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Egitto, l’anello di Gige

di Miguel Martinez - 23/08/2013


Sul blog di Sherif el-Sebaie, leggo oggi un post in cui prevede (ma dietro la previsione, si legge anche un po’ un auspicio) una dura repressione delle proteste condotte dai Fratelli Musulmani.

E’ un testo che fa riflettere, per diversi motivi.

La prima e più facile obiezione sarebbe di tipo moralistico: non SI devono fare massacri, SI deve dialogare.

L’errore di una simile obiezione sta innanzitutto nel giudizio universale e ignorante, che Sherif stigmatizza con comprensibile ironia.

Ma soprattutto, l’errore sta in quel pronome SI, che mostra tutta la nostra impersonale identificazione con i dispositivi di dominio.

Io non sono l’esercito egiziano, non sono il governo degli Stati Uniti, non sono il governo dell’Arabia Saudita, per citare solo alcuni degli attori coinvolti, i quali giustamente ritengono nulli i miei sentimenti o le mie opinioni a proposito dei loro interessi.

Se riterranno utile e opportuno dialogare, dialogheranno; se riterranno utile e opportuno massacrare, massacreranno. D’altronde, tutta la storia nota della specie umana sta lì a dimostrare che è così.

I moralisti nascondono a se stessi questa tipica falsificazione, rendendo le “istituzioni” il più possibile impersonali: “la comunità internazionale”, “l’opinione pubblica”, “l’Occidente”, “la democrazia”, tutte realtà a cui noi possiamo illuderci di partecipare, e con certamente ci identifichiamo. Ritenendo che questi enti inesistenti siano un po’ noi, ci illudiamo che debbano sottostare in qualche modo ai nostri valori.

Ma credo che anche Sherif compia un analogo errore di identificazione impersonale, quando parla dell’esercito egiziano.[2]

Come già accennavo ieri, il problema non sta nelle apparenze di ogni dispositivo militare. Non a caso, tutti gli eserciti del mondo – anche quelli in guerra tra di loro – si somigliano a vicenda, molto di più di quanto somiglino ad altri settori della società.

Nulla come l’esercito esprime la volontà – la possibilità di prendere decisioni anche contro le circostanze, di poter programmare in tempi lunghi e agire in tempi brevi, di poter fare a meno dei vincoli imposti dai dubbi, dai cambiamenti di opinione, da amicizie e antipatie passeggere. E in questo senso, è comprensibile che si possa sognare nell’esercito, la forza in grado di traghettarci nelle emergenze.

Ma la vera domanda è, a chi appartiene quella possente volontà?

Nei vecchi Stati Nazione, gli eserciti una funzione ce l’avevano, discutibile quanto si vuole ma reale: quello tedesco difendeva i tedeschi dai francesi, come l’esercito francese difendeva i francesi dai tedeschi.

Nel mondo post-nucleare, l’esercito è quasi ovunque inutile. Se la Tunisia dovesse attaccare l’Italia, basterebbero i carabinieri a difenderci; se gli Stati Uniti dovessero attaccare l’Italia, ci farebbero fuori in quattro ore, bombardieri da milioni di dollari compresi.

Ugualmente, l’Egitto ha un solo potenziale nemico, Israele, che è in grado di annientarlo nel giro di una giornata – tanto valeva quindi non armarsi affatto.

L’esercito è quindi oggi qualcosa che non esiste per la nazione, ma solo per se stesso. E’ l’impresa assoluta, nel senso etimologico – ab-soluta, sciolta da ogni funzione, vincolo o controllo.

Un’impresa che agisce in totale segretezza, per la ben nota inviolabilità della “sicurezza nazionale”.

Grazie all’universale condanna dello “spionaggio” e del “tradimento”, gli imprenditori militari, a differenza di quelli civili, possono far mettere a morte chiunque indaghi sui loro affari. Possiedono così l’anello di Gige, di cui parlava Platone. E nell’invisibilità, possono fare ciò che vogliono. [1]

Certo, per fare così, è necessario che si conservi il sistema che permette ai militari egiziani di fare ciò che vogliono: un apparato di milioni di uomini, del tutto parassitario e inutile, che consuma le principali risorse del paese, in una società che vive largamente nella miseria.

Allo stesso tempo, questo dispositivo è inserito in un altro, che copre tutto il mondo. I vertici dell’esercito egiziano non sono certo i rozzi animali da caserma che ci si potrebbe immaginare.

Sono persone sofisticate, capaci di parlare perfettamente diverse lingue, in continuo viaggio tra le sedi della NATO, gli uffici delle grandi imprese di produttori di armi, le fiere del settore, le banche, i vertici con i tecnici del dominio e del terrore di tutto il pianeta.

Un mondo di aerei e di alberghi di lusso, ma anche di conoscenze tecniche e di severi corsi di formazione, dove non sono dei semplici servi, ma rispettati clienti del complesso militare-industriale mondiale.

Un sistema anch’esso parassitario, nel senso che utilizza i contribuenti “occidentali” (sia direttamente, sia attraverso un indebitamento colossale) per mantenere in piedi il proprio ciclo produttivo di merci costosissime. Merci che in massima parte non saranno mai usate, prima di diventare obsolete e far posto a nuove merci.

Anche in questi giorni, quanti proiettili saranno serviti per uccidere forse un migliaio di persone, e quanti invece giaceranno inutilizzati nei magazzini, finché non saranno distrutti?

Se un dispositivo del genere ha deciso di compiere un massacro, quindi, non è certo perché guidato da assassini folli, oppure da benintenzionati che esagerano, secondo i punti di vista.

Ma perché persone intelligenti ritengono che una strage – cioè in termini pratici un brevissimo calo di immagine presso una parte del distratto telespettorame planetario – sia il modo migliore per garantire l’inattaccabilità del loro dispositivo.

E se ritengono anche che tale strage sia nei migliori interessi del più grande dispositivo in cui i militari egiziani sono inseriti, è perché si saranno informati prima e avranno chiesto il via libera.

Ditemi voi perché dovrebbero smettere, o mettersi a dialogare. Ma anche, perché dovrebbero fare l’astratto “bene della nazione”.

Nota:

[1] Un aneddoto italiano. Negli anni Ottanta, un mio amico, soldato di leva. Con due compiti a difesa della patria.

Il primo, quello di alzarsi alle cinque e vedere come stavano le reti che il suo ufficiale aveva fatto stendere per catturare uccelli.

Il secondo, quello di fare il giro delle macellerie del paese, consegnando la carne dell’esercito (talvolta, mi disse, con l’anno 1946 ancora timbrato sopra) che lo stesso ufficiale vendeva loro sottobanco.

Il resto della giornata, un felice ozio.

[2] Oggi io e Sherif siamo in disaccordo su questa specifica questione. Un fatto che non cambia minimamente la mia amicizia con lui. Non bisogna mai confondere accordi e disaccordi politici con la stima o disistima personale, come fanno regolarmente molti.