Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Storia dei Balcani dai primordi alla guerra imperialista

Storia dei Balcani dai primordi alla guerra imperialista

di Francesco Dimiziani - 06/04/2014

Fonte: millennivm


Milosevic_2


 

“E’ difficile credere, anche vedendolo con i miei occhi, che alla fine del XX secolo, una delle capitali europee, Belgrado, era sotto attacco missilistico per molte settimane, e dopo venne il vero intervento. C’era una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu su questo, che autorizzasse queste azioni? Niente del genere.” (Vladimir Putin, discorso all’Assemblea federale di Vladmir Putin del 18 marzo 2014)

 

Introduzione

Le analogie nella storia sono molte, ma spesso gli esiti di eventi simili nella struttura possono essere diversi. E di fronte agli eventi che stanno sconvolgendo l’Ucraina e determinati equilibri internazionali, bisogna riflettere sul passato, per avere una più chiara visione delle dinamiche e dei meccanismi internazionali che si sono azionati ieri ed oggi ed osservare come svolterà molto probabilmente il corso della storia. I Balcani sono da sempre il centro tra Occidente ed Oriente, un tramite fondamentale nel corso della storia per ogni impero, da quello romano fino a quello austro-ungarico, l’Impero russo e, durante la Guerra Fredda, per USA e URSS.  Lo studio della storia di questo paese non può essere sintetizzato in un articolo, perché è culturalmente e storicamente un universo unico, diviso tra cattolicesimo, islam e cristianesimo ortodosso, e tra Occidente ed Oriente, fattori culturali genesi di grandi eventi della Storia.

 

Breve storia dei Balcani

La penisola Balcanica, era abitata prima del III secolo a.C. dal popolo degli Illiri, che la resero terra fertile nelle vicinanze del mare, e produttiva nel primo entroterra. Gli Illiri abitavano un territorio corrispondente approssimativamente alla ex-Jugoslavia e all’Albania. La tribù che diede il nome alla Dalmazia abitava gran parte dell’odierna Bosnia occidentale. Gli Scordisci, un gruppo misto illirico-celtico, abitavano nella Bosnia nord-orientale. Fra il terzo secolo a.C. e l’anno 15 d.C. i Balcani furono conquistati dall’Impero romano. Le tribù che vi stanziavano, tra cui gli Illiri e i Traci e i Daci furono vinte e romanizzate. Gran parte del territorio della Bosnia fu incluso nella provincia romana di Dalmazia. La parte settentrionale della Bosnia fu integrata nella provincia della Pannonia, che comprendeva la Croazia nord-orientale e l’Ungheria meridionale. I Romani costruirono strade ben attrezzate che composero un’articolata rete di circolazione. Nel 9 d.C. si ebbe l’ultimo tentativo insurrezionale degli Illiri. Attraverso i Balcani si snodavano importanti vie commerciali dirette in Oriente. Lungo questi importanti tratti furono fondate numerose città: Siscia (Sisak), Naissus (Nis) e Scupi (Skopje).  Grandi imperatori romani furono di origine illirica: Traiano Decio (da Budalia vicino a Sirmium), Aureliano (da Sirmium o dalla Mesia), Probo (da Sirmium), Diocleziano (da Salona – Spalato), Massimiano (da Sirmium), Costantino (da Naissus – Nis), Gioviano (da Singidunum – Belgrado), Graziano (da Sirmium).

Nell’anno 330, su ordine dell’Imperatore Costantino fu fondata Costantinopoli, sulle rovine della colonia greca di Bisanzio. L’Imperatore portò avanti la tradizione romana secondo costumi greci. L’Impero bizantino divenne il modello per gli stati europei che volevano assurgere al ruolo di potenze “mondiali”.  Nell’anno 395 avvenne la divisione dell’Impero romano. La linea che separava il regno in Impero romano occidentale e Impero bizantino ha una grossa importanza storica per il futuro dei Balcani. Il confine correva dalla Sava lungo la Drina fino alla costa adriatica, all’altezza di Kotor (Cattaro) e da questo momento in poi i popoli balcanici seguirono uno sviluppo diverso: coloro che abitavano nella parte occidentale si indirizzarono verso Roma, verso Bisanzio invece coloro che stavano ad Oriente.  Attorno al 690 d.C. tribù slave immigrarono nella zona fra l’Adriatico e il Mar Nero, scacciandovi la popolazione romana. Alla fine del settimo secolo Sloveni e Croati e dall’altro Serbi e Bulgari, fondarono i propri stati nel territorio che fino ad allora era appartenuto all’Impero romano che, con la conversione al cristianesimo. I primi entrarono a far parte della zona d’influenza della Chiesa romana, i secondi della Chiesa greco-ortodossa (da notare come il contrasto tra cattolicesimo e cristianesimo ortodosso, così come con l’Islam, sarà una caratterizzante perenne). Nel 748 Carlo Magno sottomise la Slovenia e poco dopo anche la Croazia. Nell’anno 1054 ci fu il Grande Scisma e Costantinopoli divenne il centro della Chiesa Ortodossa.

Nel decimo secolo i Croati fondarono un proprio impero, il quale però non conservò a lungo l’indipendenza  e dal 1102 essi entrarono a fare parte dell’Impero asburgico. Nel dodicesimo secolo i Serbi ottennero l’indipendenza dall’Impero bizantino e sotto lo Zar Stefan Dusan l’Impero serbo conobbe il suo momento di massima espansione: si estendeva dall’Olimpo greco quasi fino al Danubio, dove si trova la città di Belgrado. Il nucleo dello stato che verrà più tardi fondato fu il Kosovo, cuore della Serbia. Nel quattordicesimo secolo,  un possente esercito ottomano invase l’Europa. Nell’anno 1389 si ebbe una decisiva battaglia a Kosov Polije (Campo dei Merli), circa 77.000 fra cavalieri e soldati cristiani si schierarono contro gli invasori, in netta superiorità numerica. A capo di questo esercito era il principe serbo Lazar ed alla fine della battaglia, a fianco del loro principe decapitato dai turchi, giacevano morti sul campo innumerevoli giovani serbi. Questi uomini avevano però combattuto con tale coraggio d’arrestare l’avanzata islamica in Kosovo. Quando un gruppetto di cavalieri venne a sapere che il loro principe era stato ucciso, attaccarono a cavallo l’accampamento nemico, entrarono nella tenda del comandante turco Emir Murad I e lo uccisero. Alla fine anche questi eroici cavalieri morirono in battaglia. Molti teologi considerano oggi il sud della Jugoslavia come il luogo sacro del più grande martirio cristiano d’Europa. Ecco perché da più di seicento anni il Kosovo rappresenta per i serbi la “Terra Santa” e la festa nazionale serba, San Vito, è in ricordo di questa battaglia (il giorno di San Vito ricorrerà più volte nella storia serba, in ultimo, per l’incarcerazione di Milosevic, vista dal Popolo come un affronto dell’imperialismo alla dignità della Nazione sovrana). Dopo l’eroica battaglia i Turchi dominarono per molti secoli sulla Serbia e su parte del Montenegro. La sconfitta fu per i Serbi uno smacco molto amaro e col passare del tempo essa favorì la nascita e lo sviluppo di una vivace mitologia (parte della quale composta presso la corte della vedova di Lazar, Milica). Nel XVII secolo gli Ottomani si spinsero di nuovo fino alle porte di Vienna, ma ancora una volta furono sconfitti dopo un lungo assedio. L’Ungheria e la Croazia tornarono così sotto la protezione dell’Impero asburgico.  Con circa 100.000 uomini, il Principe Eugenio riuscì per un breve tempo a liberare Belgrado. Numerose rivolte misero in crisi la stabilità dell’impero musulmano. Decisiva fu la lunga lotta contro i russi (guerra russo-turca 1887-1888). L’obbiettivo dei russi era, oltre al controllo dello stretto del Bosforo, quello di aprirsi un accesso sull’Adriatico. Al Congresso di Berlino, dopo la guerra, la Russia volle ancora consolidare la propria posizione di potere nei Balcani, favorendo la formazione di una Grande Bulgaria la quale avrebbe dovuto allearsi con la Russia a seguito del conflitto con l’Impero ottomano. Ma l’Impero austroungarico e la Gran Bretagna misero un veto a questo progetto e divisero la Bulgaria nel corso del Congresso di Berlino.

Nel 1903 in Serbia salì al potere Pietro I. Appartenente al casato dei Karageorgevic, egli si schierò a fianco degli Sloveni e dei Croati a favore della Grande Serbia. Ma l’Impero austroungarico non voleva cedere i propri possedimenti e accentuò le ostilità nei confronti dei Serbi, ponendo le basi per lo scontro con la Russia, che nel 1908 era però appena uscita sconfitta dal conflitto con il Giappone. Così si entrò nell’era moderna dei Balcani: nel 1912 la Lega Balcanica (Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia) sconfisse la Turchia, ponendo termine a più di quattrocento anni di storia ottomana in Europa. Nel 1913, durante la Seconda Guerra Balcanica, la contesa fra Serbia e Bulgaria per il dominio della Macedonia si fece di nuovo più acuta. La Bulgaria fu sconfitta e dovette rinunciare alla Macedonia. La Serbia raddoppiò il suo territorio assumendo dunque nei Balcani il ruolo di media potenza. Il Montenegro, la cui indipendenza era stata spesso messa alla prova, e la Serbia, per secoli sottomessa al’Impero ottomano, erano ora due stati sovrani. I Serbi e i Montenegrini si fecero promotori di un regno che avrebbe dovuto unire tutte le popolazioni slave del sud. I rimanenti slavi meridionali infatti, Croati , Sloveni e gli slavi musulmani erano ancora sotto il dominio straniero. Proprio il giorno di San Vito, festa nazionale serba e anniversario della battaglia di Campo dei Merli (Kosovo Polije, 1389), l’Arciduca Francesco Ferdinando con la sua consorte si recò in visita ufficiale in Bosnia-Erzegovina, recentemente annessa (1909). Questa provocazione degli Asburgo, acerrimi nemici dei Serbi e dei Montenegrini, non tardò a ricevere risposta. Il 28 Giugno 1914 nel centro di Sarajevo la coppia dei principi viennesi fu colpita a morte da un attentatore, sancendo così l’esplosione dei contrasti tra gli Stati nazionali europei dell’epoca, con l’inizio della Prima Guerra Mondiale. La Grande Guerra trasformò l’Europa e la sua struttura nazionale: quattro regni si disfecero e  dalle loro ceneri nacquero nuovi stati. Il regno dei Serbi, Croati e Sloveni, ad esempio, era in gran parte composto da territori sino ad allora appartenuti all’Austria-Ungheria e venne amministrato dalla dinastia dei Karageorgevic. Esso si trovò davanti a molte situazioni critiche, mancando l’accordo sulla struttura da dare a un paese multietnico. Era necessario riuscire a unificare le circa dodici comunità linguistiche del paese:  il giorno di San Vito fu proclamata una costituzione centralistica, che dava più potere ai Serbi che ai Croati o agli Sloveni. Nello stesso periodo i Macedoni furono denominati serbi del sud. I nazionalisti croati si opposero al progetto d’unità nazionale sotto influenza serba e dalla loro resistenza nacque l’organizzazione filo-fascista e collaborazionista degli Ustascia. Nel 1928 sfociarono contrasti tra Serbi e Croati e il Re fu costretto ad annullare la costituzione e ad assumere per decreto il potere assoluto: il nome dello stato cambiò da Regno dei Serbi, Croati e Sloveni a Regno di Jugoslavia. La Jugoslavia fu divisa in singole provincie: Slovenia, Croazia, Slavonia, Banato, Serbia, Montenegro, Bosnia, Dalmazia ed Erzegovina. Nonostante l’autonomia amministrativa concessa alla Croazia fu impossibile imporre un equilibrio stabile tra le varie nazionalità in cui si divideva la popolazione. A seguito dell’uccisione del re Alessandro I, il leader degli Ustascia, Ante Pavelic, venne accusato d’aver diretto l’attentato ed arrestato. Affiancato dal primo ministro jugoslavo Cvetkovic e dal ministro degli esteri Cinkar Markovic, il Principe reggente Paolo  Karađorđević sottoscrisse un patto con Hitler, che impegnava la Jugoslavia in una alleanza con la Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. Il Popolo jugoslavo (in particolare serbo) non accettò tale patto e il 24 marzo 1941 a Kragujevac si svolsero manifestazioni di massa organizzate dai comunisti, mentre  il 27 marzo 1941 il generale Dušan Simović fece un colpo di stato supportato dagli Inglesi col quale fece arrestare il Primo Ministro Dragiša Cvetković e il Ministro degli Esteri Aleksandar Cincar-Marković, e depose il Reggente Paolo, mettendo sul trono il giovane principe ereditario, Pietro. Vennero inoltre intensificati i rapporti con Unione Sovietica e Inghilterra in prospettiva antinazista.

Il 6 aprile 1941, la Wehrmacht iniziò l’invasione della Jugoslavia: mentre le forze di terra avanzavano su più fronti, la Luftwaffe bombardò Belgrado per giorni: la Serbia venne dichiarata dalla Germania nemico numero uno nei Balcani col sostegno degli Ustascia croati.  il 17 aprile il Governo decise di capitolare. Il Re e il Primo Ministro fuggirono a Londra e il Regno fu diviso: la Germania annesse parte della Slovenia e il Banato, l’Italia creò un proprio governatorato che comprendeva la Dalmazia, parte della Slovenia e la costa montenegrina, mentre l’Ungheria si annesse la Voivodina e parte della Croazia. Il Kosovo fu unito all’Albania insieme ad alcuni territori della Macedonia che fu, invece, per la gran parte inglobata dalla Bulgaria. Venne creato lo Stato Indipendente di Croazia dagli Ustascia di Ante Pavelić, mentre a Belgrado si insediò un governo filonazista che amministrava un territorio limitato quasi alla sola Serbia, con a capo il generale Milan Nedić.

Si instaurò così uno stato di guerra civile fra partigiani comunisti titini e  cetnici, Ustascia, nazionalisti bosniaci, questi ultimi due diretti dalle SS. Il 26 Novembre 1942 a Jaice, in Bosnia-Erzegovina, il maresciallo Tito fondò il Consigliò antifascista di liberazione nazionale jugoslavo. Il processo di liberazione della Jugoslavia durò quattro anni e portò alla formazione di un nuovo stato: il 7 marzo 1945, con l’autorizzazione degli alleati, Tito proclamò un governo provvisorio e l’11 novembre si svolsero le elezioni, vinte dai comunisti di Tito con il 90,84% dei voti: venne così proclamata la Repubblica Popolare Jugoslava, poi, dopo la rottura con l’URSS di Stalin, Repubblica Socialista Federale Jugoslava. Egli mostrò rispetto per i diversi sentimenti storici dei popoli jugoslavi e nel 1946 la nuova costituzione divideva la Jugoslavia in sei repubbliche parimenti sovrane: Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro e Macedonia e due province autonome, Voivodina e Kosovo-Metohija.

Con Tito la Jugoslavia non si allineò con la politica estera di Mosca, in particolare volta alla ricostruzione dell’Est e alla strutturazione delle repubbliche popolari affiliate ad essa. La rottura con Stalin portò la Jugoslavia sulla via del non allineamento, divenendo una delle Nazioni fondatrici del movimento dei Non Allineati. Pur contestabili certe posizioni, che favorirono indirettamente la strategia statunitense, la Jugoslavia socialista fu una nazione coerente ed anti-imperialista. Il socialismo jugoslavo si sviluppò in due direzioni: la decentralizzazione economica e quella politica e sovrastrutturale. Il socialismo jugoslavo, basato sull’autogestione e su una struttura di semi-mercato, aveva abbandonato i principi della pianificazione socialista: questo si rispecchiò anche sulla struttura politica e nazionale della Federazione; le singole culture e nazionalità, fondanti la multiculturalità (positiva) della Jugoslavia, riuscivano infatti a mantenere uno stato d’armonia comune. Dalla metà degli anni 60 per esempio, grazie alla concessione di uno statuto di autonomia, i kosovari di lingua albanese videro riconosciuti molti dei loro diritti: fu istituita per esempio l’università di Pristina. Nella Jugoslavia socialista un principio basilare era che i cittadini avessero il diritto inalienabile di controllo sulle risorse locali. Il popolo jugoslavo decideva delle sue risorse, dei suoi mezzi di produzione e della produzione stessa. Per esempio la produzione di energia elettrica è stata calcolata per molti decenni sulla base dei bisogni domestici. Fino agli anni 80 la gran parte dei prodotti jugoslavi era destinata all’uso interno e non all’esportazione. I documenti ufficiali mostrano che nell’arco di tempo tra gli anni 50 e gli anni 90 i partners commerciali abituali delle ex repubbliche jugoslave erano altre repubbliche jugoslave.  Secondo Tito i  mezzi di produzione, la terra, le abitazioni, le risorse naturali, i beni pubblici, l’arte, i media e gli organismi d’insegnamento dovevano appartenere alla società nel suo complesso, a tutti e a nessuno in particolare. Solo un residuale 20% delle risorse agricole e delle piccole imprese doveva permanere  in mani private. Le terre appartenenti ai contadini erano state limitate a dieci ettari per individuo. Così la capacità di Tito di armonizzare il fecondo multiculturalismo jugoslavo, conciliando Popoli fratelli, lo ha designato come figura unificatrice del Popolo jugoslavo, tanto da provocare nostalgia sia economico-sociale che soprattutto morale tra la gente.

Negli anni 90 però, la caduta del bipolarismo e del contrasto tra blocco socialista e quello imperialista, portarono all’affermazione delle dinamiche menzognere e genocide dell’Imperialismo moderno. La prima vittima del nuovo incontrastato “Impero nordamericano” fu  la Jugoslavia. Essa si trovava all’incrocio di tre importanti corridoi europei: il Danubio, il collegamento fra nord e il sud e quello fra est e ovest (dell’Europa), i canali attraverso cui il gas ed il flusso petrolifero eurasiatico arrivano verso Occidente. Ma non furono solo gli interessi petroliferi a decretare la scelta imperialista: la Jugoslavia era infatti  la vera cerniera tra Occidente ed Oriente ed era fondamentale perno di controllo geopolitico, per ogni potenza.  Attaccare la Jugoslavia significava  attaccare indirettamente la Russia ed accelerare il processo d’espansione della NATO verso Oriente,  favorito da quelli che ai tempi del conflitto in Jugoslavia erano i “GUUAM” (Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan, Moldavia), un “battaglione eurasiatico” antirusso.  Così iniziò un avanzamento occidentale verso la Russia, con il criterio di fomentare i nazionalismi e dividere le nazioni filo-russe. Il processo si estese anche in Iran, Iraq, Afghanistan, fomentando l’opposizione curda, per dividere il contesto geopolitico del Medio Oriente. Seguendo le stesse dinamiche che oggi stanno infervorando l’Ucraina e la stanno indirizzando verso la divisone territoriale, in Jugoslavia, in un contesto di una Russia ancora “anestetizzata” temporaneamente e da una Cina in formazione, l’Occidente portò  avanti prima una guerra mediatica ed economica e in seguito l’armamento di gruppi  nazionalistici, storicamente filo-occidentali, per arrivare infine all’attacco diretto della NATO. Prima venne ridotta in ginocchio l’economia jugoslava, rovinando, dall’1989 al 1990, grazie alla Banca Mondiale, più della metà delle banche jugoslave, facendo chiudere più di 1100 aziende e licenziando oltre 625.000 operai jugoslavi. Poi nel 1990 le aziende costrette a chiudere in seguito a provvedimenti della Banca Mondiale furono 2435 e 1,3 milioni di lavoratori vennero licenziati. Infine si concluse il genocidio del Popolo jugoslavo con le bombe della NATO.

Come oggi viene fatto nei confronti di Assad o di Yanukovich, la guerra mediatica propose all’Occidente perbenista una visione distorta degli avvenimenti in Jugoslavia:  venne in particolare  modificata la storia, come oggi viene fatto per il caso ucraino, si calunniò il Popolo serbo e si fomentarono contrasti nazionali tra le minoranze. L’articolo infatti ha proposto una breve analisi della storia dei Balcani proprio per smentire le origini delle menzogne occidentali e portare a galla la realtà delle dinamiche che vengono mal riproposte dai media, come nei casi analoghi contemporanei.

La demonizzazione di Slobodan Milosevic fu al centro della guerra mediatica occidentale: egli venne accusato d’essere un “nazista”, di aver promosso un genocidio ed un etnocidio. I media occidentali non si stancarono di ripetere che Milosevic avrebbe preteso dal popolo l’accettazione del principio di una “Serbia divina”. Si riferiscono in particolare al suo noto discorso alla Piana dei Merli, rivolto a più di un milione di persone. Nei media venne spesso citata la frase nel discorso “nessuno deve osare usarvi violenza”, per accusare Milosevic: peccato che esso si rivolgesse all’evento dei 40.000 serbi che erano stati costretti a lasciare il Kosovo dai separatisti. Il 27 maggio 1999 il pubblico ministero al tribunale internazionale dell’Aja, Louisse Arbour, depositò un atto di accusa contro Milosevic ed altri 4 responsabili politici serbi. L’atto di accusa consisteva in 42 pagine e conteneva i seguenti passaggi: “Villaggi, città ed intere regioni del Kosovo furono rese impraticabili per li Albanesi”. Gli accusati furono inoltre ritenuti responsabili dell’assassinio di centinaia di Albanesi. Ad essi fu imputato di avere portato avanti una “campagna di violenza e terrore contro gli Albanesi residenti in Kosovo”. Tutto ciò senza considerare che non solo tali crimini non erano stati realmente compiuti, ma soprattutto che tale procedimento sarebbe dovuto essere applicato invece ai presidenti statunitensi per i loro efferati crimini. La propaganda mediatica per demonizzare gli eventi pubblicò all’inizio del 1993 una foto di una donna e un bambino, sostenendo che tale bambino fosse stato ucciso dai Serbi in Posuje. I combattimenti però si erano svolti fra Croati e Bosniaci. Non c’erano Serbi in quel paese. Sempre nel 1993 furono trasmesse foto di un presunto massacro di quattordici musulmani, che si diceva fossero stati uccisi dai soldati serbi. Più avanti si scoprì che non erano musulmani ma serbi. La menzogna mediatica si protrasse anche sul noto “massacro di Racak”, pretesto per l’intervento della NATO. L’Occidente fece passare alla storia la menzogna secondo cui 45 persone nel villaggio di Racak fossero state uccise a sangue freddo dalla polizia serba. William Walker (che si scoprì essere un militare del Dipartimento di Stato americano, responsabile tra l’altro della guerra contro il Salvador e il Nicaragua, sulla quale mentì alla stampa, e sotto Reagan fu il responsabile della Casa Bianca nell’operazione per la caduta del governo nicaraguese), responsabile degli osservatori OSCE in Kosovo, incolpò la polizia serba di aver compiuto un massacro di civili disarmati. Quest’informazione venne presa come veritiera dal tribunale dell’Aja. Il corrispondente per il Kosovo di Le Figaro, Renaud Girard, scrisse però  il 20 gennaio 1999: “si arrivò a una sparatoria, quando essi vennero attaccati da soldati dell’UCK che sparavano da trincee nella collina”. Quando vennero trovati i civili morti, il paese era ritornato sotto il controllo dell’UCK che aveva inscenato il luogo di un massacro con una fossa;  più tardi si scoprì che all’interno della fossa vi erano soldati dell’UCK e alcuni dei poliziotti serbi morti nella sparatoria.  Nessuno dice mai però che  tra il 1993 ed il 1995 i Croati diedero l’assalto alla regione della Krajina e per la fine del 1995 più di 500.000 Serbi si erano visti costretti a lasciare la regione. Ci furono una serie di crimini e di episodi di pulizia etnica e di violazioni del diritto internazionale perpetrati dai Croati dei generali Janko Bobetko e Ante Gotovina contro i serbi di Krajina: per esempio i militari dell’UCK cacciarono con la forza più di 100.000 Serbi, facendosi complici di atroci crimini, sotto la bandiera di un nazionalismo secondo loro “storicamente legittimato”.

Per comprendere meglio il ruolo che ebbe la NATO nel finanziare i gruppi secessionisti in Jugoslavia, si potrebbe citare come secondo Cedda Prlincevic, capo della comunità ebraica in Kosovo, nelle settimane precedenti al massacro di Racak, o gli agenti dei servizi segreti americani e inglesi, che lavoravano sotto la copertura dell’OSCE al servizio di William Walker, che avevano preso i contatti con personaggi dell’UCK, istruendoli e addestrandoli a manovrare bombe e proiettili NATO. Secondo John Whitley, l’appoggio segreto all’esercito ribelle kosovaro venne organizzato in un’operazione congiunta tra CIA e BND, con finanziamenti dal traffico della droga. Micheal Levine, ex agente DEA disse: “Abbiamo armato per dieci anni di seguito i peggiori elementi dei Mujaheddin in Afghanistan. Ora facciamo lo stesso con l’UCK, che mantiene rapporti con ogni cartello per lo spaccio di stupefacenti in Europa. Atti riguardanti organizzazioni per il traffico della droga conducono direttamente all’UCK e a bande albanesi presenti nel paese”.

L’imperialismo occidentale in Jugoslavia ha lasciato una ferita nella storia del Popolo jugoslavo. Nessuno dimenticherà i bombardamenti genocidi della NATO:  I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia. Il governo D’Alema autorizzò l’ uso delle basi italiane ed allo schieramento partecipò anche una squadra navale italiana comprendente l’ammiraglia incrociatore portaerei Giuseppe Garibaldi ed il suo gruppo aereo. In media, la Serbia subiva almeno 600 raid aerei al giorno. Morirono almeno 250.000 serbi e albanesi. L’ intervento non colpì solo obiettivi militari, ma furono effettuati anche interventi “dissuasivi” ed intimidatori nei confronti della popolazione allo scopo di esercitare una pressione su Milosevic; tra questi il bombardamento delle centrali elettriche (soprattutto con bombe alla grafite, ad effetto “psicologico”, che non provocano danni permanenti ma prolungati blackout),  il bombardamento della sede della televisione serba a Belgrado, il bombardamento di colonne di profughi, anche di etnia kosovara, il bombardamento di industrie chimiche con successive pesanti ricadute ambientali. Il numero esatto di vittime della guerra, sia serbe che albanesi, militari e civili, non è ancora oggi conosciuto con esattezza.  Lo stesso presidente francese Jacques Chirac rivolgerà un messaggio sarcastico al generale americano: “bisogna ringraziarlo (Clark) per il fatto che sul Danubio c’è ancora un ponte integro”. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) diede notizia dei primi profughi recensiti fuori dal Kosovo (quattromila) il 27 marzo, tre giorni dopo l’inizio dei bombardamenti. Il loro numero non fece che crescere fino al 4 giugno, raggiungendo un totale valutato intorno alle 670.000 unità nei paesi confinanti (Albania e Macedonia), a cui si aggiungono 70.000 profughi nel Montenegro (all’interno della RFY) e 75.000 rifugiati in altri paesi, senza contare i 300.000 che morirono. Inoltre sotto la protezione dei bombardamenti USA dell’ agosto 1995, l’ esercito croato, con l’assistenza militare degli USA e  sotto la guida dell’Ambasciata e di alti dirigenti statunitensi,  ripulì etnicamente la regione croata della Krajina da più di 300.000 serbi, uccidendone migliaia. Gli attacchi aerei NATO durante l’ operazione contarono più di 4000 sortiteL’intervento NATO si concluse con delle terribili misure imposte all’Ex-Jugoslavia:  Il FMI e la Banca Mondiale imposero l’eliminazione del controllo statale sui prezzi, l’introduzione del libero mercato senza protezioni per i produttori, lo smantellamento del sistema di assistenza sociale, la chiusura dei crediti alle imprese, licenziamenti di massa e tagli dei salari, liquidazione forzata di importanti industrie e settori industriali pubblici e privati e l’assegnazione ad imprese dei paesi NATO delle commesse per la ricostruzione dai bombardamenti. Così 100.000 lavoratori vennero licenziati; solo all’inizio del 2000 circa 300.000 famiglie erano costrette a vivere con un reddito inferiore a 20 euro mensili ed oggi l’industria serba è solo il 37% di ciò che era nell’86. Durante il 1995 l’ economia di tutte le sei repubbliche collassò. La produzione industriale crollò del 25% rispetto al 1990. In Serbia il reddito pro capite precipitò dai 3000 dollari del 1990 ai 1000 del 1991 ai 700 del 1995. Prima del 1990 come già detto,  il 90% di tutto il commercio della federazione era destinato all’interno delle sei repubbliche e solo il 10% era rivolto verso l’estero. Ma i commerci tra le repubbliche ex-Jugoslave dal momento del dismembramento della federazione, crollarono radicalmente favorendo la divisione geopolitica territoriale e il fallimento economico. Questo è l’imperialismo economico e politico a cui la Jugoslavia, terra di combattenti,  terra del più grande martirio cristiano in Europa, di un eroica resistenza culturale ed economica, è stata assoggettata.

Dopo più di duemila anni di storia, di invasioni, di coraggiosa resistenza del Popolo jugoslavo contro ogni invasore,  turco, austriaco, nazista o  russo, la ferocia imperialista d’Occidente ha piegato ed ucciso in un processo contro ogni diritto internazionale, il Popolo jugoslavo. A otto anni dalla morte di Slobodan Milosevic, oggi che l’imperialismo occidentale tenta ancora di varcare le porte d’Oriente e conquistare la Russia, omaggiamo con quest’articolo la memoria della lotta del Popolo Jugoslavo, che è tale solo unito, multiculturale.

“So bene che vogliono la mia testa.” – Slobodan Milosevic

 

 

Fonti:

Jugoslavia: prima vittima del nuovo ordine mondiale, Robin De Ruiter

L’aggressione Nato alla Serbia, www.nonsolobush.it

I crimini NATO in Kosovo, Antonella Randazzo

Jugoslavia. Bilancio della distruzione di un sogno, Milina Jovanovic