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Del "renzismo" e del "putinismo": il cambiamento tra apparenza e realtà

di Gian Maria Bavestrello - 16/03/2014

Fonte: heimat

Se potessi avere 1000 euro, in più, l’anno. Per risalire la china della popolarità, Matteo Renzi fa il verso a una celebre motivo di Gilberto Mazzi, del 1939, andando a pescare nella memoria popolare e dunque nelle viscere della società italiana. O di quel che ne resta. C’è chi, durante questa crisi, per stimolare le coscienze ha paragonato l’Italia di oggi a quella uscita dal secondo conflitto mondiale, iniziato proprio nel 1939, dimenticando che quell’Italia, ricca di energie, di usi, costumi, speranze e giovani, oggi non esiste più. Il Paese a.d. 2014 è vecchio, corrotto e stanco; si inorgoglisce addirittura per l’oscar alla “Grande Bellezza” di Sorrentino, in cui lo splendore di Roma è la “fotografia” che emerge in controluce dal vuoto spinto, disgustoso e mefitico di un’intera società avvelenata dalla vanità, dall’egoismo, dalla cupidigia e da un libertinage etereo e capriccioso.

E’ un’Italia che, non riuscendo a ripensarsi come nazione e a rimettere in discussione le proprie fondamenta, si aggrappa a una manciata di simboli: a Matteo Renzi, effige di un rinnovamento e di una ri-generazione solo apparenti; e a un numero, 1000, che da sempre (e anche nella canzone del Mazzi) evoca quel mero “flatus vocis” da anni in bocca a tutti: cambiamento.

1000 euro in più, a chi già un lavoro lo ha, non cambiano nulla. Come non cambia granché una nuova legge elettorale. E non è nemmeno un inizio, perché il problema italiano non è economico e nemmeno politico, almeno in prima battuta. E’ morale.

L’Italia che sognava 1000 lire al mese, capace poi di vincere la sfida del boom economico ma non di resistere all’avvento di un’etica individualista, disinibita e volgare, culminata nell’avvento delle televisioni commerciali, era l’Italia che conosceva il valore del risparmio e della famiglia, non solo come unità sociale ma anche economica. Un binomio che ha reso possibile l’esplosione della piccola e media impresa nel Nord. L’Italia di oggi è costruita invece sul debito, tassa il risparmio e la casa e chiama mamma e papà genitore 1 e genitore 2, all’apice di un nichilismo che per la prima volta, dopo decenni di pensiero unico di matrice liberal, sembra poter essere messo in discussione da un nuovo fantasma che si aggira per l’Europa: il fantasma del putinismo.

Vladimir Putin è l’uomo che sfida l’Occidente sul piano ideologico, con un radicalismo che lascia emergere, dietro la crisi ucraina, uno “scontro di civiltà” tra “valori antagonisti”, per usare le parole scelte, non a caso, dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. E non lo sfida dall’esterno dichiarandosene nemico, come il fondamentalismo islamico, ma dall’interno della civiltà europea, per riscattarla e non per distruggerla.

Ha ragione Anna Zafesova, su Il Foglio di venerdì 14 marzo, a vedere nel putinismo una nuova ideologia che terrorizza e seduce allo stesso tempo l’Europa. Terrorizza coloro che in Vladimir Putin vedono il campione di una visione conservatrice della politica capace, questa volta, di sprigionare non la sterile potenza di qualche ciclostilo redatto da circoli di periferia ma la potenza di fuoco di un esercito. Seduce chi, anche inconsapevolmente, si accorge che al suicidio demografico e spirituale dell’Europa non si può che opporre una nuova visione imperiale, che molti amano definire “eurasiatica”, e che poggia le proprie fondamenta su valori “fuori dalla realtà”, come li ha definiti non a torto Angela Merkel. Fuori dalla realtà, in un altro mondo, dormienti e in attesa di essere richiamati dalle viscere della storia.

La sfida del cambiamento si gioca a questo tavolo, non a quello dei “gattopardi” di casa nostra. Con una posta in gioco ben più cospicua di 1000 euro l’anno o di una nuova legge elettorale.