Solitudine o alienazione? La malattia dell’uomo moderno
            di Ippolito Emanuele Pingitore - 26/03/2014
        
                  Fonte: L'intellettuale dissidente
           	 	 	 	 	 		 			 	 	 	 		 			 	 	 					 		
Se  il progresso fosse davvero alla portata dell’uomo, non staremmo qui a  riflettere in poche righe degli errori in cui inciampa il “progressismo”  nella speranza di condurre l’uomo al di fuori <<dello stato di  minorità che egli deve imputare a se stesso>>. Sarebbe più giusto  affermare che la crisi non riguarda il progresso raggiunto dall’uomo: il  risultato dovrebbe in linea teorica confermare l’affermazione. Salvo  poi i casi in cui il progresso altro non ha fatto che condurci in questo  miserabile stato di cose tali per cui dovremmo domandarci circa  l’esatto significato del termine. Se poi con l’invenzione della bomba  atomica abbiamo costruito una trappola per topi, dovremmo rimettere in  discussione la voce <<progresso>>. Ma non è questo il punto.
  La crisi di valori della società occidentale investe ovviamente le  posizioni ideologiche. In un’epoca in cui l’uomo si sente disperso,  privo di un riferimento certo, in un mondo in cui non esiste una verità  cui appigliarsi si spera sempre in qualcosa di nuovo, e questo qualcosa  viene battezzato come un passo in avanti, poco importa se positivo o  meno. L’unica certezza è la solitudine dell’uomo. Un uomo sempre più  abbandonato a se stesso, inerte dinanzi ai mutamenti politici,  impossibilitato ad agire a causa di forze esterne. La crisi dell’uomo è  la crisi egologica di uno spettatore che assiste alla scena senza capire  i meccanismi della trama, che vive la dispersione e la paura e che si  estranea totalmente dalla vita sociale. Un uomo che esegue  meccanicamente le operazioni imposte: dal lavoro ai condizionamenti  sociali un uomo alienato la cui abilità consiste nel gestire  settorialmente il suo ambito senza nessuna comunicazione che vada al di  là della rigorosa aritmetica imposta dalla società.
  Parole vuote, forse, ma che si pongono sulla scia di quella  operazione già tracciata da Marx quando vedeva nel sistema di produzione  industriale il primo passo verso la automatizzazione e la conseguente  alienazione dell’uomo. La nostra epoca è diversa da quella di Marx, ma i  sistemi, certo più sofisticati, sono sempre i medesimi. Basta dare  un’occhiata alle proposte “più allettanti” di lavoro (cioè quelle  mediamente più puntuali nella consegna della paga) che consistono  proprio nella ripetizione costante delle medesime pratiche: giovani  impiegati nei call center, operai al servizio nei fast food, operatori  di ogni genere. Ovviamente si tratta di lavoratori che vivono in uno  stato di precariato asfissiante – questo sì che ce lo chiede l’Europa – e  che quindi sono considerati dalle aziende puri numeri, sostituibili con  qualsiasi altro precario in attesa di uno stipendio che rasenta  mediamente gli ottocento euro mensili. Un uomo che vive di incertezze  come può non vivere l’eterna dispersione? La settorializzazione del  lavoro reca in sé il germe della meccanizzazione.
 Il lavoro è solo uno dei primi aspetti e forse rappresenta il primo  anello della catena giacché gli altri fenomeni si possono benissimo  ricollegare a questo. Persa la nobilitazione umana che deriva  dall’attività il lavoro viene vissuto come un frustrante servizio nei  confronti del datore. Il lavoro non è più un diritto, ma prima di tutto  un dovere da svolgersi secondo tutti i limiti e le imposizioni  possibili. È sempre più crescente il numero di lavoratori che cercano  sostegno psicologico o sostegno clinico presso psichiatri per problemi  legati ad insoddisfazione percepita nella propria attività. Ma questa  insoddisfazione cosa è se non l’effetto di una vessazione costante  subita dalla routine delle pratiche lavorative e dallo spazio vitale  soffocato dalla meccanica monotonia?
  Ecco che l’uomo si disperde, con la corda alla gola finisce per  soffrire la paura di un mondo che opprime. Un presente incerto, un  futuro senza nessuna chiarezza, nessuna aspettativa per i propri figli.  Come se non bastasse l’uomo che vive in dipendenza da altri è costretto  in questo stato di cose ad illudersi del fatto che la sua volontà possa  valere qualcosa. La <<realtà effettuale>> è però diversa:  noi semplici uomini non siamo che burattini in mano a chi detiene il  potere politico. Si badi bene, un potere non inteso come medium in vista  di magnanimi fini, bensì come fine a se stesso e ad un’aristocrazia  monetaria che si serve del popolo solo per legittimare la violenza del  proprio potere. È quello che accade in Europa, in America, nel mondo del  capitalismo, laddove il potere è detenuto da grandi gruppi industriali,  dove le politiche dei governi sono condizionate dalla volontà delle  corporations e delle lobby e dove l’uomo si percepisce alienato rispetto  a se stesso e alla società: un uomo in balia del nulla.