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La politica di Israele e le popolazioni in ostaggio

di intervista di Paola Mirenda - 31/07/2006

 

[Questo articolo è stato segnalato da Diego nei commenti a Un dogma culturale (sulla critica alla politica israeliana) qui su NI]

“La politica di Israele consiste proprio nel tenere in ostaggio intere popolazioni”

Gilbert Achcar[1], intervista di Paola Mirenda per
Liberazione – 15/7/2006

Il 20 luglio 2006, esattamente un anno dopo il nostro ritorno dai Territori Occupati[2], Tsahal (l’esercito israeliano comunemente noto come IDF – Israeli Defense Force) è al settimo giorno di bombardamenti sul territorio libanese.

Esattamente un anno dopo il nostro ritorno mi trovo su un autobus diretto verso il posto dove lavoro (e neanche per un istante penso ai brividi provati percorrendo Tel Aviv – Old Yafo sullo stesso tipo di mezzo un anno prima): è estate, sono circondato da ragazzi in tenuta da spiaggia, apparentemente lontanissimi da qualsiasi “idea” di guerra. Uno di loro ha un giornale, in prima pagina un’immagine delle macerie di Beirut cattura la sua attenzione: il ragazzo, credo abbia più o meno la mia età, si lascia scappare un commento, un commento che include un “…peccato per Hitler …poteva almeno finire il lavoro”. E’ un commento che, in un contesto simile, può scappare. Ma è un tipo di commento destinato a trovare sempre più spazio tra le parole e nella mente dei ragazzi, degli uomini e delle donne che percepiscono, al di là della fittissima rete di controllo dei media ufficiali, l’arroganza e il disprezzo per la vita umana che caratterizza la “sproporzionata” (questo l’aggettivo più in voga nei discorsi del nostro Ministro degli Esteri) reazione della politica dello stato d’Israele a fronte del “rapimento” di tre suoi militari.

E’ un tipo di commento che, in qualsiasi caso, non può tuttavia essere giustificato. Perché è sulle parole, anche e soprattutto su quelle del “senso comune”, del commento estemporaneo, del giudizio sarcastico frettoloso, della generalizzazione saccente, che si edificano i risentimenti e le ragioni di un conflitto.

La guerra non è fatta solo di operazioni militari e diplomazie fallite, la guerra si costituisce e si porta avanti nelle parole, nell’apparente formalità d’uso delle parole che, nei fatti, plasmano e distorcono i contenuti e la stessa realtà quando diventano pubbliche; il conflitto che infiamma il Medio Oriente, e che trova costante alimentazione nell’insostenibile situazione israelo-palestinese, ne è un caso emblematico. Per capirlo, prendiamo ad esempio quanto detto fin qui, i termini toccati: le forze armate di Israele, che sono forze di occupazione militare su territori che non fanno parte dello Stato d’Israele, sono definite forze “di Difesa”; l’aggettivo “sproporzionata” viene utilizzato al posto di “illegittima” (reazione, tradotta in invasione di uno Stato sovrano, il Libano, con attacchi diretti ai civili, in totale disprezzo del diritto internazionale[3]); “rapiti”, aggettivo di norma utilizzato per i civili vittime di rapimento, sostituisce (nei grandi media occidentali) un più consono “fatti prigionieri” dato che si tratta di militari in servizio caduti in un’imboscata..

Sembrano dettagli, non lo sono[4]. Questa forma spregiudicata di controllo e propaganda non è assente dall’“altra parte” dove, trascurando le finezze e le sfumature più o meno “laiche”, assume connotazioni marcatamente religiose, almeno nei temi.

Non sono dettagli perché nel momento in cui ci si scopre, in qualità di cittadini di uno Stato sovrano e con un governo democraticamente eletto, giocoforza “partigiani” dell’una o dell’altra, opposta, propaganda – e per scoprirlo basta vedere l’uniformità con cui i media ufficiali ci propinano le notizie - qualsiasi ipotesi di equivicinanza viene a cadere: tecnicamente noi italiani, così come in linea di principio l’Unione Europea, “sosteniamo” la politica dello stato d’Israele[5]. E la politica dello stato d’Israele è in conflitto con la popolazione (perché, non dimentichiamoci, Hamas è stato democraticamente eletto, e per ottime ragioni, e Israele non si è limitato a non riconoscerne l’autorità, ma ne ha arrestato 8 ministri alla fine di Giugno) palestinese che risiede nella West Bank e nella striscia di Gaza.

A questo punto che senso ha indignarsi, da parte dei professionisti dell’umanitario, per la sospensione dei finanziamenti dell’Unione Europea all’Autorità Nazionale Palestinese nel momento in cui è una decisione pienamente coerente con le politiche di sostegno ad Israele? Perché meravigliarsi e denunciare il “tentativo da parte della Ue di sostituire le ONG all’Autorità palestinese[6]” quando il disegno che viene tracciato era chiaro già da prima della vittoria (ufficiale) di Hamas?

Vediamo, nel dettaglio, su quali presupposti si basa questo “disegno”:

  • Israele non può assimilare tre milioni e mezzo di palestinesi: non potrebbe garantir loro gli stessi diritti civili degli israeliani perché perderebbe, nel tempo e in considerazione del tasso di crescita dei palestinesi, la peculiarità di Stato ebraico. Questa compattezza “di razza” artificialmente costituita[7] e militarmente mantenuta[8] consente ad Israele di risultare, da “corpo estraneo” inassimilabile a sua volta, costante fattore di instabilità nell’intera regione mediorientale. Una instabilità che non lascia, ai paesi confinanti, nessuna possibilità di pianificazione dello sfruttamento delle risorse dell’area a tutto vantaggio delle compagnie private sostenute dalle potenze straniere (dagli USA[9] all’Arabia Saudita) che direttamente o meno sostengono la stessa Israele;
  • Israele non può cacciare tre milioni e mezzo di palestinesi, tantomeno eliminarli;
  • Israele non può permettere l’esistenza di uno Stato Palestinese unitario e stabile: sarebbe un grosso rischio per la sua stessa sopravvivenza[10], nonché la perdita di un grosso bacino di consumatori.

A fronte di questi presupposti, la soluzione adottata dalla politica Israeliana a partire dal 1967, e in seguito sempre più raffinata, è stata quella di tenere “in ostaggio” questi tre milioni e mezzo di persone attraverso una serie di finti accordi[11] che hanno portato all’esistenza di una serie di piccole riserve chiuse (le città e le aree urbane della West Bank, ovvero il 22% della Cisgiordania, mal collegate tra loro) e una grande fascia di concentramento, la striscia di Gaza, considerata il più grande ghetto del mondo. Si può capire di cosa sto parlando solo tenendo sotto gli occhi una cartina dell’area[12]: la “Palestina” è un arcipelago di terra, una serie di isole recintate ed occupate dall’IDF e dai suoi check-point. Un sistema di prigioni a cielo aperto, collegate da strade dalla percorribilità limitata, sufficientemente facili da gestire e controllare per un esercito efficiente e ben equipaggiato come quello israeliano.

Abbiamo parlato dei presupposti e delle soluzioni, per così dire, “logistiche”, ma non del “disegno”. Qual è questo disegno, e perché sembra così chiaro?

Il disegno (che in realtà è l’unica soluzione politicamente sostenibile per Israele) è il mantenimento dello status quo in attesa di soluzioni migliori (o, se possibile, in eterno): togliere i fondi all’ANP e metterli nelle mani delle ONG umanitarie è un tentativo di decapitare qualsiasi iniziativa politica da parte dei palestinesi senza farli morire di fame, cioè fare in modo che sopravvivano in queste riserve – già realizzate – al di sopra del livello di povertà grazie agli aiuti umanitari. Fare in modo che sopravvivano senza uno stato, senza iniziativa e senza essere israeliani.

E’ in vista di questo “traguardo” e del ruolo “ibernante” che le ONG finirebbero per assumere in Palestina che va riconsiderato tutto l’intervento umanitario e l’efficacia delle reti di solidarietà: quanto può essere utile mettere in piedi un progetto che non può avere continuità[13], che non può avere senso se non nel breve periodo ma concorrendo, allo stesso tempo, a peggiorare la situazione nel lungo periodo, reiterando l’assenza di iniziativa e, addirittura, ostacolandola? Quanto è utile continuare ad essere supportati da uno Stato che si pone come imparziale ma imparziale non è? Quanto è fattibile portare avanti “sul terreno” un discorso umanitario indipendente dalla politiche nazionali e apertamente critico verso quelle israeliane?

Il rischio è quello di operare, in qualsiasi caso, per consentire a tre milioni e mezzo di persone di sopravvivere senza uno stato, senza iniziativa e senza essere israeliani. La preda migliore per gli interessi delle potenze arabe della regione, una preda già da tempo strumentalizzata.

Ma Israele cosa ci guadagna? Israele qualcosa (molto) ci perde: l’enorme apparato di controllo preposto al mantenimento di questa situazione paradossale richiede ingenti risorse (ad un paese non autosufficiente[14]); un tributo, estremamente circoscritto ma costante, di vite umane; il blocco dello sviluppo della stessa Israele che, oltre a costringere lo Stato ebraico a tenere in ostaggio la sua stessa popolazione, rende improponibile la prospettiva del “mantenimento dello status quo” ad libitum. Senza considerare l’aver messo alla luce due generazioni completamente militarizzate e plagiate da un “paradigma della difesa” che sarà impossibile sradicare. Senza considerare la reazione violenta dei palestinesi, inefficace dal punto di vista militare ma in grado di far vivere gli israeliani in un sistema di allerta e sospetto permanente che sarà difficile sostenere per sempre. Senza considerare che le simpatie verso Israele dell’opinione pubblica occidentale vanno scemando con incredibile rapidità[15], proporzionalmente a quelle dirette verso gli Stati Uniti, con l’aggravante “razzista” legato al retaggio ebraico…

Ecco che spunta, effettivamente, lo spettro di un nuovo antisemitismo – un antisemitismo strano, cervellotico, creato su immagine e somiglianza della brutalità militare israeliana e non sui soliti stereotipi dal naso adunco. I più attenti, però, si accorgono che spesso quello che si vorrebbe far passare per antisemitismo, cioè per un’antipatia genuinamente “razzista”, è in realtà antisionismo, ovvero qualcosa che si pone contro un movimento politico (così come potrebbe essere “antinazismo”), uno tra i più longevi di quei movimenti che, nati in Europa alla fine del XIX secolo, ponevano “sangue e suolo” tra i valori principali da perseguire. Per questa sua componente “razzista”, il sionismo – ovvero l’ideologia di base dell’attuale politica d’Israele - fu giudicato “una forma di discriminazione razziale” dalla risoluzione ONU 3379 del 10/11/1975 (poi abrogata dalla 4686[16] del 16/12/1991 – non appena “terminata” la guerra fredda).

Esistono molti gruppi di ebrei, dagli attivisti per i diritti umani agli ultraortodossi, apertamente antisionisti e in contrasto con le politiche di Israele – nessuno si sognerebbe di chiamarli “antisemiti”.

Sembra questo dell’antisionismo un distinguo di comodo, utile a mascherare una nuova forma di razzismo antisemita, eppure questo distinguo potrebbe tornare utile quando, per contrastare una battuta che inizia con “…peccato che Hitler” sarà facile separare un’ideologia di stampo neocon da una razza e/o religione, ed una causa storica da un suo effetto.

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[1] Gilbert Achcar, libanese, scrive per Le Monde Diplomatique ed insegna Scienze Politiche all’Università di Parigi-VIII (Saint-Denis). Il testo completo dell’intervista, in traduzione italiana, è disponibile all’indirizzo: http://www.zmag.org/Italy/achcar-doppioattaccoisraele.htm .

Per la versione originale (in inglese): http://www.zmag.org/content/print_article.cfm?itemID=10581&sectionID=107 .

[2] Dal 19/6 al 20/6/2005 chi vi scrive ha partecipato, nell’ambito del corso regionale per peacekeeper – mediatori di pace, ad uno stage nella West Bank per monitorare i progetti di cooperazione e sviluppo di organizzazioni non governative italiane e straniere.

[3] Giova a questo proposito ricordare che non è una novità per Israele ignorare le elementari regole del diritto internazionale: ci sono 72 risoluzioni (dalla 93 del 18/5/1951 alla 1435 del 24/9/2002) del Consiglio di Sicurezza [CS] delle Nazioni Unite, più della metà delle quali disattese, che esprimono condanna all’operato di Israele. E’ possibile consultarle tutte in questa pagina del sito delle Nazioni Unite: http://www.un.org/documents/scres.htm. Avendo in mente questa cifra record, resa possibile grazie allo strumento “veto USA”, non senza ironia si può accettare per valida la pretesa di Israele di far rispettare la risoluzione 1559 del 9/2004 sul disarmo delle milizie di Hezbollah relativamente al “nuovo” conflitto in atto.

[4] In proposito consiglierei un testo, “LTI – La lingua del Terzo Reich” di Victor Klemperer [ed. Giuntina, 1998]. Klemperer, filologo nonché ebreo tedesco, scrisse una serie di taccuini, in codice, durante la dittatura nazista. Questo libro, pubblicato nel 1947, li raccoglie in maniera organica, restituendoci il frutto delle osservazioni del professore: il modo in cui la lingua della propaganda (nell’esempio nazista) costruisca nuovi lemmi e nuovi ordini di pensiero, sostituisca vecchie parole a nuovi significati, costringa le stesse vittime del regime a farvi ricorso instaurando un processo di cattività e oppressione non solo fisica ma soprattutto mentale. Il testo è altresì molto interessante perché sottolinea le linee di convergenza tra l’ideologia alla base del sionismo di Herzl e i deliri nazionalsocialistici del Mein Kampf di Hitler.

[5] Basti ricordare, in occasione dei festeggiamenti del 58° anniversario dell’indipendenza di Israele all’Hotel Excelsior di Roma, come l’ex premier Berlusconi ed il neoeletto Prodi si siano trovati uniti nel brindare allo stato ebraico. Berlusconi ha poi dichiarato “L’Italia tutta, non quella divisa in due, non quella del centrodestra e del centrosinistra, sarà sempre al fianco di Israele come baluardo della difesa della sua democrazia e della sua libertà […] Israele è parte fondamentale dell’Occidente ed è un paese europeo […] come capo dell’opposizione sono sicuro di essere in piena sintonia su questi temi con la sinistra che avrà la responsabilità di governo […] Tutti noi, tutti gli italiani, siamo israeliani” [da Il Giornale n.104 del 4/5/2006]. Presenti, per l’occasione, sia Fini – all’epoca ancora Ministro degli Esteri – che D’Alema, il quale ha dichiarato “Su questo tema, la difesa di Israele, non c’è una politica di parte in Italia, ma una posizione che appartiene a tutto lo schieramento politico democratico” [ibid.]

[6] Come risulta da un appello congiunto lanciato, nel maggio 2006, dalle stesse ONG italiane attive in Palestina. Fonte: http://unimondo.oneworld.net/article/view/132989/1/?PrintableVersion=enabled

[7] Sull’assenza di una “costituzione” dello Stato d’Israele e sul modo in cui una manciata di Leggi Fondamentali tengano insieme la contraddittoria definizione di Stato “democratico” ed “ebraico” (generando una pericolosa asimmetria nell’estensione dei diritti civili ad ogni cittadino), segnalo l’articolo “Razzismo democratico” di Jonathan Cook [da Al-Ahram Weekly del 8-14 e 15-21 luglio 2004] disponibile in traduzione italiana qui: http://www.tsd.unifi.it/jg/it/index.htm?surveys/palestin/cook.htm

[8] In Israele la leva è obbligatoria per ebrei, drusi e circassi e dura, a partire dai 18 anni, tre anni per gli uomini e due per le donne. Dopo la leva obbligatoria tutti gli uomini vengono richiamati per un mese all’anno fino ai 45 anni.

[9] Sull’influenza dell’AIPAC – American Israel Public Affairs Committee – (la più potente lobby statunitense - dopo quella dei pensionati) sulla politica estera statunitense, è disponibile un saggio online [in inglese] di J. Mearsheimer e S. Walt: http://ksgnotes1.harvard.edu/Research/wpaper.nsf/rwp/RWP06-011/$File/rwp_06_011_walt.pdf

[10] Eventuali alleanze di questo futuro Stato palestinese con paesi arabi dalle velleità egemoniche (Siria, Iran) sarebbe troppo rischioso per Israele.

[11] “Il cosiddetto processo di pace [del periodo 1991-2001] venne interpretato dalla classe politica israeliana come la continuazione della guerra contro i palestinesi con mezzi politici” Michelguglielmo Torri, curatore de “Il grande Medio Oriente nell’era dell’egemonia americana” [ed. Bruno Mondatori, 2006].

[12] E’ proprio vedendo questa cartina che Arafat rifiuterà la “generosa offerta” di Barak durante gli accordi di Camp David del 2000. Un rifiuto che fece fallire gli accordi e risultò, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, “inspegabile”.

- Occorreranno alcuni mesi prima che si riesca a superare la soglia della disinformazione e a recuperare elementi complessivi che permettano di capire finalmente il rifiuto di Arafat a ciò che mai nessun governo israeliano gli avrebbe proposto. La prima difficoltà che ci viene incontro è che per lungo tempo dopo il vertice non si sono mostrate carte geografiche che permettessero di capire quale tipo di stato veniva “generosamente” offerto da Barak ai palestinesi. Si sarebbe così visto che il territorio della Cisgiordania appare spezzettato dalle colonie israeliane in tre aree, per due delle quali non c’è nessun collegamento se non attraverso strade dello stesso Israele, che possono essere chiuse a discrezione del governo israeliano – in Margherita Platania, “Israele e Palestina” [ed. Newton, 2005]

All’indirizzo http://www.khalas.it , nell’area download è possibile trovare una raccolta di cartine della West Bank e di Gaza.

[13] Un’attività di microcredito, quando ben programmata e realizzata (cosa già di per sé non facile), indubbiamente ristabilisce possibilità di produzione precluse dalla situazione palestinese. Ma quante attività possono aspirare alla continuità in una situazione così precaria? Le poche che ho visitato sono terminate nell’arco di due-tre mesi successivi senza lasciare traccia.

[14] Ma che riceve dagli USA 3 miliardi di dollari l’anno in assistenza diretta (senza contare gli aiuti in materiale bellico e in informazioni di intelligence).

[15] Anche perché il sistema di controllo delle informazioni viene duramente provato dall’esistenza di Internet…

[16] Ci sono dei dettagli interessanti riguardanti questa risoluzione:

  • è tra le risoluzioni ONU dal testo più corto in assoluto (“The general assembly decides to revoke the determination contained in its resolution 3379 (XXX) of 10 November 1975”)
  • fu chiesta e introdotta personalmente da Gorge Bush padre con una formula (l’uso strumentale dell’olocausto) che poi diventerà nota: “…to equate Zionism with the intolerable sin of racism is to twist history and forget the terrible plight of Jews in World War II and indeed throughout history.”

Su Wikipedia è disponibile una buona parte del discorso introduttivo del presidente Bush, molto interessante per rintracciare i forti legami tra il sionismo e i neocon statunitensi:

http://en.wikipedia.org/wiki/UN_General_Assembly_Resolution_4686