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Dal confine orientale

di Fabio Calabrese - 09/06/2014

Fonte: Centro Studi La Runa

esuliQuest’anno cade il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, avvenuto nel luglio 1914 in conseguenza dell’assassinio di Sarajevo accaduto il 28 giugno, anche se la partecipazione dell’Italia al primo dei due immani carnai del ventesimo secolo iniziò quasi un anno più tardi, a fine maggio 1915.

E’ verosimile che questa ricorrenza sia presto accompagnata da polemiche non diverse da quelle che coincisero nel 2011 con il 150° dell’unità nazionale, e poiché questa guerra ha inciso in maniera determinante sulla storia e sulla vita dei popoli che vivono sulla sponda orientale dell’Adriatico, su quello che per l’Italia è il confine di nord-est, sarà meglio giocare d’anticipo e fissare alcuni punti.

Su cosa si debba pensare di questo conflitto e della nostra partecipazione ad esso, ho già espresso la mia opinione nell’ampio articolo Il grande equivoco pubblicato sul n. 70 de “L’uomo libero”, ma poiché non posso pretendere che ne siate tutti a conoscenza, vi ripeterò la mia tesi in estrema sintesi. Questo articolo lo scrissi in occasione delle polemiche, talvolta roventi, che hanno contrassegnato il 2011, e che hanno visto i nostri ambienti spaccati fra quanti di noi hanno a cuore l’unità nazionale, e quanti avversano l’affermazione riportata dal quel seguito di congiure e insurrezioni del XIX secolo che hanno portato all’affermazione della liberal-democrazia a livello planetario e posto le premesse delle due guerre mondiali che hanno portato alla decadenza dell’Europa dal ruolo egemone a livello planetario per diventare prima un condominio americano-sovietico, e oggi una colonia degli USA.

A mio parere, il grande equivoco è la mancata distinzione fra due cose molto diverse coperte dall’etichetta “risorgimentale”: la naturale insorgenza del nostro popolo contro secoli di oppressione e di dominazioni straniere, e un movimento, il movimento liberal-democratico-massonico che si è impadronito di essa per tutt’altre finalità, e per il quale l’unità italiana era un obiettivo del tutto secondario, o un effetto collaterale.

Ho ricordato ad esempio che quel che possiamo considerare il primo episodio del nostro risorgimento, fu l’insurrezione di Verona contro le truppe napoleoniche, che portò alla sanguinosa repressione nota come “pasque veronesi”, fu la rivolta non contro gli Austriaci, ma contro i Francesi, gli “esportatori di democrazia”. Oppure il fatto che tutte le volte in cui vi era conflitto fra il bene dell’Italia e l’interesse della loggia, i “patrioti” liberal-massoni scegliessero quest’ultimo dimostrando in maniera inequivocabile quale fosse la loro vera “patria”. Ad esempio nel 1870, quando i garibaldini intervennero nel conflitto franco-prussiano per puro odio ideologico contro la Prussia di Bismark a favore della Francia che il quel momento era l’ostacolo all’annessione di Roma e al completamento dell’unità nazionale.

Noi possiamo, era la mia conclusione, essere patrioti italiani ed europei senza contraddizione, amare la nostra nazione e l’Europa, non dobbiamo alcuna gratitudine ai demo-liberal-massoni, la nostra causa nazionale non è un argomento contro l’avversione che spetta a coloro, alle forze politiche, alle ideologie che hanno provocato la decadenza del nostro continente.

Ora però è forse il caso di concentrare la nostra attenzione su di un aspetto specifico le cui ricadute si prolungano fino all’attualità.

La pubblicistica antifascista (ed è strano quanto spesso antifascista viene a significare anti-italiano) ha spesso sostenuto e sostiene che la conflittualità cronica fra Italiani e Sloveni (con cui fanno corpo altri slavi, Croati e via dicendo) sia iniziata con questo conflitto e per colpa dell’Italia che con esso avrebbe invaso terre e annesso popolazioni che etnicamente non le appartenevano.

Il fatto che simili affermazioni siano spesso ripetute anche da fonti cosiddette autorevoli, non le rende per questo meno false. Innanzi tutto dobbiamo considerare che il confine etnico fra Italiani e Slavi nell’alto Adriatico è stato profondamente alterato a favore di questi ultimi in conseguenza degli eventi del 1943-45. Da terre un tempo italianissime, la presenza italiana è stata cancellata costringendo la popolazione alla fuga con la violenza e il terrore. Per settant’anni ci si è ostinati a ignorare la spaventosa mattanza che i comunisti jugoslavi hanno compiuto precisamente allo scopo di costringere la popolazione italiana alla fuga.

L’altra menzogna che ha credito ancora adesso, anzi forse più adesso che in passato, man mano che il tempo allontana il ricordo dei fatti per lasciare il posto alle edulcorazioni e alle falsificazioni, è la leggenda che sotto l’Austria, “Paese ordinato”, vi fosse un’armoniosa convivenza fra gli Italiani del confine orientale e le altre componenti etniche dell’impero. Ciò è totalmente falso: l’Austria incoraggiava la reciproca ostilità fra i gruppi etnici in modo che le rivendicazioni nazionali si neutralizzassero a vicenda, non solo, ma in alto Adriatico tendeva a favorire la componente slava a danno di quella italiana. E’ del tutto falso e fuorviante, perciò, attribuire al “nazionalismo italiano” e al “fascismo” la responsabilità di un malanimo che è sempre stato reciproco e le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

i-testimoni-mutiPer noi italiani del confine orientale, per noi italiani di Trieste nati dopo la seconda guerra mondiale, la presenza della Jugoslavia comunista a un tiro di fucile dalle nostre case, era una presenza incombente e minacciosa che nei quaranta giorni dell’occupazione della nostra città seguiti all’immediata conclusione del conflitto aveva profondamente infisso i suoi artigli assassini nella carne della nostra gente e che ora, non potendo per la situazione internazionale, ritentare la via dell’aggressione militare, cercava di portarci via quel che era nostro in un altro modo, sostenendo le più sfrenate rivendicazioni della minoranza slovena sempre ben accolte dai partiti democratici e antifascisti. In compenso, noi sapevamo di non avere alle spalle l’Italia, di essere lasciati soli. Difendere l’italianità sui confini o altrove, non è mai stata cosa che abbia preoccupato l’Italia democratica, nata dal tradimento dell’8 settembre 1943 e dai voltafaccia resistenziali. Peggio, sapevamo che questa Italia era contro di noi.

Vorrei citare un episodio che lo dimostra in tutta chiarezza. La città di Pola non fu occupata dagli jugoslavi nell’immediatezza della conclusione del conflitto, ma con il trattato di pace del 10 febbraio 1947 l’antica Pietas Julia, italianissima, romana e veneta fu ceduta alla Jugoslavia. L’unico vantaggio che ebbero i polesani rispetto agli altri istriani, fu che in questo caso lo sgombero della popolazione che non voleva trovarsi sotto il tallone di ferro slavo-comunista si poté organizzare con un certo ordine, invece di essere una fuga disordinata per sottrarsi all’infoibamento. Gli esuli furono trasbordati per nave a Venezia, da dove furono caricati su un convoglio ferroviario diretto a Genova, dove poi la maggior parte si sarebbe imbarcata per le Americhe e per l’Australia, perché nell’Italia democratica e antifascista non c’era posto per loro.

il-lungo-esodoA Bologna era previsto un punto di ristoro organizzato dalla Caritas, ma uno sciopero organizzato ad hoc dalla CGIL lo fece saltare. Il treno dovette proseguire in tutta fretta coi suoi passeggeri affamati e assetati per evitare l’aggressione da parte dei ferrovieri comunisti.

Capite quello che significa? Gli Italiani del confine orientale stavano pagando per tutti la guerra perduta, ma invece di trovare la solidarietà dei loro connazionali, trovavano solo l’ostilità e l’odio di chi riconosceva nella loro tragedia la bruciante smentita dell’utopia con la falce e martello.

Dopo di allora, sei decenni di silenzio omertoso dove chi osava solo ricordare le tragedie delle foibe e dell’esodo, le sofferenze patite dai nostri connazionali perché italiani era subito bollato come fascista. I “compagni” non sopportano la verità.

Grazie all’acquiescenza dei “democratici” il rivendicazionismo sloveno ha spesso assunto una dimensione grottesca. La minoranza slovena, ad esempio, ha sempre avuto la massima cura nell’impedire che si conoscesse la sua effettiva consistenza numerica, con ogni probabilità talmente esigua da far cadere nel ridicolo, se adeguatamente conosciuta, le sue pretese.

Anni fa, gli Sloveni avevano chiesto al comune di Trieste l’introduzione di carte d’identità bilingui. Qualcuno avanzò una controproposta: carte bilingui o in sola lingua italiana a scelta dell’utente. Questa proposta fu respinta con sdegno dagli Sloveni perché sarebbe equivalsa a un censimento!

Non abbiamo avuto scelta, siamo – si può dire – nati schierati. Voler difendere un futuro per noi e per i nostri figli voleva e vuole dire essere “fascisti”.

Oggi a un quarto di secolo dalla dissoluzione dell’impero sovietico e della Jugoslavia comunista, dopo che la Slovenia e la Croazia sono entrate nell’Unione Europea, cosa rimane di tutto ciò? Sarebbe bello pensare che si possa semplicemente voltare pagina e dimenticare i veleni del passato, ma le cose non stanno esattamente così. La situazione è simile a quella di scorie velenose interrate: non sono visibili ma sono sempre lì, e continuano a diffondere tutt’attorno il loro veleno.

Occorre ricordare che la disintegrazione della ex Jugoslavia ha seguito modalità del tutto diverse da quelle che hanno portato alla caduta dei regimi comunisti nel resto dell’Europa orientale nel 1989, quando Michail Gorbacev decise di togliere ad essi il sostegno sovietico che era l’unica cosa che tenesse in piedi questi protettorati odiati dai popoli che li subivano. Per evitare di fare la stessa fine, i vertici dell’“Alleanza dei socialisti”, così si chiamava eufemisticamente il partito comunista jugoslavo, scatenarono le componenti etnico-religiose della ex Jugoslavia in una guerra o in una serie concatenata di guerre fratricide che in realtà avevano soprattutto uno scopo: quello di nascondere al popolo gabbato il fatto che al potere erano sempre gli stessi, gli eredi della covata malefica del maresciallo Tito.

Che in questa ondata di sciovinismo etnico provocata e manipolata, le superstiti posizioni degli Italiani ridotti a esigua minoranza nelle terre che ci erano state sottratte, siano diventate sempre più deboli, e i diritti degli esuli sulle terre e sulle proprietà che furono costretti ad abbandonare per salvarsi la vita, sempre più aleatori, non è purtroppo cosa che possa sorprendere.

Per motivi arbitrari che non hanno nulla a che vedere con la situazione della ex Jugoslavia, la NATO (cioè gli Stati Uniti, perché la NATO non è che un pupazzo in mano a Washington) ha deciso che nella crisi dello stato balcanico “i cattivi” dovevano essere i Serbi. L’organizzazione atlantica si è mobilitata prima a sostegno di Croati e mussulmani bosniaci, poi degli Albanesi del Kossovo.

Una guerra le cui finalità erano ben diverse da quelle dichiarate, per un accordo probabilmente intervenuto tra USA e Arabia Saudita per la creazione di una vasta area islamica in Europa stabilendo una continuità tra Bosnia e Albania-Kossovo, riducendo la Serbia ai minimi termini, in cambio dell’isolamento internazionale dell’Irak di Saddam Hussein, oltre al controllo di un’area strategica per il traffico di armi e droga, e oggi anche di esseri umani.

A prescindere dagli “apporti” dell’immigrazione, nell’Europa balcanica ci sono due aree islamiche: quella bosniaca e quella albanese. A tenerle separate, a frammentare questa scimitarra islamica puntata contro il cuore dell’Europa, c’era e c’è la Serbia, che nei disegni della sconcia alleanza fra Rijad e Washington doveva essere annientata, spazzata via. Ecco il motivo per cui i Serbi sono stati indicati alla pecoresca opinione pubblica internazionale come i responsabili della crisi della ex Jugoslavia, i “cattivi” della situazione.

L’Italia è non solo per sua disgrazia un Paese membro della NATO ma, insieme alla Grecia, il più vicino all’area della ex Jugoslavia, da cui la separa solo lo sputo d’acqua dell’Adriatico. Il governo italiano – allora paradossalmente ma nemmeno tanto, era presidente del Consiglio l’ex comunista Massimo D’Alema – non trovò nulla da ridire e prestò prontamente le basi da cui far partire gli aerei con cui bombardare la Serbia.

Durante e nel periodo seguente la seconda guerra mondiale, i responsabili degli infoibamenti furono gli slavi che vivevano prossimi ai nostri confini: sloveni e croati, e ora l’Italia si muoveva in difesa dei figli e nipoti di questi assassini contro i Serbi i cui padri verosimilmente non avevano avuto responsabilità nel massacro della nostra gente. Chi fu forse più rapido a capire l’antifona, fu il rais croato Frane Tudjman che, proprio mentre la NATO bombardava Belgrado, fece approvare una legge che retrocedeva gli italiani di Fiume da “minoranza” a “immigrati”, cancellando di fatto il vero ceppo autoctono della città, ma aveva capito una cosa di importanza fondamentale: l’Italia democratica e antifascista ha una politica estera e addirittura militare al solo scopo di farsi ancora meglio pisciare in testa.

Come dicevo, non solo la dissoluzione della ex Jugoslavia non ha portato alcun beneficio agli Italiani rimasti nelle terre che ci furono sottratte con il secondo conflitto mondiale ma, se possibile, ha ancora peggiorato la loro situazione, e non soltanto perché nel momento in cui il confine sul fiume Dragogna che divide la parte di Istria toccata alla Slovenia da quella toccata alla Croazia, nel momento in cui si è trasformato da confine amministrativo a frontiera politica, ha tagliato la minoranza italiana in due tronconi, ma perché il rinfocolarsi di odio etnico che ha caratterizzato la frammentazione della ex Jugoslavia non favorisce certo la tutela delle minoranze, soprattutto quando in Italia si affermano governi di centrosinistra, che tutti dediti ad aiutare extracomunitari e rom, se ne fregano degli Italiani che vivono entro i nostri confini, figurarsi di quelli al di fuori di essi.

Noi non dobbiamo dimenticare che la dissoluzione della ex Jugoslavia è stata pianificata a tavolino. Sicuramente non a caso, l’ultima legge varata dalla repubblica federativa prossima a venire meno, è stata una riforma della scuola superiore che ha moltiplicato gli indirizzi di studio al punto da rendere impossibile la costituzione di scuole superiori di lingua italiana, un deciso passo avanti verso l’assimilazione e l’eliminazione degli Italiani dell’Istria.

Faceva certo specie, durante il conflitto croato-serbo-bosniaco, sentire i Croati rivolgere appelli alla comunità internazionale per tutelare gli edifici, le chiese, i campanili della costa dalmata, a parer loro esempi di “arte croata”, “arte croata” a cui i loro antenati non hanno mai dato il contributo nemmeno di una pietra, espressione del genio artistico dei Dalmati di ceppo veneto e di etnia italiana che hanno popolato la regione per secoli, prima che la Jugoslavia comunista se ne impadronisse, cacciasse col terrore la popolazione nativa, e poi la regione stessa toccasse loro in immeritata eredità. Questa mistificazione, tuttavia, era solo il primo passo. Il secondo, l’ho ricordato più sopra, è stato cancellare legalmente gli Italiani di Fiume come minoranza, ma ne sono seguiti altri in un crescendo allucinante: si è arrivati a scalpellare il leone di san Marco dalle facciate delle chiese e dei campanili, poi addirittura ad alterare le lapidi dei cimiteri, in un crescendo di orwelliana riscrittura della storia, tesa a negare che una presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico sia mai neppure esistita.

Una sfacciata manipolazione della verità storica molto vicina ai metodi segnalati da George Orwell in 1984 e che dimostra in maniera lampante che sotto la casacca del nuovo nazionalismo, gli eredi dell’ “Alleanza dei Socialisti” titina sono sempre gli stessi.

Dall’altra parte, in risposta a questo furore sciovinistico, da parte italiana cosa c’è? Nulla!, il vuoto!

Quel senso di appartenenza a una comunità nazionale che altrove è uno dei sentimenti più normali e diffusi, in Italia sembra non esistere o essere solo una prerogativa di taluni individui chiamati “fascisti”.

Io già altre volte mi sono posto il problema se sono le ferite non sanate del nostro animo nazionale, conseguenza di quindici secoli di divisione e sottomissione allo straniero ad aver creato le condizioni per la mancanza di coesione nazionale, mancanza di coesione in cui prosperano ideologie internazionaliste come il comunismo e il cristianesimo cattolico, o se sono marxismo e cristianesimo ad aver prodotto e continuare a produrre questo scollamento fra l’Italia e gli Italiani, ma credo che sia un discorso che si morde la coda e i due fenomeni si alimentano a vicenda. Oggi come forse mai in passato, gli Italiani vorrebbero essere o pretenderebbero di essere tutto meno che italiani. Guardate la massa di nomi stranieri che c’è fra i ragazzi delle nuove generazioni, o la massa di barbarismi, soprattutto anglicismi, che impesta il nostro linguaggio e lo rende sempre più dissimile dalla lingua di Dante e di Manzoni.

magazzino-18D’altra parte, i comunisti, dalla caduta dell’Unione Sovietica a oggi, hanno cambiato almeno una mezza dozzina di volte denominazioni e sigle, ma sono sempre gli stessi. Da quando, a parziale e tardiva ammenda del lungo e ingiustificabile oblio in cui sono state lasciate le vittime delle stragi slavo-comuniste e la tragedia di quanti hanno dovuto fuggire dalla loro terra e dalla loro casa per non fare la stessa fine, è stata istituita la giornata del ricordo del 10 febbraio, non è passata una volta senza che questa celebrazione, tutt’altro che corale, non sia stata accompagnata da contromanifestazioni dei “compagni” e da profanazioni ai monumenti e simboli che ricordano quelle vittime massacrate solo perché italiane. Ricordiamo tra gli altri i casi dell’attore Leo Gullotta che per la sua partecipazione allo sceneggiato Il cuore nel pozzo che dopo sessant’anni di silenzio è stato il primo a far conoscere al grosso pubblico italiano la tragedia delle foibe, a un congresso del PD è stato vittima di una contestazione sfociata nell’aggressione fisica (e stiamo parlando del PD, NON dei Centri Sociali o dei No Global) e di Simone Cristicchi, la cui opera teatrale Magazzino 18, dedicata all’esodo che, dopo ripetute pressioni e minacce, ha dovuto essere rappresentata in edizione censurata. Orwellianamente, per i “compagni” la verità storica è il nemico peggiore da combattere con ogni mezzo, con l’intimidazione e con la violenza perché non possa essere conosciuta soprattutto dalle generazioni più giovani.

Ma il vero punto è un altro. Provatevi solo a immaginare quale putiferio si scatenerebbe se qualcuno nei nostri ambienti decidesse di organizzare una contromanifestazione al corale piagnisteo del 27 gennaio, mentre le contestazioni alla giornata del ricordo che cade nell’anniversario della firma del funesto trattato di pace, rientrano in una squallida “normalità”. Eppure i morti nelle foibe sono i nostri morti, la gente costretta a scappare dall’Istria è la nostra gente, vittime della bestiale furia comunista per la colpa di essere italiani. Il vero problema è che moltissimi, anche di coloro che si dichiarano anticomunisti, continuano a considerare il comunismo un’ideologia rispettabile invece della mistura di menzogna e violenza, di sterco e sangue che è.

Con rammarico e disgusto, tocca segnalare che la recente affermazione del PD a livello amministrativo nella nostra regione come in tutta Italia, con Debora Serracchiani alla guida regionale e Roberto Cosolini sindaco di Trieste, significa soprattutto una cosa: l’avvenuto passaggio del testimone dalla generazione dei figli di coloro che la seconda guerra mondiale la vissero, a quella dei nipoti. Mentre noi abbiamo potuto apprendere dalle labbra dei nostri genitori la testimonianza viva di questi fatti, anche e soprattutto là dove essa discorda dalla storia ufficialmente accreditata, la stessa trasmissione di seconda mano non funziona altrettanto bene, e i nostri figli sono più facilmente vittime del plagio mediatico per cui gli sconfitti hanno sempre torto, e i vincitori hanno ragione per il solo fatto di aver prevalso con la forza bruta.

Anche sulla “democrazia occidentale” importata in Italia come nel resto dell’Europa dagli angloamericani attraverso bombardamenti terroristici contro le popolazioni civili che hanno fatto milioni di morti, ci sarebbe moltissimo da dire, ma è particolarmente grave che si dia a intendere che il comunismo sia o possa essere altro che brutalità assassina.

Nel 2006, quando fu inaugurato il monumento della foiba di Basovizza, a oltre sessant’anni dai tragici giorni che avevano visto migliaia di triestini sparire in quell’anfratto carsico (Questa foiba ha la particolarità di trovarsi un un territorio che per caso è tornato a essere italiano, ma ce ne sono centinaia riempite dalle ossa dei nostri connazionali trucidati nelle terre che ci sono state sottratte. Un calcolo esatto degli assassinati non è mai stato fatto, ma sono decine di migliaia, mentre gli esuli, costretti col terrore ad abbandonare le loro terre ammontarono a quasi mezzo milione), l’allora sindaco di Trieste Roberto Dipiazza fece un discorso talmente vago, che i giornalisti del “Piccolo”, il quotidiano triestino presenti alla cerimonia, chiesero ai ragazzi intervenuti se avessero capito o sapessero chi fossero stati gli autori dell’eccidio. Alcuni ammisero di non saperlo e non averlo capito, altri risposero “i nazisti”. Nessuno aveva capito o sapeva che gli autori del massacro che aveva colpito così crudelmente la nostra gente erano i comunisti jugoslavi.

Roberto Dipiazza non è un uomo di sinistra, del PD o simili, ma del PDL, allora alla guida di una giunta di centrodestra. E’ la paura di essere bollati come “fascisti” che impedisce di dire la verità a chiare lettere.

Perché il male trionfi, non sono necessarie molte complicità attive, sono sufficienti l’acquiescenza e la pavidità dei “buoni”.

Noi non abbiamo molte armi in questa lotta, solo quella della parola, ma siamo qui a testimoniare le verità “scomode”, quelle che è importante che soprattutto i più giovani conoscano, e continueremo a farlo senza timore, finché non avremo la bocca piena di terra, sul fondo di una foiba o altrove.