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Enrico Brignano Versus Maurizio Crozza. Mondi lontanissimi?

di Eugenio Orso - 16/03/2014

Fonte: pauperclass


Non sono un esperto di spettacolo, cinema, cabaret, sceneggiatura e recitazione. Certo, appartenendo a una generazione del dopoguerra che ormai invecchia rapidamente (anni cinquanta), mi ricordo molto bene di Totò, di Fabrizi, dei “Peppone e Don Camillo” classe 1899, che sono ancora fra i miei preferiti, assieme al grande cinema della stagione neorealista. Ho vaghi ricordi di quando la televisione, che allora era solo la Rai erede dell’Eiar, non faceva tele-spazzatura narcotizzante, ma programmi d’intrattenimento piuttosto ingenui, di svago, dal vago sapore popolaresco come Canzonissima e Il Musichiere. Programmi ancora in grado di interpretare un certo “spirito popolare” sopravvissuto alla devastazione della guerra. Quella era un’altra Italia, da ogni punto di vista, e il mondo di allora non era “globalizzato” come quello di oggidì, sulla via di un’omologazione senza scampo. Un “piccolo mondo antico”, ostinatamente legato alle tradizioni, a una cultura popolare sopravvivente. Immerso nel mondo geopoliticamente diviso fra blocchi contrapposti, con alcune isole che avevano un po’ d’indipendenza.

Un mondo minore, fatto di bucatini e fettine panate, di utilitarie Fiat e vita di quartiere, di famiglie popolane e legami solidaristici profondi, che ancora si contrappone – caparbio, antico – a un mondo nuovo e diverso, in cui il vecchio “spirito popolare” non ha più cittadinanza e luogo. Un mondo buono (o meno cattivo), ma non quello artefatto nei commerciali del Mulino Bianco, da opporre a un mondo cattivo (o meno buono) che si nutre di Spettacolo in senso debordiano, di crisi perpetua e paura, di perdita dell’identità e dominio dei flussi economico-finanziari.

Ci sono veramente due Italie lontanissime? Un paese vero, di carne e sangue, che resiste – ma sempre meno, tendendo a scomparire – a un paese delle meraviglie mediatiche, destinate irrimediabilmente a rovesciarsi, oltre lo schermo, negli orrori neocapitalistici del presente, nel degrado, nel profondo corrompimento. Spirito e tradizioni popolari rappresentano una resistenza estrema al cambiamento in peggio, alla trasformazione dell’Italia in “società aperta di mercato”, smemorata e irriconoscibile, in un processo che oggi rischia di compiersi? Sicuramente un ribadire fuori tempo massimo l’orgoglio nazionale e le specificità culturali, opponendoli al nuovo che avanza, per scongiurare una società fatta di individui che assistono, impotenti, allo Spettacolo. Forse esagero, può essere che enfatizzi troppo, lasciandomi andare a riflessioni stravaganti, ma in ciò ravviso la contrapposizione fra due dei nomi più noti dello spettacolo e della televisione: Enrico Brignano e Maurizio Crozza.

Enrico Brignano, con una pesante inflessione dialettale da romano de borgata, la chioma corvina e un principio di pancetta, lo sguardo da bravo ragazzone ingenuo (oggi quarantasettenne) che non farebbe male a una mosca rappresenta la prima Italia, quella più antica, animata dallo “spirito popolare” e legata alle tradizioni locali. Un’Italia che pare giunta al capolinea, travolta dal cambiamento di evo nel passaggio al terzo millennio, ma che sopravvive ancora e qualche volta fa sentire la sua voce.

Maurizio Crozza, pelato come una palla da biliardo (secondo una certa moda), sguardo furbo di chi la sa lunga, professionale e performante nella sua arte, presentatore, imitatore, attore, cantante, cabarettista e monologhista, non fa satira e non fustiga i potenti con le sue battute come appare. Fa politica pienamente inserito nello Spettacolo (quello con l’iniziale maiuscola, in senso debordiano), e quindi è assolutamente moderno, in linea con lo spirito dei tempi. Non più con un autentico “spirito popolare”.

Anche Brignano non può sfuggire allo Spettacolo, controllato da chi ha veramente il potere (come ci ha insegnato Guy Debord). Lui però è vecchio. Non lo è anagraficamente essendo sotto i cinquant’anni, ma appartiene al mondo dei Proietti, ancor di più a quello datato dei Fabrizi e dei Manfredi, cioè all’altra Italia, quella che ha vissuto il novecento. E’ nato troppo tardi, Enrico Brignano, perché, altrimenti, uno come lui avrebbe avuto l’onere e l’onore di far da spalla al grande Totò, o all’amatissimo Aldo Fabrizi. E di sicuro, affrancandosi dai maestri, avrebbe bucato gli schermi del cinema di allora.

Visioni opposte che non si conciliano, distanti come mondi lontanissimi. E non crediate che “sono solo canzonette”, o boutade di mestieranti del teatro, o sketch televisivi. Crozza, perfettamente a suo agio davanti all’occhio delle telecamere, padrone del palcoscenico con lo sguardo ammiccante da furbetto, umanizza in modo subdolo gli esponenti di una “classe politica” che dire sputtanata è poco. Li rende umani e perciò più vicini al resto del paese, dal quale sono sempre più distanti. E dal quale sono disprezzati. Ma il genio di Crozza in qualche modo riesce a rilegittimarli legittimando l’intero sistema (dello Spettacolo). Anche quando ci pare critico e graffiante, non fa la buona vecchia satira politica, come un Petrolini ai tempi del fascismo. Non sta dalla parte delle classi subalterne, perfettamente inserito com’è negli apparati dello spettacolo, che lo gratificano con il successo. E’ riuscito persino a umanizzare e giustificare, nei suoi sketch, uno come Napolitano, che rappresenta il potere minore e subalterno, antipopolare per definizione e spietato con il popolo. Uno che è al servizio, a tempo pieno, delle oligarchie del denaro e della finanza. O a far digerire al pubblico ancor di più l’”outsider” Matteo Renzi. Uno che già di suo da spettacolo in politica, calamitando il consenso dei gonzi. Berlusconi, invece, lo ha massacrato un po’ troppo, “umanizzandolo” in chiave negativa, criminalizzandolo simpaticamente sugli schermi. Ma va bene così, destinato com’era, Silvio, all’emarginazione nei salotti del potere che contano.

Uno come Crozza è utile, perché nasconde con grande abilità il male rendendogli una dimensione umana, ne esalta i difetti e i tic irrilevanti per nascondere la sua sostanza. E’ molto bravo Crozza nel suo lavoro, è un guitto geniale e un attore performante. Conosce le nuove tecnologie, le usa e le sfrutta, recuperando battute ad effetto persino dai tweet (#copiaeincrozza). La politica filtrata dal comico occupa con prepotenza il palcoscenico, ed è una presenza così invasiva che qualcuno, dal pubblico, una volta ha trovato il coraggio di gridargli “basta!”. Cosa possiamo aggiungere? Sappiamo che di questi tempi è facile e conveniente servire il sistema. In certi ambienti, come la televisione, è scontato e obbligatorio. Il difficile è però servirlo fustigandolo sulla scena, o fingere di farlo senza tradirsi. Una sorta di Grillo in potenza, il nostro, che però ha deciso di stare al suo posto, fiancheggiando questa politica senza la velleità di entrarvi.

Brignano è un discorso diverso, molto diverso, praticamente opposto. Lui più di ogni altro simboleggia lo “spirito popolare”, quello della vecchia Italia soccombente. Porta in tournée spettacoli come Il meglio dell’Italia e interpreta “dal basso” le pulsioni popolari, quelle più sane che satireggiano il potere senza secondi fini. Compare nella serie televisiva dei Cesaroni che ricorda vagamente, in altro clima storico e culturale, La famiglia Passaguai dei primi cinquanta con Aldo Fabrizi e Ave Ninchi. Rispolvera il Rugantino, che guarda caso è una maschera romana, della Roma papalina, e ne cura la regia rispettando l’originale di Garinei e Giovannini. Gratta il bullo e sotto ci trovi il Brignano, un bonaccione amabile e simpatico. Nel commerciale della Lavazza, qualità rossa, prende il caffè in paradiso, fra le nuvole, con la sorella di spot (l’attrice Paola Cruciani), rendendoci piacevoli scenette di vita quotidiana. Usa il romanesco e non nasconde le inflessioni dialettali. Anzi, le esalta. Pochi esotismi nei suoi monologhi. Molta spontaneità. Non proprio un prepolitico, ma sicuramente meno “politicizzato” e coinvolto nel sistema di un Maurizio Crozza.

Anche Brignano è bravo, quanto lo è Crozza se non di più, e sta sul palcoscenico come un mattatore bonario che parla direttamente al popolo, toccando le corde profonde. Lo fa con lo sguardo rivolto al passato, alla “perduta Arcadia” delle gite fuoriporta su utilitarie e furgoncini stracarichi di vivande, ma attento anche al presente e allo “share”. La politica, per lui, non è la vita e non diventa un’ossessione, e perciò quando se ne occupa la filtra con il colino della quotidianità, e dell’eterno sospetto popolare verso i potenti. Il rapporto con la politica di sistema che rivela Enrico Brignano, per quel che capisco, è ben descritto in una godibile poesia del Trilussa, intitolata appunto La politica. Anche in famiglia da sempre ci si accapiglia per questo. “Prima de cena liticamo spesso/ pe’ via de ‘sti principi benedetti/ chi vò qua, chi vò là … Pare un congresso!/ Famo l’ira de Dio! Ma appena mamma/ ce dice che so’ cotti li spaghetti/ semo tutti d’accordo ner programma.”

Attenzione, però, a distinguere in modo netto i buoni dai cattivi, perché ci sono sempre, e soprattutto sulla scena, i chiaroscuri. Se Crozza è immerso fino al collo nello Spettacolo – quello con la esse maiuscola, manovrato dal potere – nel calderone mediatico-istupidente anche un Brignano ha la sua funzione. La funzione di imbonire l’altra Italia, più antica e tradizionale. Deve favorire la coesione e tenere alto, con le scenette, l’orgoglio nazionale. Non umanizzare i politici di ultima di un sistema disumano, come fa Crozza, ma lisciare il pelo al popolo, quello che ancora si riconosce in valori più tradizionali.

Brignano e Crozza, mondi lontanissimi? Espressioni artistiche di paesi diversi? Forse, ma il manovratore dello Spettacolo, il “grande vecchio” del sistema è sempre quello, la sorgente del potere che lo controlla è quella e non si scappa, sia per Crozza che per Brignano.