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Lealtà, amicizia, perfetta confidenza eternati sul marmo della Colonna traiana

di Francesco Lamendola - 07/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

Molto è stato detto e molto è stato scritto sulla straordinaria vivacità, sulla freschezza e sul sapiente realismo psicologico che caratterizzano le scene scolpite sulla Colonna traiana in Roma; ma se ne è discusso soprattutto dal punto di vista artistico, come esempio del gusto della media età imperiale, o dal punto di vista storico, come valida testimonianza della campagna condotta da Traiano contro la Dacia nel 101-102 e 105-07, e terminata con la conquista e la sottomissione di quella vasta regione e con la morte per suicidio del re Decebalo.

Qui vorremmo spendere qualche parola da un altro punto di vista, e cioè come riflesso di una nuova sensibilità psicologica, morale ed umana, testimoniata da alcune scene, specialmente fra quelle che non rappresentano episodi bellici, ma squarci di vita nell’accampamento romano, o durante le marce, o sotto le tende. Una, fra le tantissime altre – si tratta d’una composizione straordinariamente estesa: la colonna è alta 40 metri, senza contare la statua che la sormonta, ma la lunghezza totale del fregio arriva ai 200 metri – si segnala per la sua eccezionale potenza espressiva ed incisività spirituale: quella del colloquio fra Traiano ed un suo generale.

Si tratta, dal punto di vista compositivo, di una delle scene più semplici: due figure umane strettamente accostate e, in parte, lievemente sovrapposte: il “princeps” e il giovane collaboratore intenti a scambiarsi pareri circa la linea da tenere o i provvedimenti da adottare. Si intuisce che il frangente deve essere estremamente serio, forse drammatico, anche se il viso e la postura di entrambi non tradiscono alcun senso di panico o di sovreccitazione: sono calmi, pacati, sicuri, ma, nello stesso tempo, carichi di tensione trattenuta: sanno che dalle loro decisioni dipende la sicurezza dell’esercito e, forse, l’esito della campagna.

Il rilievo non è molto alto, però le due figure emergono con forza dallo sfondo piatto e privo di particolari che potrebbero distrarre l’attenzione dell’osservatore, e risulta ulteriormente accentuato  dai contorni scavati per mezzo del trapano; le ombre sono nette, la luce cade limpida sui due volti e sul gesto delle mani dell’imperatore, che sembra accompagnare l’andamento conciso e assertivo del dialogo. Ma la cosa più straordinaria della scena, il vero protagonista di essa, è il gioco degli sguardi che s’incrociano alla medesima altezza: sono due paia d’occhi franchi, leali, assuefatti a una lunga e sperimentata amicizia; di più, a una leale, indefettibile comunanza d’intenti, non solo tra due militari che collaborano per il felice esito dell’impresa in cui sono impegnati, ma di due intimi amici che si conoscono, si stimano, nutrono una assoluta fiducia reciproca, e che mirano a individuare i mezzi più idonei per raggiungere il fine, nell’interesse comune, ossia con il minor spreco possibile di vite umane e di sofferenze.

Non si percepisce alcuna soggezione, alcuna sudditanza dell’inferiore verso il superiore, ma, semmai, solo rispetto e totale confidenza: il più giovane ascolta, il più anziano espone il suo piano, e fra loro si instaura una corrente di perfetta sintonia, non solamente tecnica, ma umana: sono due menti che concorrono alla realizzazione di un unico piano; ciascuno è e rimane se stesso: eppure, nello stesso tempo, è come se, in quel momento, essi formassero un unico corpo, un’unica mente, in cui ogni pensiero si esterna con assoluta trasparenza, e, forse, appare chiaro e terso anche ciò che non viene detto, ma rimane sottinteso.

Vengono in mente le famose parole di Aristotele, a proposito dell’amicizia, affidate all’«Etica Nicomachea», in IX, 12 (edizione a cura di A. Plebe, Bari, Laterza, 1965):

 

«E dunque, come per gli innamorati il vedersi è la cosa più cara e soprattutto preferiamo questa sensazione alle altre, in quanto l’amore consiste soprattutto in essa e sorge da essa, anche per gli amici la cosa più desiderabile non è forse il vivere insieme? Infatti l’amicizia è comunanza. Infatti come una persona si comporta verso se stessa, così si comporta anche verso ‘amico: rispetto a noi è desiderabile la sensazione che si esiste, e così  dunque anche rispetto all’amico; ma l’attività in atto di questa sensazione si manifesta nel convivere, così naturalmente si aspira ad esso. E per ciascuno ciò che vale per lui come esistenza o ciò in vista di cui egli sceglie di vivere, questo egli vuole che sia in comune nel convivere con gli amici; perciò alcuni si riuniscono per bere, altri per giocare ai dadi, altri per far ginnastica, o per cacciare, o per filosofare, ciascuno trascorrendo le giornate in quel modo che soprattutto ama nella vita; infatti,m volendo convivere con gli amici si danno a ciò e accomunano ciò, con cui intendono passare il tempo con gli amici. Perciò l’amicizia delle persone cattive diviene perversa (essi infatti accomunano cose cattive, essendo incostanti, e diventando perverse, diventando simili l’una all’altra), invece l’amicizia delle persone convenienti è conveniente e si perfeziona col loro frequentarsi. Esse sembrano anzi migliorarsi, esercitando la loro attività e correggendosi a vicenda; esse infatti scremano, per così dire, l’una dall’altra ciò che a loro piace; da cui il detto: dai nobili apprendi nobili cose.»

 

Comunanza: ecco la parola chiave di questo genere di amicizia; che indica non tanto e non solo una prossimità fisica – la quale, come già aveva osservato Cicerone (e tutto il suo epistolario ne è la riprova), può anche non esservi –, quanto una vicinanza intima, spirituale, quale è quella che si instaura, dopo una lunga consuetudine, fra due esseri umani che si conoscono ormai così bene, e ripongono una tale confidenza l’uno nell’altro, da poter intuire i reciproci pensieri senza quasi bisogno che essi vengano espressi a parole. Questo accade anche agli amanti, almeno quando si trovano ad un certo livello di consapevolezza spirituale; tuttavia, fra gli amanti l’elemento sensuale finisce per intorbidare, prima o poi, la trasparenza di quel flusso di energie interiori e di intima, disinteressata simpatia che abbiamo chiamato “comunanza”: perché l’amore, anche il più sublime, non è mai del tutto disinteressato, mentre l’amicizia può esserlo, anzi, la vera amicizia deve esserlo e non potrebbe non esserlo.

Ci si è domandati chi sia il giovane personaggio che affianca Traiano e che, con lui, campeggia come protagonista nella celebre scena del colloquio. Gli storici pensano di essere riusciti a identificarlo: si tratterebbe di un carissimo amico e collaboratore di Traiano, Lucio Licinio Sura, spagnolo come lui, essendo nato a Barcellona nel 40, e dunque più giovane di quello di tredici anni (l’imperatore era nato a Italica, nella Baetica, corrispondente all’odierna Andalusia, il 18 settembre del 53). Dopo aver ricoperto la carica di governatore della Germania Inferiore nel biennio dal 98 al 99, ricoprì il consolato per ben tre volte – nel 97, nel 102 e nel 107 – e fu accanto al “princeps” in entrambe le campagne daciche, segnalandosi come uno dei suoi più stretti consiglieri militari e forse il più intimo amico, fornendogli la preziosa assistenza dei suoi consigli e della sua perizia militare, congiunta a una forte dose di moderazione e di realismo. Era così ascoltato da Traiano che fu lui a suggerirgli di trasmettere la successione al futuro imperatore Adriano: scelta così felice che bene attesta la ponderatezza e la preveggenza di Sura.

Si narra che all’orecchio di Traiano, un giorno, giunse una “soffiata” relativa a una congiura che sarebbe maturata contro di lui proprio da parte dell’amico fidatissimo. Egli, allora, per mostrare che non teneva in alcun conto simili insinuazioni, si recò a banchetto in casa di Sura, dal quale era stato invitato, assaggiando tutti i cibi delle diverse portate e, da ultimo, arrivando a offrire il collo al barbiere, per farsi radere la barba: e anche questo aneddoto, se vero, attesta quanto fosse salda e al tempo stesso ben riposta la fiducia che Traiano poneva nel suo amico. Non possono non venire alla mente le parole di Aristotele circa l’amicizia come comunanza fra buoni, portatrice di buoni frutti, mentre l’amicizia i fra malvagi, ammesso che sia realmente possibile – perché basata essenzialmente sull’interesse – non potrà mai dare altro che pessimi frutti, essendo la somma di due, o più, cattive disposizioni individuali. Del resto, l‘affetto e la stima di Traiano verso l’amico, che lo conosceva da prima della sua salita al trono, lo spinsero a fargli erigere diverse statue nel Foro.

E che, nel colloquio fra Traiano e Sura (se di Sura si tratta), vi sia siano la lealtà e la confidenza di due amici che operano con retta coscienza, come è proprio dell’amicizia fra buoni, lo testimoniano i loro volti, i loro sguardi, i loro gesti: nulla di torbido o di ambiguo si potrebbe scorgere in essi, ma solo la franca, concreta, volitiva ricerca del bene: cioè, nel caso specifico, della saggia e prudente conduzione delle vite che sono loro affidate.

Hanno osservato Piero Adorno e Adriana Mastrangelo (in: «L’arte degli artisti. Vol. 1: Dalla preistoria all’età gotica», Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 2002, p. 141):

 

«Il racconto scolpito sulla colonna contiene tutti i registri di una vera e propria narrazione: alla concitazione della guerra, all’eroismo dei soldati, alla morte, alla disperazione si alternano episodi assai più pacati, raccolti, piccole scene di quotidianità che contribuiscono a rendere tanto più umana una vicenda per altri versi “epica”.

Si noti ad esempio come lo scultore rende la riservatezza, l’importanza del colloquio fra Traiano e uno dei suoi, la reciproca lealtà dei due personaggi. Le loro teste sono isolate contro lo sfondo lisci; il giovane guarda l’imperatore negli occhi, e questi ricambia lo sguardo. In questo legame così diretto e intimo, sottolineato dalla medesima statura delle due figure e dalla posizione del braccio destro di Traiano, passa una corrente di reciproca fiducia, la consapevolezza della gravità del momento ma anche la sicurezza di poter contare sull’appoggio di altri che condividono responsabilità e preoccupazioni.

Qui, come nel resto della grande fascia narrativa, il rilievo è basso, pittorico e intensamente chiaroscurato, pur raggiungendo effetti di vivido plasticismo. Inoltre è contornato da un solco eseguito con il trapano, una linea di contorno che, come il disegno, individua l’oggetto ritratto e che ha probabilmente origine nella pittura greca ed ellenistica.»

 

Tutto vero. Quello che va sottolineato, oltre a ciò, è il fatto che, se l’amicizia esisteva certamente, come sentimento naturale, da tempo immemorabile, non solo nel mondo greco e romano, ma in tutto il mondo antico, quella che traspare dai rilievi della Colonna traiana è una maniera particolare e, per certi aspetti, nuova di rappresentarla: più intensa, più fiduciosa, più solidale di quanto non lo fosse mai stata prima; segno di una sensibilità nuova, che si andava affermando nelle coscienze in quegli ultimi secoli della civiltà antica, forse anche per l’azione concomitante del cristianesimo, che di questo genere di amicizia, totalmente disinteressata e spinta fino al sacrificio di sé, aveva fatto il più alto valore umano («nessuno ha un amore più grande di questo: morire per i propri amici», Vangelo di Giovanni, 15, 13).

Nei primi due secoli dell’Impero si vennero elaborando una nuova concezione del mondo e una nuova etica, non più legate all’ormai tramontato paganesimo greco-romano, ma influenzate, semmai, da altri culti e da altre filosofie, di provenienza orientale, fra i quali c’era anche il cristianesimo. Espressione della nuova sensibilità sono, ad esempio, sia il disgusto per i sanguinosi spettacoli circensi, espresso da un filosofo come Seneca, sia la pietà manifestata verso gli sconfitti, così caratteristica di un poeta come Virgilio. Quest’ultimo sentimento è rappresentato anche sul marmo della Colonna traiana, particolarmente nell’episodio della morte di Decebalo, il valoroso re nemico che preferisce darsi la morte, piuttosto che cadere nelle mani degli inseguitori; ma anche in quello, sublime e tragico, dei Daci che si avvelenano in massa, sempre per evitare l’onta della schiavitù. Più in generale, lungo tutti i 200 metri della raffigurazione campeggia un sentimento di rispetto per il nemico: sentimento affatto nuovo, sia nell’arte che nella poesia, se è vero che ancora nelle pagine del «De Bello Gallico» di Cesare invano vi si cercherebbe qualche cosa di simile, qualche cosa che assomiglia alla pietà o alla commiserazione per le sofferenze di un nemico che aveva pur lottato con valore per difendere la propria libertà.

E così il nuovo tipo di amicizia che scaturisce dallo sguardo intenso scambiato fra Traiano e il suo generale: uno sguardo che attesta una sensibilità nuova, una maniera nuova d’intendere l’amicizia, quale non si trova in altre opere o in altre pagine della letteratura antica.

Il vecchio mondo è finito, con la sua ipertrofica celebrazione dell’io e, in particolare, delle imprese guerriere individuali, sulla “areté” (latino: “virtus”) intesa essenzialmente come virtù guerresca, come smania di far rifulgere la propria eccellenza a discapito degli altri, sminuendoli, mettendoli in ombra. Una smania così furiosa che perfino i giochi funebri in onore di Patroclo manca poco che si trasformino in un pretesto per trasformarsi in uno scontro all’ultimo sangue fra i compagni dell’estinto. È un mondo greve, quello pre-cristiano: senza compassione, senza misericordia; un mondo che ha ridotto in schiavitù milioni di persone e che si diletta sadicamente delle sofferenze altrui, come nel caso delle gigantesche mattanze nei ludi gladiatorî.

Al suo posto, lentamente, sta nascendo un mondo nuovo, il mondo fondato sul “tu”, nel quale l’io avverte di non poter stare bene, di non poter trovare la pace, se non in accordo e in armonia con l’altro, visto non più come un potenziale nemico o, quanto meno, come un concorrente dal quale bisogna guardarsi, ma come un membro della stessa famiglia umana: e, dunque, come un figlio del medesimo Padre.