Il tradimento della sinistra italiana: l’esempio della protesta dei Forconi
di Antonio Avventaggiato - 24/12/2013
Fonte: lintellettualedissidente
E’ stata proprio la non appartenenza allo schieramento ufficiale a far preventivamente bollare, da parte dell’opinione pubblica che si ritiene di sinistra, i manifestanti come fascisti e golpisti (adducendo, tra l’altro, improbabili confronti storici con l’Italia degli anni Venti o con il Cile tra Allende e Pinochet). Questo atteggiamento della sinistra non ha fatto altro che aumentare la distanza, già netta e considerevole, tra chi si riconosce nelle logiche del partito e del sindacato e chi, per manifestare il proprio disagio, attua forme di protesta del tutto anarchiche e prive di manifesti programmatici.

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Grande interesse ha attirato su di sé, nelle ultime settimane, il cosiddetto Movimento dei Forconi. Su questo fenomeno politico è stato detto molto, trascurando, però, alcuni aspetti che necessariamente devono essere messi in luce per indagare correttamente la natura stessa di questo movimento. Innanzitutto, l’unica caratteristica accertata dei Forconi è che è, questo, un movimento eterogeneo, composto da forze di natura e di provenienza diversa, che ha mosso i suoi primi passi, inizialmente, in Sicilia e nel Mezzogiorno tutto. Questi due aspetti (l’eterogeneità del movimento e il suo nascere nell’area più disagiata, dal punto di vista economico, sociale ma anche ideologico del Paese) sono fondamentali per non cadere nella trappola in cui è caduta buona parte dell’opinione pubblica italiana. Il fatto che il movimento non sia omogeneo non toglie nulla al fatto che, in esso, ci siano non soltanto imprenditori reduci dal fallimento del ventennio berlusconiano, ma anche disoccupati e disagiati sociali che difficilmente riescono a riconoscersi nelle logiche e nelle forme espresse dai partiti e dai sindacati.
E’ stata proprio la non appartenenza allo schieramento ufficiale a far preventivamente bollare, da parte dell’opinione pubblica che si ritiene di sinistra, i manifestanti come fascisti e golpisti (adducendo, tra l’altro, improbabili confronti storici con l’Italia degli anni Venti o con il Cile tra Allende e Pinochet). Questo atteggiamento della sinistra non ha fatto altro che aumentare la distanza, già netta e considerevole, tra chi si riconosce nelle logiche del partito e del sindacato e chi, per manifestare il proprio disagio, attua forme di protesta del tutto anarchiche e prive di manifesti programmatici. Ma, come abbiamo già detto, nel rapporto tra queste due forze (il movimento in sé e la sinistra ufficiale) esisteva, già prima degli ultimi eventi, una netta linea di separazione, rimarcata ancora di più dal fatto che questo movimento ha trovato la propria fonte d’origine in Sicilia, nel cuore caldo del Mezzogiorno, e non nelle regioni del Nord (credo si debbano intendere, ad esempio, i fatti di Torino e le forze sociali che li hanno scatenati come un’appendice del movimento, non come parte integrante della composizione originaria del movimento stesso): è proprio nel Mezzogiorno che il disagio si sente maggiormente (non soltanto in termine di salari); nel Mezzogiorno lo Stato ha sempre agito in maniera esclusivamente reazionaria ed è ancora nel Mezzogiorno che i partiti di sinistra hanno sempre storicamente fallito (sia ideologicamente che praticamente). La presunta superiorità delle regioni e delle forze sociali settentrionali, anche nella visione della lotta di classe, è roba vecchia: già Gramsci, riguardo al Risorgimento, riconosceva al Piemonte il ruolo di guida nel movimento di liberazione della Penisola, e sempre la tradizione comunista (espressa chiaramente dagli apparati ideologici del PCI) sembrò preferire, alle masse contadine del Sud, le masse operaie delle città industriali del Nord.
Questo presupposto, questo pregiudizio di dubbia natura, che dagli inizi del XX secolo ha ideologicamente relegato in un contesto di arretratezza non solo la società meridionale tutta, ma anche le sue forze sociali e rivoluzionarie, ha influenzato e influenza ancora oggi pesantemente il pensiero e le tattiche politiche di coloro che si riconoscono nello schieramento progressista e di sinistra. A ciò si aggiunge il fatto che tutta la società meridionale, e in questa anche progressisti e esponenti della sinistra, soprattutto negli strati sociali medio bassi, non ha mai perdonato alla sinistra partitica il suo essersi accodata acriticamente, nel secondo dopoguerra, alle ruberie e agli scandali della Democrazia Cristiana (come, ad esempio, nel caso della Cassa del Mezzogiorno, da cui attinsero a piene mani le burocrazie, locali e nazionali, di tutti i partiti italiani), pur di non privarsi della propria parte del bottino da spartire.
Non è neanche da bollare aprioristicamente in maniera negativa il motto in cui questo movimento spontaneo sembra manifestarsi: il “Tutti a casa!”. La sinistra italiana, dal dopoguerra legata in maniera evidente al parlamentarismo, ha usato proprio questo monito lanciato dai manifestanti come prova per criticarli in quanto presunti golpisti o volenterosi di ribaltare le istituzioni democratiche. Eppure, ancora una volta sembra che il movimento non stia sbagliando del tutto: l’attacco alle istituzioni non è indirizzato soltanto ai membri del Parlamento in quanto corrotti o, al massimo, incapaci di rifiutare i proventi del finanziamento pubblico; il Parlamento italiano è sempre più sottoposto alle logiche pressanti dei grandi monopoli industriali e finanziari, e di certo questo fattore rende i parlamentari non soltanto corrotti e incapaci, ma veri e propri partecipanti al sistema oligopolistico che tenta di influenzare le decisioni del Paese.
Non è un caso che Toni Negri, che non è proprio un forcone, già quarant’anni fa, dicesse: “Il Parlamento è la prima e unica banda clandestina in cui sono entrato”. Il problema, dunque, non sembrano essere i manifestanti, ingiustamente accusati di golpismo e quant’altro; il problema sta proprio in una sinistra che si è sempre più ufficializzata e distaccata dagli strati popolari, rendendosi incapace di leggere la realtà e di egemonizzare il disagio di chi avrebbe dovuto rappresentare.