali è collegato in una rete che copre ogni Stato e ogni città importante degli Stati Uniti. Le sue operazioni vengono condotte da un personale di 165 impiegati, con un corposo bilancio annuale di 47 milioni di dollari, e uffici in tutto il paese. Il suo vantaggio speciale è che esso è considerato una Lobby nazionale e quindi non è tenuta a registrarsi come Lobby straniera secondo la legge denominata Foreign Agents Registration Act.

Questo permette ai Lobbisti di accedere a luoghi dai quali sarebbero tenuti lontani dalla legge; per esempio possono prendere parte alle audizioni dei Comitati del Congresso, possono scrivere o esaminare tutti i provvedimenti legislativi che riguardano Israele o il Medio Oriente, possono piazzare loro spie come volontari negli uffici dei membri del Congresso dove raccolgono informazioni per l’AIPAC.
In realtà sono pochi i membri dell’AIPAC che fanno direttamente azioni di Lobby. La maggior parte fornisce materiale di ricerca, argomenti di discussione, scrive discorsi per i membri del Congresso o contribuisce a preparare il Rapporto sul Medio Oriente dell’AIPAC, un documento bisettimanale di quattro pagine che viene distribuito a tutti i parlamentari del Congresso. A livello locale, oltre a versare finanziamenti, i membri dell’AIPAC forniscono gratuitamente la loro competenza a tutti i candidati alle elezioni, così chiunque vinca, assicura un nuovo sostenitore a Israele.

La strategia dell’AIPAC
La conferenza annuale dell’AIPAC si svolge a Washington ogni primavera e costituisce un avvenimento importante della stagione politica. Nel 2005, vi parteciparono 4000 suoi aderenti e 1000 ospiti borsisti. Il discorso introduttivo viene di solito tenuto dal Presidente degli Stati Uniti, dal Vice-presidente o dal segretario di Stato. Quest’anno è toccato al Vice-presidente Dick Cheney, salutato da molti scrosci di applausi e una standing ovation. Come tributo al potere della lobby, partecipano alla conferenza circa la metà dei membri del Congresso, compresi i capigruppo Democratico e Repubblicano di entrambe le Camere. Ovviamente i loro discorsi riflettono la loro personale fedeltà e l’appoggio incondizionato dell’America a Israele. I nomi dei membri del Congresso che percorrono la passerella vengono pubblicizzati sul sito web dell’Aipac, il che fa crescere le loro possibilità di ottenere contributi da parte dei principali donatori ebraici.

Altrettanto importanti ma raramente pubblicizzate sono le cene e i pranzi regionali organizzati dall’AIPAC nell’intero paese, avvenimenti a cui vengono invitati a prendere parte i dirigenti politici locali – sindaci, sovrintendenti, consiglieri comunali, ufficiali della polizia, avvocati distrettuali, direttori scolastici, ecc. L’oratore principale in queste occasioni è di solito un Senatore o il governatore di un altro Stato. É interessante notare che in queste occasioni i Media non sono mai invitati né informati su chi sia l’oratore, da quale Stato provenga, su dove ha luogo la cena o il pranzo.
Alla fine di questi avvenimenti, i personaggi invitati ricevono come premio dei viaggi completamente spesati in Israele, offerti dai Consigli della comunità ebraica locale, dalle Federazioni o da altre Organizzazioni ebraiche. In Israele, vengono ricevuti dal Primo Ministro, dal Ministro della Difesa e dal Capo Maggiore dell’esercito, vengono portati in visita in Israele e nelle colonie in Cisgiordania, e infine vengono condotti al museo dell’olocausto dello Yad Vashem. Si dà il caso che i futuri membri del Congresso vengano proprio da questa classe di “servitori pubblici” e così le relazioni pubbliche stabilite, con questi viaggi, tra loro e influenti e attivi personaggi della comunità ebraica, daranno un beneficio a entrambe le parti.

I politici, dai candidati al Congresso ai candidati presidenziali, si recano spesso in Israele per conquistarsi i voti ebraici in patria.
George W. Bush fece il suo unico viaggio in Israele prima di prendere la decisione di partecipare alle elezioni per presidente, una scelta che fu da tutti considerata come uno sforzo per guadagnarsi il sostegno dei votanti pro-israeliani. Il governatore della California Arnold Swartznegger e il sindaco di New York Michael Bloomberg, un ebreo non praticante, hanno fatto esattamente la stessa cosa.

Una volta eletti al congresso, ai deputati sono assicurati altri nuovi viaggi spesati in Israele, organizzati dall’American Israel Education Fund, una fondazione creata da AIPAC a questo scopo. Solo nel 2005, più di 100 membri del Congresso (sui 600 totali, ndt) hanno visitato Israele, alcuni più di una volta.

É doveroso notare che pochi politici pensano di dover fare simili viaggi in Messico, prima o anche dopo le elezioni, malgrado il fatto che il Messico è un paese molto più importante per l’economia americana di Israele ed è il paese d’origine di molti più americani degli ebrei. Ma, sappiamo, non c’è una lobby messicana con una simile influenza politica e finanziaria.
L’AIPAC non contribuisce direttamente alle campagne per le elezioni parlamentari o presidenziali, ma consiglia ai suoi membri e alla comunità pro-israeliana tutta chi va sovvenzionato con i migliori risultati, sia attraverso contributi personali, sia attraverso finanziamenti di uno dei PAC.

Un segno distintivo importante del potere dell’AIPAC è la sua abilità di raccogliere le firme di almeno 70 senatori (su i 100 totali, ndt) in fondo a qualsiasi lettera che desidera mandare al Presidente quando pensa che egli non sta operando nel migliore interesse di Israele. uno dei casi più degno di nota fu la lettera che 76 senatori inviarono al Presidente Gerald Ford il 21 maggio 1975 dopo che egli aveva sospeso gli aiuti a Israele ed era sul punto di fare un importante discorso alla nazione in cui auspicava una correzione dei rapporti tra Stati Uniti e Israele e chiedere a quest’ultimo di tornare ai confini del 1967. La lettera metteva in guardia Ford a non modificare minimamente la stretta relazione tra gli Stati Uniti e Israele. Ford non fece mai quel discorso e nessun altro presidente ha osato fare nuovamente una minaccia di quel genere.

La comunità ebraica a favore del sionismo
Mitchell Bard, ex direttore del Near East Report di proprietà dell’AIPAC, dichiara che la fonte del potere della lobby è fondato sul fatto che “gli ebrei si sono impegnati nella politica con un fervore quasi religioso”. Sebbene la popolazione ebraica negli Stati Uniti è all’incirca di sei milioni, o in termini percentuali un poco superiore al 2% della popolazione americana totale, circa il 90% degli ebrei vive i dodici Stati che rappresentano collegi elettorali chiave.

“Solo questi Stati” scrive Bard, “valgono abbastanza voti per eleggere il presidente. Se ai voti ebraici si aggiungono i voti dei non-ebrei che sono favorevoli ad Israele quanto gli ebrei, è chiaro che Israele ha il sostegno di uno dei gruppi più consistenti che nel paese possono impedire politiche anti-israeliane”.
Bard sottolinea una cosa che è stata ovvia per anni agli osservatori politici. L’attivismo politico ebraico obbliga i membri del Congresso a tenere in conto cosa possa significare per il loro futuro politico un atteggiamento incerto nel momento di votare provvedimenti relativi a Israele. Non ci sono benefici per coloro che criticano apertamente Israele, mentre ci sono “considerevoli costi, sia in perdita di denaro, sia di voti ebraici ma anche non ebraici”. Per un membro del Congresso, basta anche chiedere soltanto che gli Stati Uniti agiscano con equidistanza verso israeliani e palestinesi per essere preso di mira e affondato.

Conseguentemente, i politici ad ogni livello nel governo tendono ad essere più attenti alle preoccupazioni dei votanti ebraici piuttosto che alle più ampie fasce di votanti dei loro collegi elettorali, i quali sono più interessati ai reality della TV, alle telenovelas, allo sport, ai loro cellulari piuttosto che alle politiche elettorali.

Laddove “è uno dei segreti di Pulcinella nella politica degli ebrei americani il fatto che i contributi per le campagne elettorali siano un elemento chiave del potere ebraico” come ha sottolineato J.J. Goldberg nel suo libro Jewish Power, tuttavia ai sostenitori di Israele, questo elemento chiave, non è mai bastato, fin dagli anni immediatamente successivi alla nascita di Israele. Ciò che essi ritenevano necessario è stato creare una struttura organizzativa superiore che unisse tutti i gruppi ebraici sì da influenzare ogni settore della vita americana.

La struttura della lobby
Sebbene questa struttura si è evoluta nel tempo e mentre gli obiettivi delle sue attività si sono estesi e diventati più sofisticati, il suo modus operandi è rimasto per lo più lo stesso.
La struttura e il suo modo di operare furono messe allo scoperto durante una Audizione del Comitato Senatoriale sulle Relazioni Estere, nel 1963, un periodo in cui l’assistenza finanziaria e il sostegno politico a Israele da parte degli Stati Uniti erano insignificanti se paragonati a ciò che sarebbero diventati, ed era ancora possibile che per lo meno un legislatore eletto criticasse pubblicamente Israele dalla tribuna del Congresso. Il senatore J. William Fulbright, Democratico dell’Arkansas, presidente del suddetto Comitato Senatoriale sulle Relazioni Estere diede inizio a una serie di Audizioni che riguardavano le attività di agenti stranieri negli Stati Uniti per stabilire se erano necessarie leggi più restrittive al riguardo.

Tra i gruppi sospetti c’erano quelli della giovane lobby israeliana, tra i quali la struttura organizzativa superiore o struttura a ombrello che era l’American Zionist Council (AZC), e l’AIPAC che a quel tempo era poco più che una piccola organizzazione.
In quegli anni, l’AZC riuniva otto gruppi; solo due di questi sono attori importanti oggi, la Zionist Organization of America che è un’organizzazione di estrema destra e la Women’s Zionist Organization of America, più nota come Hadassah. L’AIPAC era stato fondato nel 1951 come American Zionist Committee for Public Affairs (Comitato Sionista d’Affari Publici in America) per agire come strumento lobbistico dell’ American Zionist Council (AZC), successivamente, nel 1954, l’AIPAC si era separata dall’AZC per non mettere in pericolo, con la sua attività lobbistica, la condizione di esenzione dalle tasse le altre organizzazioni. Nel frattempo lasciò cadere l’aggettivo ‘sionista’ dal suo nome e, nel 1959, divenne l’AIPAC (American-Israeli Public Affairs Committee). La separazione fu in gran parte un’operazione cosmetica. Ci fu più che altro una divisione dei ruoli, così mentre l’AIPAC indirizzava i suoi sforzi lobbistici verso il Congresso, le altre organizzazioni si incaricavano di intrallazzare a favore di Israele in lungo e in largo nella società americana.

Il programma
Perché tutto ciò divenisse chiaro bastò leggere il programma di un singolo gruppo dell’American Zionist Committee, presentato all’Audizione del Comitato Senatoriale sulle Relazioni Estere del 1963 di cui abbiamo detto. Si noti che a quel tempo Israele non era minacciato da nessun pericolo esterno e che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) non esisteva ancora.

Questo gruppo era il Committee on Information and Public Relations (Comitato per l’Informazione e le Pubbliche Relazioni) dell’Americam Zionist Council (AZC), il quale, secondo il suo programma, doveva svolgere “la sua attività principale per mezzo di sottocomitati altamente specializzati composti di professionisti di settori specifici di attività che operavano su base volontaria …”. Gli stanziamenti di bilancio per l’anno budgetario 1962/63 erano indirizzati ad interventi nei confronti delle riviste, dei loro direttori, le TV, le radio, i film; i gruppi religiosi cristiani; l’insegnamento universitario; la stampa quotidiana; la stampa e la promozione di libri; l’estensione dei già esistenti e attivi uffici di comunicazione; collegamenti con altre organizzazioni, e a livello nazionale e a livello locale, in particolare quelle organizzazioni che avevano relazioni internazionali (con un’attenzione speciale a «the Negro Community» ); “diffusione di materiale speciale per orientare l’opinione pubblica su temi controversi come i rifugiati arabi (cioè palestinesi, ndt), la situazione tra Israele e Siria, ecc.”; sovvenzioni di viaggi in Israele per “commentatori ed editorialisti con grande influenza sull’opinione pubblica in modo da fornir loro un’esperienza in Israele…” e l’organizzazione di viaggi “a cui questi influenti individui parteciperanno [e] forniranno informazioni utili riguardanti il modo in cui turisti americani vengono accolti in Israele;” …“contrasto dell’opposizione” (che a quel tempo era minima ma la lobby non intendeva lasciarle alcun spazio), “il monitoraggio ed il contrasto di tutte le attività condotte in America dagli arabi, americani amici del Medio Oriente e altri gruppi ostili” e infine il numero 12 della lista denominato “miscellaneo” che includeva “rispondere alle richieste di informazione e fornire letteratura adeguata alle migliaia di persone che ne fanno richiesta”. Questi erano i loro obiettivi 44 anni fa. Vediamo adesso come sono riusciti a portarli avanti.

Riviste e gli editori
Il primo punto erano le riviste e i rapporti con i loro direttori. Sebbene un gran numero delle più importanti riviste di allora non siano più pubblicate, quelle che esistono oggi come Newsweek, Time, US News & World Report, e il Weekly Standard o sono di proprietà ebraica o nel loro personale editoriale vi è una parte sostanziosa di ebrei. Sebbene il fatto che qualcuno sia ebreo non significa necessariamente che egli o ella è un militante sionista, in base alle mie osservazioni, in tanti anni, è chiaro che la maggior parte di loro sono sostenitori di Israele e, per lo meno, per i loro propri interessi, sanno come rigirare la pizza a favore di Israele. La televisione, la radio ed i film erano allora dominati da ebrei, ma oggi sostengono ancora più fortemente Israele, dai proprietari alla gestione, ai telegiornali. Questa è una fondamentale fonte di propaganda e di influenza pro-israeliana.

Gruppi cristiani
I gruppi religiosi cristiani sono stati un problema difficile per la lobby perché varie chiese, negli anni, hanno cercato di prendere una posizione equilibrata sul conflitto Israele-Palestina. E questo per i sionisti è un atto di «anti-semitismo». Nel complesso, tuttavia, i sionisti hanno fatto in modo che i loro rapporti con la maggior parte delle chiese cristiane sia tale che si possa ricorrere nei loro confronti alla colpa di secoli di persecuzione ebraica. Il loro più grande successo, i sionisti, lo hanno ottenuto riuscendo a portare le chiese cristiane evangeliche nelle file del movimento sionista, il che fornisce loro un massiccio sostegno in voti nell’America rurale dove pochi ebrei vivono.

Tra le chiese cristiane più liberali, i sionisti hanno dovuto lavorare a tempo pieno per fare in modo che i Presbiteriani, Episcopaliani e i Congregazionalisti non approvassero o non applicassero programmi di de-investimento dalle compagnie americane che traggono profitto dall’occupazione.

Insegnamento universitario
L’insegnamento universitario è stato da molto tempo un campo di battaglia tra i sionisti e i sostenitori della Palestina. Negli ultimi anni, la battaglia si è incentrata principalmente su due temi: sui de-investimenti e su ciò che può o non può essere insegnato del conflitto Israele-Palestina. I sionisti avevano già messo in opera il loro attivismo frenetico prima dell’attuale Intifada ma dopo che le critiche a Israele si svilupparono a causa dell’assalto contro Jenin dell’aprile 2002, ben 26 gruppi universitari guidati da Hillel e varie organizzazioni esterne alle Facoltà, dirette dall’AIPAC, dall’Anti Defamation League e dall’American Jewish Committee, (ADL e AJC, due altre organizzazioni sioniste, ndt) hanno fondato la Israel Campus Coalition. Sono riusciti finora a respingere ogni tentativo di de-investimento verso Israele nelle Università come hanno fatto con le chiese cristiane.

Nella battaglia sui contenuti dell’insegnamento, l’ADL ha avuto un vantaggio iniziale. Nei primi anni ’80, fu la prima organizzazione che pubblicò una lista di professori e militanti pro-arabi e poi la distribuì ai suoi membri e ai Media. Il gruppo più recente, Campus Watch, si è spinto fino a mettere anche gli indirizzi sul suo sito web ma è stato costretto a rimuoverli.
Nel campo universitario, l’AJC e Campus Watch hanno fatto pressioni sul Congresso per far approvare una legge che preveda il monitoraggio degli studi universitari mediorientali nelle Facoltà onde assicurarsi che i professori non indottrinino i loro studenti con “propaganda” anti-israeliana o anti-americana. Dal momento che una simile legge violerebbe il 1° emendamento della Costituzione e limiterebbe la libertà di espressione dei professori nelle aule, essa è bloccata in Senato.

Proprio in quest’ultimo scorcio di tempo, la lobby è riuscita a segnare un punto importante a suo vantaggio. É stata in grado di impedire alla Yale University, la più antica del paese, di assumere il professore ed esperto del Medio Oriente Juan Cole dell’Università del Michigan, anche se l’assunzione di Cole era stata raccomandata dal comitato universitario addetto alla scelta degli insegnanti. Il crimine di Cole? É critico verso Israele, verso la lobby e sostiene i palestinesi.

Conquista dei quotidiani
La conquista dei quotidiani ha rappresentato ha volte un problema, ma la lobby è uscita chiaramente vincitrice da questa battaglia. Considerando che sono di storica proprietà ebraica i due quotidiani più influenti del paese, il New York Times e il Washington Post, considerando che sono pro-israeliani i columnists di entrambi questi giornali e i loro articoli vengono venduti tramite agenzie a centinaia di altri giornali nell’intero paese, si può dire che il punto di vista pro-israeliano è l’unico che viene letto in America e sulle prime pagine e su quelle degli editorialisti.
Anche i telegiornali sono gestiti da pro-israeliani, eppure questo non basta ai gruppi sionisti che fanno monitoraggio della stampa e che sono riuniti nelle organizzazioni CAMERA e Honest Reporting. Accusano entrambi i giornali citati di essere favorevoli ai palestinesi e contrari a Israele. Tutto ciò, naturalmente, non ha alcun senso, ma serve a farli rigare dritto.

Libri
Qualsiasi rassegna dei titoli dei libri pubblicati in America rivela ancora un’altro successo della lobby. Sebbene ci sia stata una pletora di libri su Israele e la cultura ebraica, nulla ha avuto più successo rispetto alla promozione di libri sull’Olocausto ebraico e la produzione sembra non arrestarsi mai. Inoltre, è raro che un bimbo americano riesca a superare gli studi nella scuola pubblica senza subire un intenso studio dell’olocausto, soprattutto attraverso il Diario di Anna Frank. Per i ragazzi americani quella è tutta la storia della Seconda Guerra Mondiale. In effetti, gli scolari americani trascorrono più tempo a studiare l’olocausto rispetto al genocidio dei nativi americani (13 milioni di morti nell’America Settentrionale, ndt) e ai tre secoli e mezzo di schiavitù e le decine di anni di razzismo che seguirono. Prima di lasciare la scuola superiore, gli studenti americani avranno letto e sperimentato anche le piagnucolose recriminazioni di Eli Wiesel contro il mondo dei non-ebrei per non essersi precipitato in aiuto degli ebrei. Wiesel è oggi un punto fisso sulla scena culturale americana.

Relazioni con le comunità Afro-americana e Latino-americana
Non voglio scorrere oltre il programma dell’AZC, voglio solo sottolineare che i contatti che essa va tessendo con la comunità Afro-americana, e più recentemente con l’emergente popolazione Latino-americana, hanno rappresentato un fatto di importanza maggiore per la direzione della lobby. Ebrei di sinistra svolsero un ruolo importante in America durante le lotte per i diritti civili, mentre gli obiettivi principali della lobby sono stati da sempre quelli di controllare il programma politico dei neri e di determinarne la direzione. E in questo la lobby è riuscita a realizzare i suoi scopi. Alcuni ricchi uomini d’affari pro-israeliani contribuiscono a sostenere le finanze di chiese Afro-americane e così tengono buoni i loro ministri; allo stesso modo vengono forniti fondi e informazioni utili ai politici di colore che aspirano ad un posto nelle istituzioni, così che la loro fedeltà ai donatori, se non addirittura a Israele, viene assicurata. Coloro che si rifiutano di genuflettersi di fronte alla lobby, che a suo tempo richiedeva di inghiottire le critiche a Israele che forniva armi al regime dell’apartheid in Sud Africa, vengono immediatamente accusati di antisemitismo e presi di mira allo scopo di estinguerli politicamente.

Ciò che rimane oggi è quello che io ho chiamato “la piantagione invisibile.” L’unico membro del Congresso che non fa parte della piantagione al momento è Cynthia McKinney di Atlanta, Georgia. Riuscirono a sconfiggerla nel 2002 per aver criticato Israele e la guerra in Iraq, ma lei diede battaglia e riconquistò il seggio nel 2004, con gran dispiacere non solo della lobby ma anche del Partito Democratico.
É pronto contro di lei un nuovo fuoco di sbarramento alle primarie del 18 luglio 2006 in Georgia.

Mancanza di opposizione
Infine, ed è la cosa più sconvolgente, ciò che distingue la lobby israeliana dalle altre lobby è che essa non trova un significativo contrasto.
In realtà, solo la primavera scorsa, con la pubblicazione nella London Review of Books del saggio intitolato ‘La lobby israeliana e la politica estera degli Stati Uniti’, scritto dai professori universitari John Mearsheimer della University of Chicago and Steven Walt, di Harvard, l’argomento del potere e dell’influenza della lobby sulla politica estera americana in Medio Oriente è diventato un tema accettabile di dibattito pubblico.

Nel loro scritto i due studiosi hanno affermato, con prove abbondanti, che il sostegno statunitense a Israele in tutti questi anni non ha fatto gli interessi nazionali dell’America e che la guerra in Iraq è stata scatenata essenzialmente per conto di Israele, infine essi hanno efficacemente contrastato l’idea che Israele rappresenti un “bene strategico” degli Stati Uniti in questo momento.
Il fatto che si sia dovuto pubblicare il saggio a Londra, dopo che sia stato rifiutato dall’Atlantic Magazine negli Stati Uniti la dice lunga su quanto la discussione sulla lobby sia un argomento tabù negli ambienti della politica Americana.

Gli ambienti a cui mi riferisco non includono soltanto i sostenitori di Israele, i politici nelle istituzioni e i Media su cui i primi esercitano la loro influenza, ma anche la sinistra americana e la sua figura centrale, il prof. Noam Chomsky. Quest’ultimo, da una parte ha lodato i due studiosi per aver sollevato il problema della lobby, ma dall’altra si è affrettato, con aria indifferente, di liquidare le loro tesi senza nemmeno affrontarne i punti essenziali.

Non è stata una sorpresa. Per più di 30 anni, in innumerevoli libri, discorsi e interviste, il prof. Chomsky ha sostenuto che Israele è un “bene strategico” americano, che è utilizzato come “poliziotto a tempo” in Medio Oriente, e che la lobby non è proprio un fattore nelle decisioni di politica estera a Washington. Sembra così, egli insiste, perché le posizioni della lobby tendono ad andare d’accordo con quelle dell’elite dirigente americana. É interessante notare anche che Chomsky si oppone fortemente a ogni forma di pressione economica contro Israele, sia essa boicottaggio, de-investimento o sanzioni simili a quelle contro il Sud Africa dell’apartheid.
Avendo investito tanto nella sua posizione, il prof. Chomsky non cambierà certo idea proprio ora. Né, pare, lo faranno altri professori, come Stephen Zunes, che hanno adottato rigidamente il suo punto di vista.

I movimenti contro la guerra e per la Palestina
Ma quello che è più grave è che questa è stata la posizione del movimento contro la guerra e di quello di solidarietà con la Palestina. Invece di dare il benvenuto all’opportunità di criticare o per lo meno discutere il ruolo della lobby offerta dal saggio di Mearsheimer e Walt, i movimenti lo hanno ignorato o, come Chomsky e Zunes, hanno insistito nel dire che il problema non è la lobby, ma l’imperialismo americano (come se le due cose si escludessero a vicenda) che è un obiettivo facile ma offre poco fondamento per un’azione politica concreta. Il fatto che il movimento di solidarietà con la Palestina negli Stati Uniti abbia finora rappresentato un fallimento completo, credo, è dovuto al suo rifiuto di riconoscere il potere della lobby israeliana e quindi di combatterla a livello locale e nazionale.

É interessante notare che già nel 1971, tre anni prima che Chomsky pubblicasse il suo primo libro su Israele, Roger Hilsman, che era stato dirigente del Dipartimento di Stato (Esteri) nel settore dell’intelligence durante l’amministrazione Kennedy, aveva scritto:

Risulta ovvio, anche all’osservatore più distratto, per esempio, che la politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, dove il fattore petrolio è fondamentale, è stata più sensibile alle pressioni della comunità ebraico-americana e al suo ovvio desiderio di sostenere Israele di quanto non lo sia stata agli interessi petroliferi americani.

Stephen Green ha compiuto una ricerca su questo argomento andandosi a spulciare documenti del Dipartimento di Stato e così ha cominciato a dissodare un terreno fino allora rimasto vergine. La sua ricerca si trova nel magnifico libro ‘Taking Sides: America’s Secret Relations with Militant Israel’. Nel libro egli afferma, solo in un modo un po’ più sfumato:


Dal 1953, Israele e gli amici di Israele in America, hanno determinato a grandi linee la politica americana nella regione. É toccato ai presidenti americani realizzare quella politica, con gradi diversi di entusiasmo, e con la libertà di vedersela con scelte di carattere tattico.


Il defunto prof. Edward Said non usava mezzi termini sull’argomento. Nel 2001, nel suo contributo dal titolo ‘L’ultimo tabù dell’America’ per la raccolta di articoli La nuova Intifada si chiedeva retoricamente:

Cosa spiega l’attuale stato delle cose? La risposta si trova nel potere delle organizzazioni sioniste nella politica americana, il cui ruolo, nel corso di tutto il «processo di pace» non è stato mai affrontato in modo adeguato – un errore che è del tutto sorprendente, dato che la politica dell’OLP è stata quella di gettare il nostro destino in quanto popolo nelle braccia degli Stati Uniti, senza nessuna consapevolezza strategica di quanto la politica americana sia dominata da una piccola minoranza i cui punti di vista sul Medio Oriente sono in qualche modo ancora più estremisti di quelli dello stesso Likud.

Riguardo all’AIPAC, Said scriveva:

L’American Israel Public Affairs Committee – l’AIPAC – per anni è stato l’unica strapotente lobby a Washington. Attingendo da una popolazione ebraica ben organizzata, ben collegata, molto visibile e ricca, l’AIPAC ispira paura e rispetto in tutto l’ambiente politico. Chi oserà ergersi contro questo Moloc per conto dei palestinesi quando questi non possono offrire nulla, mentre invece l’AIPAC può distruggere una carriera professionale semplicemente staccando un assegno? Nel passato, uno o due membri del Congresso hanno osato resistere apertamente all’AIPAC, ma poi i numerosi comitati d’azione politici controllati dall’AIPAC hanno fatto in modo che costoro non venissero mai più rieletti …. Se questo è il materiale del ramo legislativo, cosa ci si può aspettare dell’esecutivo?

La voce del prof. Said, come altre voci, caddero su orecchie per lo più sorde.
Così, non dovrebbe apparire sorprendente che nell’assenza di qualsiasi opposizione pubblica organizzata e nella vergognosa inadempienza da parte di coloro che dicono di sostenere la causa palestinese, la lobby israeliana non ha avuto difficoltà a mantenere il suo controllo sul Congresso degli Stati Uniti, e dirigere di fatto la politica mediorientale americana. Essa ha fatto in modo che qualsiasi presidente che si è opposto ad essa abbia dovuto pagare il prezzo di una prevedibile sconfitta elettorale il giorno delle elezioni per il secondo mandato.

Ogni presidente, a cominciare da Richard Nixon, ha fatto qualche timido sforzo per costringere Israele a lasciare la Cisgiordania, Gaza e le alture del Golan, non per il beneficio dei palestinesi, ma per migliorare gli interessi regionali dell’America. Ogni minimo sforzo è stato ostacolato dalla lobby.

L’unica eccezione è stata Jimmy Carter, un politico outsider, il quale costrinse Menachem Begin a evacuare la penisola del Sinai in cambio del trattato di pace di Camp David con l’Egitto e nel 1978, per fargli inghiottire il rospo, gli ordinò di ritirare le sue truppe dal Libano, dopo a prima invasione israeliana del suo vicino settentrionale.

La lobby, naturalmente, non era contenta degli accordi di Camp David, né dei suoi altri sforzi di fare pressioni su Israele e così anche lui dovette pagare il prezzo. Ciò avvenne alle elezioni del 1980 quando ricevette solo il 48% dei voti ebraici, la percentuale più bassa di qualsiasi candidato Democratico da quando si è cominciato a tenere il conto.

Data la situazione che ho descritto, le prospettive di cambiamento della politica americana se non fosse altro nei termini di dare un po’ più di giustizia ai palestinesi non sono affatto rosee.
Ciò che ci resta da fare è spiegare perché e cercare di far capire a coloro che sono alla testa del movimento e ne stabiliscono la direzione sbagliata che essi devono o cambiare atteggiamento o togliersi da mezzo.

Tradotto dall’inglese da Manno Mauro, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (tlaxcala@tlaxcala.es). Questa traduzione è in Copyleft.