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Dall’incontro fra due anime esala il profumo d’un mistero sacro

di Francesco Lamendola - 01/06/2014


 


 

Gli incontri sono diventati frettolosi, superficiali, fuggevoli: ci si sfiora, più che incontrarsi; si condivide un momento di intimità, magari più in senso fisico che interiore; poi ci si torna a separare: ciascuno è restituito alla propria solitudine esistenziale, rassegnato, senza illusioni, come se un fugace raggio di sole fosse entrato nella cantina e subito fosse dileguato.

La letteratura, il cinema, la musica leggera hanno trattato in mille forme la provvisorietà, il disincanto, l’amarezza legati a questo modo insoddisfacenti d’incontrarsi, che non riempie, né placa i vuoti e i silenzi, ma li accentua e li esaspera.

Il tema dell’incontro è stato al centro di un celebre romanzo degli anni Trenta del Novecento dello scrittore ungherese Ferenc Körmendi, «Incontrarsi e dirsi addio» (ripreso poi dalla televisione italiana in forma di sceneggiato); una canzone un po’ anomala, peraltro non banale, della cantante Patty Pravo, si intitolava appunto «Incontro» e dava il titolo a un album del 1975. Vi si parla di un incontro sessuale fugace, ma carico di aspettativa e di partecipazione, almeno da parte di lei; che, se pur si conclude in maniera deludente (l’uomo, dopo aver fatto tanti discorsi sulla libertà, non vede l’ora di rivestirsi e andarsene, come se temesse di restare “incastrato”), lascia però una certa quale malinconica dolcezza nella donna, resa ancora più struggente dalla possibilità di aver concepito una vita, cosa che le lascerebbe un grato ricordo di quel magico istante d’amore. È certo, comunque, che un semplice brancicare di corpi non basta a esaurire un incontro, nel senso “alto” e proprio della parola; e il senso proprio della parola non può essere che “alto”, dato che, se non lo è, si sente subito il bisogno di spiegare perché non lo è stato, ad esempio parlando di “incontro casuale”, come a dire che l’incontro autentico, se c’è, non è mai un evento causale, né banale, né superficiale, ma tale da lasciare un segno in coloro che l’hanno vissuto.

L’incontro, peraltro, non si risolve necessariamente un incontro sessuale o sentimentale: ogni volta che due persone vengono a incrociare il filo delle loro esistenze, anche solo per un attimo, là si verifica un incontro; che può essere positivo o negativo, felice o infelice, per il bene o per il male. Vi sono incontri di lavoro non meno decisivi, per la formazione di un essere umano, di quelli sentimentali: quando un giovane apprende da un adulto, per esempio, l’arte di un lavoro ben fatto, di un lavoro eseguito con passione, con originalità, con entusiasmo, con dedizione assoluta. In un caso del genere, il giovane non apprende solo una tecnica professionale, ma anche uno stile di vita: riceve una lezione di valore inestimabile, che lo accompagnerà per tutto il resto dei suoi giorni. Starà in lui farla fruttificare, oppure ignorarla e relegarla nel vasto e malinconico magazzino delle esperienze inutili, delle occasioni di crescita sprecate.

L’incontro, infatti, è una occasione, dischiude una soglia, prospetta una possibilità e, dunque, un cambiamento. La società moderna esalta l’idea del cambiamento in se stesso, indipendentemente da ogni giudizio di valore: è naturale, quindi, che vi si faccia un gran palare di quanto sia importante l’incontro, di quanto sia bella la magia dell’incontro, di quanto sia romantica la poesia dell’incontro. Naturalmente, sono tutte sciocchezze: l’incontro è importante non solo se lascia il segno, ma se favorisce una apertura esistenziale, se arricchisce spiritualmente, se aiuta il processo della maturazione e della consapevolezza. Diversamente, si tratta soltanto di una frenesia di contatti, d’un agitarsi scomposto alla ricerca del cambiamento, quale che esso sia, magari peggiorativo. Non si dovrebbe fare troppo chiasso su questo argomento, perché il vero incontro ha bisogno di raccoglimento e di silenzio.

Del resto, che cosa vuol dire “incontrarsi”? Così rispondeva il filosofo Romano Guardini (da: R. Guardini, «Persona e libertà», traduzione dal tedesco a cura di C. Fedeli, Brescia, La Scuola Editrice, 1987, pp. 28-29):

 

«Nell’accezione più ovvia ed immediata, ”incontro” significa che due realtà s’imbattono l’una nell’altra. Ma cosa deve intendersi per”realtà”, e come deve configurarsi il loro imbattersi, perché ne scaturisca ciò che indichiamo con quel termine?

Non si dà ancora “incontro”, evidentemente, nel caso di due bocce da biliardo che vengono mese in movimento e s’urtano. Ciò che avviene, qui, non è che l’esecuzione di determinati colpi che producono il movimento di certe masse e la loro collisione, dalla quale scaturisce un rispettivo rimbalzo secondo nuove traiettorie. Tutto ciò si compie nella dimensione meccanica della realtà, secondo le leggi valide nel campo della fisica. Ciò che intendiamo, è però qualcos’altro.

Sulla corteccia d’un albero cade un granello di vischio. È “incontro”? L’evento è costituito dal sovrapporsi l’un l’altra di masse in movimento, con tutto ciò che si riscontra in casi del genere: accelerazione, sviluppo di calore, e così via. Inoltre, un organismo vivente entra in simbiosi con un altro, si dà avvio allora ad un processo di crescita.  Gli apparati organici e funzionali dei due organismi interagiscono, e ciascuno cerca d’integrare l’altro nel proprio contesto vitale. Il tutto si svolge, oltre che sul piano fisico, anche su quello biologico; ma obbedisce anche qui ala necessità delle leggi naturali. Non è ancora incontro; però, gli siamo già più vicini.

Quando due animali s’affrontano e tra loro si sviluppa una lotta – abbiamo un “incontro”? L’immagine del fenomeno presenta un ulteriore tratto, che ci approssima ancora di un passo a quanto è propriamente inteso dalla parola. Ecco, uno di fronte all’altro, due esseri viventi, dotati della capacità d’iniziativa: prende le mosse un processo per entrambi importante, forse addirittura fatale. Esso presenta un’ampiezza di spazio d’azione ed una libertà di movimento, i quali facilmente inducono a dimenticare che, pur tuttavia, anche qui tutto accade secondo una legge di necessità profondamente naturale. Gli animali in competizione si comportano secondo quanto è imposto dalla loro struttura organica e dai loro diversi bisogni.

“Incontro” in senso proprio ed autentico si realizza solo quando è l’uomo colui che s’imbatte nella realtà.

Ma ciò accade ogniqualvolta l’uomo entra in rapporto con le cose? Quand’è affamato, e stende la mano verso il cibo, “incontra” il frutto che lo attende? Evidentemente no; perlomeno, non sempre. Nella maggior parte dei casi, egli si comporta in maniera analoga all’animale: l’impulso della fame si fa sentire, ed egli afferra il frutto per saziarsi. Tuttavia il suo comportamento è soltanto simile a quello animale, poiché può assumere anche un’altra forma. L’uomo è capace di guardare la frutta anche in un modo, tale che ne venga fuori una natura morta di Cézanne – pensate alla “Natura morta con la mela”. Allora è avvenuto l’”incontro”…

È incontrare un’altra persona, quand’uno svolta velocemente l’angolo e le rovina addosso? Evidentemente no. È successo allora come nel caso delle bocce da biliardo. Eppure, anche qui si tratta di qualcosa di simile, non di identico; poiché può anche essere che entrambi, dopo l’iniziale sorpresa, s’arrestino e si guardino l’un l’altro, e d’un tratto accada che persone, persesi di vista già da lungo tempo, si riconoscano. Qui fiorisce qualcosa che per l’uomo è pieno di significato. Ecco, allora: c’è “incontro”.»

 

Sono considerazioni che ci sembrano sostanzialmente condivisibili, fatta la tara a un certo antropocentrismo che emerge dalla identificazione della persona come l’unico soggetto capace di libera scelta e, dunque, di una autentica vita interiore. Ma Guardini cosa penserebbe del cane che, pur affamato, rifiuta il cibo finché il padrone non è rientrato in casa, dopo un’assenza di parecchie ore, e si getta poi avidamente sulla ciotola, quando questi è tornato e gli ha fatto le debite carezze? Forse non solo l’uomo è capace di libera scelta, dopotutto, né egli soltanto è protagonista di una vita interiore, suscettibile di fare “incontri”. Anche quello fra l’uomo è il cane si può definire un incontro, o almeno può esserlo (si pensi al cane Argo che attende per quasi vent’anni il ritorno di Ulisse); e non solo per l’uomo, ma anche per il cane, ad esempio per un randagio che “sceglie” di accompagnarsi a un determinato padrone umano. E chi può dire se anche fra due animali, o perfino fra due piante, non possa darsi un “incontro” nel senso della scelta, pur se questa sia stata fortemente condizionata da elementi puramente esteriori?

Quelle di Guardini sono considerazioni nel complesso condivisibili, dicevamo; ma che cosa distingue un incontro “vero”, cioè tale da innescare un processo di apertura e di chiarificazione esistenziale, da un incontro inautentico, che si svolge all’insegna della fretta, o del nascondimento, o della menzogna, o dell’opportunismo? La risposta è abbastanza semplice: vero è l’incontro che avviene fra persone “vere”, a prescindere dalle condizioni esteriori; perché, se queste ultime hanno la forza di falsificare e distorcere il significato dell’incontro (non la modalità del suo attuarsi, ma il suo significato: cioè l’orientamento che esso imprime alle vite dei suoi protagonisti), allora vuol dire che le persone non erano sufficientemente mature per fare delle scelte autentiche o per vivere l’incontro in maniera felice, ossia come una benedizione e non come una maledizione.

Per la persona spiritualmente evoluta, tutto, ogni singola circostanza della vita, e dunque anche l’incontro, che è il modo privilegiato di relazionarsi con l’altro, diviene occasione di benedizione, cioè di apertura, arricchimento, maturazione. Per la persona inconsapevole, invece, tutto, anche l’incontro con la persona migliore di questo mondo, può divenire occasione di maledizione: cioè di chiusura, di frustrazione, di amarezza, di fallimento; in breve: una nuova occasione sprecata, magari l’ennesima. Pertanto possiamo dire che tutto è grazia, per chi sta dirigendo i suoi passi, nel cammino della vita, lungo il cammino della consapevolezza e della trasparenza; ma per chi sta percorrendo la via sbagliata, per chi sta tradendo la propria verità interiore e sta rifiutando l’invito che viene dall’alto, perfino la grazia si trasforma in pietra d’inciampo. Non esistono “incontri fortunati”, nel senso di assolutamente gratuiti: ogni autentico incontro presuppone una certa sensibilità, una certa lealtà, una certa coerenza, un certo impegno.

È un errore sopravvalutare l’importanza dell’incontro, nel senso che nessun incontro potrebbe renderci migliori o peggiori di quel che siamo, se noi non siamo disposti ad acconsentire a quel miglioramento o a quel peggioramento; ma non bisogna nemmeno sottovalutarla, perché un incontro può rivelarsi realmente decisivo nella vita di una persona. Non si deve, tuttavia, dedurre da quest’ultima constatazione che gli incontri soggiacciono alla legge del caso, che sono del tutto fortuiti ed estemporanei. È vero, invece, che solo quando noi siamo pronti per gli effetti che un certo incontro può avere su di noi (sia in bene che in male), quell’incontro assume, nel complesso della nostra vita, un peso determinante, o secondario, o addirittura trascurabile: nullo, mai. Noi siamo il risultato di ciò che gli incontri della nostra vita hanno fatto di noi; ma anche gli incontri che abbiamo fatto, che facciamo e che faremo, sono, a loro volta, il risultato dell’evoluzione che abbiamo dato – o che abbiamo trascurato di dare – al nostro essere.

Incontri se ne fanno ogni giorno, continuamente, senza neppure farvi caso: a volte con persone che già conosciamo, altre volte con perfetti sconosciuti; però solo alcuni acquistano un peso, un rilievo importante nella nostra vita: solo alcuni lasciano in noi un segno profondo. Ciò dipende dal fatto che solo quando esistono le condizioni adatte, solo quando noi siamo giunti a un determinato punto della nostra evoluzione, in positivo o in negativo, scatta quel misterioso dinamismo per cui un semplice incontro diventa un riconoscimento, cioè un guardare a lungo e intensamente in fondo all’anima dell’altro – a volte con amore, a volte con odio, a volte con spassionato interesse; oppure diventa un lasciarsi guardare, un lasciarsi riconoscere, un lasciarsi cambiare.

È importante non dimenticare che l’incontro più importante, ma anche quello a cui, generalmente, dedichiamo meno tempo e attenzione, è quello con noi stessi. Ci sono persone che vivono tutta la loro vita senza incontrarsi mai con se stesse: si sfiorano, esitano un po’ e quindi procedono per un’altra strada, che le allontanerà sempre più da se medesime. Sono i naufraghi di se stessi: vagabondi nel mare della vita, vanno a caccia di emozioni forti, ma non sanno nulla, assolutamente nulla, di ciò che li farebbe star bene, mediante il ritrovamento di se stessi. Perché quel che si trova al fondo di se stessi non è il piccolo io, che sempre vuole, brama e teme; ma qualcosa di molto più grande: il mistero dell’Essere, dal quale ogni ente proviene e al quale ciascuno è chiamato a tornare.