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Genesi e struttura dell’individualismo nel pensiero di Louis Dumont

di Giovanni Monastra - 12/10/2005

Fonte: estovest.net

 

Accanto alla critica della modernità, appannaggio del cosiddetto "pensiero tradizionale" (Coomaraswamy, Evola, Guénon, Mordini, Lings ecc.), ne esistono altre, più note, di diversa impronta ideologica e dottrinaria: però, nonostante la lontananza tra i retroterra culturali delle differenti scuole, emergono numerose similitudini e analogie. In generale potremmo asserire che esistono due tipi di critica antimoderna estranea al tradizionalismo: una romantico-progressista, che accusa la modernità di aver tradito i suoi presupposti ideologici e quindi chiede un ulteriore radicale cambiamento lungo il "senso della storia", ossia in direzione di un più accentuato umanismo. Un'altra, invece, meno propensa all'esaltazione dei principi "moderni" nel loro complesso, per altro non sempre coerenti tra loro, ma lontana anche dal rivalutare il mondo arcaico nel suo complesso teorico-esistenziale, pone alcuni problemi di rilievo: evidenzia la rottura, spirituale e materiale, operata dalla società moderna, che costituisce una novità radicale rispetto a tutte le altre società create dall'uomo, e sottolinea i gravi problemi, per la collettività e per i singoli, derivanti da tale "soluzione di continuità".
Ma quali sarebbero i fondamenti della "modernità" tali da renderla un evento eccezionale nella storia umana?  Per alcuni tra questi critici tutto va ricondotto all'individualismo, per altri all'utilitarismo o all'economicismo, per altri ancora all'egualitarismo. Certo viene ammesso che tali concezioni del vivere potessero anche essere talora presenti, in modo sporadico, nel passato, ma ciò che caratterizzerebbe l'oggi è la loro preminenza totalitaria, onnipervasiva. Rimane comunque da vedere quanto ciò sia vero a livello di immaginario collettivo, di mentalità generale, e quanto a livello di prassi quotidiana, laddove la spontaneità dell'uomo "eterno", nei suoi bisogni e nelle sue pulsioni, fa prepotentemente capolino, ponendo diversi problemi di compatibilità tra "essere" e "dover essere", tra vita e strutture sociali informate a certi parametri di ordine teorico. In genere l'approccio critico, di cui stiamo parlando, nel momento stesso in cui mette in luce la rottura tra mondo arcaico e mondo moderno nega il rasserenante schema storicistico-evoluzionista, secondo cui la nostra società si sarebbe sviluppata da quelle che la hanno preceduta seguendo un processo lineare, costituente il Progresso. Nessuna "soluzione di continuità", quindi, dato che tutte le cause determinanti la realtà odierna erano presenti nella storia, anzi dentro la Storia, spesso divinizzata inconsciamente. Disseminate fra le trame del passato avrebbero portato l'uomo al naturale e inevitabile approdo della modernità quale noi la conosciamo. Ciò spiega perché tutti i progressisti coerenti  finiscono, consapevolmente o meno col considerare le società del passato e quelle attuali, ancora non "redente" dall'Occidente, secondo i parametri e i valori vigenti nel mondo moderno. E' un punto di vista arrogantemente eurocentrico, che dà per scontata la superiorità (!) della nostra area culturale rispetto a tutte le altre, assimilate all'inciviltà, se non alla barbarie.  Ma d'altra parte risulta un punto di vista coerente in quanto considera fondamentalmente omogenee tra loro tutte le società, al di là delle differenze apparenti. E poiché noi saremmo il necessario e unico esito finale, il culmine del lungo processo evolutivo, il Progresso, appare logico e consequenziale ergerci a giudici del mondo intero. Diversamente sarebbe se almeno si ammettesse la possibilità che nella storia si dipanino differenti itinerari di sviluppo, tra loro qualitativamente disomogenei, ma tutti degni di interesse partecipe e sentito. È ciò che hanno intuito, almeno in parte, agli spiriti più liberi della cultura moderna, da W. Sombart a O. Spengler, da M. Sahlins a K. Polany per giungere a Louis Dumont, sul cui pensiero vogliamo soffermarci, rileggendo in particolare le pagine più significative del suo volume Saggi sull’individualismo – Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna (Adelphi, Milano). Lo studioso francese è già noto da diversi anni in Italia anche per altri tre volumi, tutti editi da Adelphi, come Homo hierarchicus – Il sistema delle caste e la sua rappresentazione, La civiltà indiana e noi, Homo aequalis – Genesi e trionfo dell’Ideologia economica. A parere di chi scrive egli merita una particolare attenzione, superiore a quella che gli è stata finora tributata, per i qualificati studi condotti sulla genesi e l'essenza dell'individualismo e sui caratteri fondamentali della gerarchia. Dumont andrebbe attentamente studiato non solo dai socio-antropologi, ma anche da tutti coloro che si interessano di storia delle idee o sono affascinati dal tema della "modernità". Proprio i Saggi sull'individualismo offrono il miglior approccio introduttivo al suo pensiero, per chiarezza e sinteticità espositiva. Vi troviamo stimolanti proposte di metodo, concernenti lo studio dell' "altro da sé" e acute osservazioni sulla società e la mentalità moderne e arcaiche, il tutto libero da certi tabù che censurano e castrano molti ambiti culturali, quando si affrontano argomenti scabrosi. Dumont si rivela davvero uno spirito indipendente. Ad esempio valorizzare nei suoi vari aspetti la gerarchia, di cui l'autore vede nell'India tradizionale il luogo di realizzazione più paradigmatico, ci sembra già assai sintomatico, solo se si pensa alle connotazioni in sé negative che tale parola ha assunto nei nostri tempi, certo anche a causa di un uso distorto, strumentale e opportunistico. Dumont precisa subito che la gerarchia è un sistema di organizzazione della società basato sul valore e non sul potere o sul comando. La società indù dimostra che chi possiede il potere politico non risiede al vertice della gerarchia: la casta sacerdotale, in quanto possiede uno status più elevato, si situa al di sopra di quella dei guerrieri, dai quali derivano le stirpi regali, detentrici del potere temporale. Il binomio sacerdote-re costituisce una coppia di contrari che forse si è formata da una scissione. “Non è irragionevole per noi supporre”, scrive Dumont, “che la sovranità sacra originaria, ad esempio quella del faraone o dell'imperatore della Cina, in determinate culture si sia differenziata dando origine a due funzioni, come è avvenuto in India”. Chi conosce l'opera di Evola e di Guénon ritroverà in queste parole l'eco di tesi familiari sull'unità primordiale del binomio “autorità spirituale - potere temporale”. L'essenza del rapporto gerarchico starebbe nell'inglobamento del contrario: una relazione dissimmetrica tra due dimensioni. Ciò che è superiore comprende (quindi esiste anche un'identificazione fra le parti) e nel contempo sovrasta ciò che è inferiore — opposizione che in India si basa sul binomio puro/impuro — ma senza avere una correlazione con il comando. L'idea di dipendenza, che spaventa molti, non va vista, a detta di Dumont, come qualcosa di intrinseco alla gerarchia. Per chiarire meglio questo aspetto, lo studioso ricorre alla metafora delle mani, destra e sinistra. La prima è superiore di solito alla seconda, ma non la comanda. Nessuno direbbe che la mano sinistra dipende dalla mano destra; semmai si deve affermare che ambedue fanno riferimento ad un'entità sovraordinata, il corpo, la totalità. In questo senso, gerarchia e potere non vanno confusi. La bidimensionalità della gerarchia implica l'inversione in settori specifici. Cosi in India il sacerdote detiene l'autorità nel campo spirituale, il re in quello temporale. Nel primo, più elevato, il re sottostà al sacerdote, ma nel campo politico è il sacerdote a dover obbedire al re, anche se naturalmente la politica regale di norma costituisce l'applicazione nella società di certi principi di ordine superiore. In India, infatti, non esiste l'autonomia della sfera politica dai valori di ordine “sovrannaturale”. In senso generale la realtà viene percepita dai popoli premoderni come una totalità costituita da una serie gerarchica discendente di metà ineguali, ma complementari, secondo uno schema fatto proprio anche da Arthur Koestler ne II principio di Giano (Edizioni Comunità). La società indù, al pari di ogni collettività arcaica, si struttura nei termini di una totalità che comprende numerose sottototalità gerarchizzate a catena: come per la metafora delle mani, la gerarchia assume un senso solo se fa riferimento alla Totalità. Ogni sistema veramente gerarchico è quindi anche olista. La società moderna, atomizzante, si situa agli antipodi di tutto ciò. Il suo modello precipuo è l'individualismo, da cui derivano l'economicismo, l'indifferenziazione egualitaria, la preminenza nel mondo relazionale del rapporto uomo-cose, la separazione assoluta e meccanica tra soggetto e oggetto, la scissione del “valore” dal “fatto”, la settorializzazione della conoscenza in comparti omogenei e totalmente indipendenti. Per l'olismo, al contrario, la centralità sta nella relazione tra le persone, viste nelle loro differenze e qualificate nelle loro specificità anche funzionali, nel contesto della totalità sociale. L'insieme risulta trascendente e preminente sul singolo, che costituisce la parte, senza per questo soffocarlo (si pensi alle aree di autonomia della società castale indù). Appare evidente che qui l'accento è posto sul valore, inteso nel suo senso originario, ben lontano dalla degenerazione moderna che, con uno slittamento semantico, lo ha ridotto spesso a una valenza economica, cioè quantitativa, attraverso le tappe di un processo di mercificazione del mondo e della vita. Inoltre nella società premoderna esiste, tra soggetto e oggetto, un rapporto fluttuante, anche di immedesimazione del primo nei secondo, mai considerato materia disanimata da sfruttare (riflessi di questa visione si notano ancora nel pensiero di Goethe), all'interno di un sapere sintetico e non analitico. Ce n'è abbastanza per alimentare una serie di considerazioni assai inquietanti per chi crede che la modernità sia il culmine della storia umana. Che dire, ad esempio, delle nuove teorie fisiche (Capra, Davies, Bohm) che dimostrano come stia riemergendo una configurazione olista del mondo, in cui l'aspetto relazionale tra le parti diviene centrale, mentre assume una minore importanza tutto ciò che fa riferimento ai singoli “atomi”, alle parti prese in quanto entità separate? Siamo sicuri che la visione del mondo arcaico sia davvero definitivamente superata? Ad osservare certi ritorni ciclici non si direbbe; e Dumont accenna di sfuggita a questi aspetti controversi dell'epistemologia contemporanea, lasciando molti problemi aperti. Ritornando all'impatto sociale della gerarchia, l'Autore ricorda ripetutamente che essa comporta l'integrazione delle parti sociali e non la loro esclusione: l'inglobamento, e quindi l'integrazione funzionale, di ogni componente costituisce l'essenza dell'India tradizionale. Proprio l'individualismo porta invece all'esclusione di alcuni settori, di alcuni gruppi umani dalla società, instaurando una discriminazione invisibile, ma distruttiva sotto il profilo relazionale. Negata in teoria, tale discriminazione è presente nei fatti, proprio perché l'essenza dell'individualismo si identifica nella separazione radicale in un contesto monodimensionale, semplificato oltre misura, privo della complessità e dello spessore del mondo premoderno. Dumont ne vede in germe la genesi nel cristianesimo, che ha esaltato “l'uomo fuori dal mondo”, l'eremita, il rinunciante, figura che ha svolto un ruolo dirompente nella storia occidentale, ben diverso dal suo analogo indù, l'asceta. “Qualcosa dell'individualismo moderno è presente nei primi cristiani e nel loro mondo, ma non si tratta esattamente dell'individualismo che ci è familiare. In realtà, tra la forma antica e quella nuova è intercorsa una trasformazione talmente radicale e complessa che ci sono voluti non meno di diciassette secoli di storia cristiana per elaborarla, e forse essa prosegue ancora ai nostri giorni. La religione è stata il fermento basilare, prima della generalizzazione della formula, poi della sua evoluzione”. Vediamo così il passaggio da una specie di individualismo ad un altro, attraverso Guglielmo d'Occam e Calvino, per arrivare a Hobbes, Rousseau, Marx. Paradossalmente, “l'effettiva umanizzazione del mondo è derivata, nel corso del tempo, da una religione che subordinava nel modo più rigoroso il mondo a un valore trascendente”. L'analisi di Dumont appare convincente, anche se ci sembra lecito nutrire qualche riserva sulla correttezza dell'uso del termine “individualismo extramondano” nel contesto religioso in cui viene adottato. Ha infatti senso parlare di individuo solo in una realtà desacralizzata, dove la persona, con le sue qualificazioni, è già scomparsa: il rinunciante si situa invece al di sopra della comune vita dell'uomo, aprendosi al trascendente; non è l'individuo chiuso nella sua corazza, ma l'esatto contrario; anche se può portare i germi della patologia individualistica, almeno in potenza. Ci sembra, comunque, condivisibile l’idea che la secolarizzazione e l'immanentizzazione di una certa asocialità cristiana abbia poi condotto all'individualismo, in concorso con un altro carattere precipuo del Cristianesimo: la totale assenza di una teoria sociale complessiva e organica, quale si trova nell'Islam o nell'Induismo. Di fatto, ciò ha costituito una debolezza intrinseca alla religione egemone in Occidente: i teorici cristiani dovettero infatti mutuare, nel tempo, la loro dottrina sociale dal pensiero classico, con le contraddizioni e i sincretismi inevitabili in ogni prestito culturale, specie se debitore di alcuni aspetti decadenti della grecità al tramonto. Questa profonda carenza spiega perché solo l'Europa abbia fatto da culla all'individualismo, che ha trovato un argine invalicabile in tutte le altre aree culturali e religiose: ancora una volta, si ripropone il problema del Cristianesimo come anello debole della catena delle religioni. A certi patetici nostalgici andrebbe dedicato il capitolo in cui Dumont sottolinea i connotati fortemente individualistici presenti nella grezza ideologia di Hitler, a dispetto dei continui richiami formali alla comunità e al popolo misticamente inteso. “Sul piano ideologico mondiale”, sostiene l'antropologo, “il nazismo fa parte di un processo di intensificazione e di escalation legato all'interazione tra l'ideologia individualistica dominante e le culture particolari dominate”. Rappresenta una esplosiva commistione fra contrari. Il suo totalitarismo, come ogni totalitarismo, incarna una malattia tipica della modernità, che “risulta dal tentativo, in una società in cui l'individualismo è profondamente radicato e predominante, di subordinarlo al primato della società come totalità”: considerazione che, per altri motivi, dovrebbe far riflettere anche taluni "tradizionalisti" astratti dalla realtà fattuale e persi dietro rigenerazioni epocali a buon mercato. In conclusione, Louis Dumont lancia ai lettori una serie di importanti messaggi, incitandoli a saper essere spiritualmente liberi dai tabù del proprio tempo, a rivoluzionare i modi di pensare, ad essere realisti senza indulgere in utopie, ad accettare l'altro-da-sé in pieno, e quindi con amore intellettuale, attitudine che va al di là della semplice “tolleranza”. Egli ci ricorda la necessità dell'olismo e della gerarchia, ma ci insegna anche che l'individualismo non può essere cancellato, talmente si è radicato nella nostra cultura e nei nostri costumi sociali. La sua stessa vita ne costituisce del resto un esempio, dato che egli si oppose al volere familiare, secondo cui avrebbe dovuto intraprendere gli studi di ingegneria; scelse invece l'indipendenza personale e si rese autonomo lavorando come assicuratore. Solo in seguito riuscì ad appagare la sua vocazione, entrando ai Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Parigi e poi alla Scuola di Alti Studi in Scienze Sociali come docente, incarico tenuto dal 1955 al 1979. L'individualismo del suo carattere ha costituito una grande fortuna per l'antropo-sociologia. Nella migliore delle ipotesi, secondo Dumont, olismo e individualismo oggi possono raggiungere uno stato di conciliazione “gerarchica”, e quindi di reciproca accettazione: a ciascuno i suoi livelli. Ciò permetterebbe di regolare una coabitazione che esiste di fatto, ma che, se non regolata, diviene caotica, pericolosa. La gerarchia, proprio per i suoi caratteri inclusivi, può fornire utili strumenti sia nel campo intellettuale sia in quello sociale, reintegrando quanto nel passato, in vari settori, è stato separato, scisso, scomposto, con gravi effetti negativi. Siamo di fronte ad una sfida che richiede creatività e coraggio, ma anche una grande saggezza, per delineare nuove forme di conoscenza e nuove strutture del vivere, al di là delle frammentazioni laceranti della nostra epoca, sia in capo sociale, sia in quello epistemologico.