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Storia di Shamil, il santo guerriero che sfidò gli zar

di Pietrangelo Buttafuoco - 18/02/2014

Il terrore dei russi La ribellione che incendiò il Caucaso nel 1800 avvenne dove oggi si svolgono le Olimpiadi. Fu un autentico scontro di civiltà


Krasnaja Poljana, 8 ottobre 1991. Nevica su Roza Chutor e il vento, che si porta tutto quel bianco sulle cime del Caucaso, segue la schiena di un soldato dell’Armata Rossa. L’insubordinazione è in atto. Dietro di lui – scalzi, con i cappotti a far da tappeto – altri trentasette soldati. Sono in preghiera. Solo nove uomini restano in piedi, smarriti davanti a quella scena. Igor Man, inviato de La Stampa, nei giorni del crollo dell’Unione sovietica detterà al telefono una verità molto complicata: «L’Armata Rossa è il più potente esercito musulmano». Con il rosario al polso, gli uomini in arme gorgogliano i Novantanove nomi di Dio, rinnovano la tariqa (la via mistica dei sufi) e – giusto in quella radura, nel territorio di Krasnodar, la stazione invernale di Sochi – fanno menzione di Imam Shamil, il santo.
L’insubordinazione non avrà esiti in fureria. Doku Zagaiev, segretario del partito comunista ceceno, ha già presentato le proprie dimissioni da un mese. Djokhar Dudaiev ha preso il suo posto e offre a Boris Eltsin, per le opportune scaramucce nei giorni del golpe, i riservisti ceceno-ingusci della Repubblica, che però non arriveranno a Mosca. Tornati ai propri villaggi – dopo ottanta anni di materialismo scientifico – potranno proclamare ilghazawat, ovvero il Jihad d’indipendenza nel nome di Shamil, il Leone.
Imam durante la Guerra caucasica, dal 1834 al 1859, Shamil – il santo che ancora oggi dà il nome ai ceceni – fu per i russi quello che Osama Bin Laden è stato per l’Occidente: un incubo, al quale però i francesi e gli inglesi, durante la Guerra di Crimea, guardarono con ammirazione fino a farne un eroe romantico. Shamil – il terrore dei russi – è il brigante delle impervie sommità che diede l’alfabeto alle tribù da sempre divise, impose la legge ai clan il cui unico credo era il sangue, e volle una tipografia in ogni borgo, costringendo alla modernità coloro i quali, nei secoli, dediti alla durezza della vita selvatica avevano dimenticato la scienza e la parola. Alexandre Dumas lo descrisse in Viaggio tra i ribelli ceceni. In lui vide 'la Guerra santa'. In Gran Bretagna, invece, lo raccontarono nelle gazzette e nei libri con il metro di Thomas Carlyle: l’eroe.
Eroe in una battaglia impari, Shamil. Il suo pugnale contro l'artiglieria, la sua tunica di maestro sufi contro le uniformi di Sua Altezza Imperiale, lo Zar. La sua è una storia di requisizioni di beni, persecuzioni, incendi, migrazioni forzate. E se la Russia ha fatto del Caucaso un destino di due secoli di guerra senza pace, in Shamil – nella sua storia, nella leggenda che vive in film, in fumetti – l’Aquila a Due Teste di tutte le Russie ha specchiato se stessa. «Giudicate il futuro a partire dal passato», diceva Shamil ai suoi confratelli, i murid sufi. «Onorate la Russia a partire dal suo più fiero nemico», proclamò lo Zar Nicola I quando ai propri ufficiali presentò Shamil, ormai prigioniero, per tributargli onori militari e una scorta di guerrieri avari per accompagnarlo a Mecca, in pellegrinaggio, e poi in esilio a Medina, dove oggi i ceceni vanno a pregare sulla sua tomba e dove non è mai cresciuta l’erba che cancella il ricordo.
È il “cimitero degli invasori”, il Caucaso. Le donne non sposano un uomo se prima questi non ha ucciso un nemico, è un magnete di fuoco e di cuore se perfino un domenicano italiano, Giovan Battista Moetti, arrivato in Cecenia nel 1773, tornò all’Islam con il nome di Mansur Ushurma per combattere i cosacchi e trovare il martirio. Padre Moetti, preda della follia di Dio, amò l’irriducibile libertà ai piedi delle madri. E sono quelle donne oggi trasfigurate nella macabra maschera delle vedove nere, imbottite di tritolo e di odio wahabita, l’eresia dell’ortodossia letteralista che tradisce la dolcezza sufi e la fierezza militare di una storia che con Shamil – già formato all’insegnamento coranico, studioso di retorica e logica – fu conoscenza del cuore, misericordia e onore al punto di saper sopportare l’atroce strazio del figlio di pochi mesi, raggiunto da un proiettile russo, mentre lo portava in braccio saltando da una roccia all’altra per aggirare l’agguato dell’invasore. Quello stesso giorno, ad Akhulgo, dopo aver dato sepoltura al proprio pargolo, Shamil portò alla vittoria la sua gente. E pregò: «La preghiera», scriverà Tolstoj in Chadzi-Murat,
descrivendone il carisma di capo spirituale, «era per lui stesso così indispensabile come il pane quotidiano».
La storia di santo e di guerriero di Shamil inizia quando – ancora giovanissimo, figlio di un’agiata schiatta di mercanti di origine àvara – trova un recinto in un remoto pascolo. E’ l’abominio: all’interno di quello steccato, esseri umani vengono allevati al modo delle bestie, allo scopo di riprodursi. Sono privati di qualsiasi barlume di coscienza, destinati al mercato degli schiavi, sorvegliati da guardiani ben contenti di ingravidare le donne e sempre attenti a evitare che, in preda a chissà quale feroce istinto, i maschi tra i prigionieri più forti possano uccidere i deboli o divorare i neonati.
Quel campo è una pozza di orrore. La stessa scena, nello stesso momento, è sotto gli occhi di un giovane russo, fresco d’accademia: il principe Alexander Baryatinsky, al comando di una pattuglia russa. Si accorge di Shamil e, quando lo vede lanciarsi con il pugnale alla gola di uno dei guardiani, comanda l’assalto ai propri uomini per dare man forte al ceceno. Eliminati i guardiani, il principe e ilmuridsi adoperano per liberare i prigionieri, che non riescono ad alzarsi dai loro giacigli avendo ormai atrofizzata l’anima: «Sono come nella grotta di Platone», disse Shamil sfoggiando il greco antico appreso nella madrassa di Ghazi Muhammad, «si sono nutriti di ombre e adesso devono svegliare in sé la luce».
Baryatinsky e Shamil si incontreranno ancora. Il principe diventerà generale, il murid sarà proclamato terzo Imam. La Guerra caucasica, dal 1834 al 1859, li vedrà protagonisti, a capo dei rispettivi eserciti. Shamil sarà leggenda e Baryatinsky, il vincitore, non potrà che riconoscere nel santo guerriero il più degno dei nemici. Duello di incontri, quello tra il soldato russo e il Leone del Daghestan: legame profondo dove i confini della più irriducibile ostilità cederanno al campo della più specchiata lealtà. Un figlio di Shamil verrà preso ostaggio e lo Zar, a dimostrazione della superiore civiltà dei cristiani, vorrà farne un ufficiale del proprio esercito, accogliendolo tra i cadetti dell’Aleksandrivskij di Carskoe Selo. Alexandra Lapierre, in Tutto per l’onore(Il Saggiatore), racconta la fatica di questo reciproco riconoscimento di due nemici, al punto di voler rischiare, lo Zar, di consegnare, con l’ostaggio, un nuovo guerriero all’Islam, e questa volta un nemico cui l’arte russa delle armi – rischiando, alzando al massimo la posta della lealtà – ha insegnato tutto.
Carskoe Selo, 12 dicembre del 1839 del calendario giuliano. Il figlio del nemico deve tornare nel Caucaso. Lo Zar giunge a cavallo nella stazione ferroviaria della guarnigione militare e impartisce un ordine alquanto complicato: «Circondatelo di amici». Il cadetto, cui il sangue degli antichi avari colora di guizzi barbari il volto, torna nelle sue montagne dopo aver dato la giovinezza allo Zar. Sulla banchina della stazione è tutto un baluginare di ammirazione e lampi. Sono i bagliori delle sciabole nel present’arm. Salutano lo sbuffo del treno in accelerazione, mentre tutti i suoi camerati di corso, inquadrati, cantano l’arrivederci “Confidando in Dio”. Il ragazzo toglie l’uniforme dell’accademia e indossa la tunica dei murid solo quando il muso del treno comincia farsi largo tra i binari innevati del Daghestan. Ad attendere il convoglio, con Shamil, ci sono dei prigionieri russi. Tra loro, velate, le principesse di Mosca. Scende l’ostaggio e comincia lo scambio. Prima le donne. Shamil si profonde in un inchino e, a dimostrazione della superiore civiltà dei musulmani, così dice al nemico, a Baryatinsky: «Ve le restituiamo pure come gigli».
Fu scontro di civiltà. A dimostrazione della superiore lealtà dei guerrieri. E dei santi.