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Julius Evola, il nichilista?

di Umberto Bianchi - 15/07/2014

Fonte: mirorenzaglia


Quarant’anni dalla morte. Eppure sembra solo l’altro giorno, per le polemiche, i dibattiti, i “memento”, le annotazioni, che la figura del Barone tuttora attira su di sé, quantomeno in una determinata “area” di pensiero. Difatti, mai una figura di intellettuale fu tanto oggetto di ammirazione, polemica, ostinata ed ostile indifferenza, quanto quella del Barone Giulio Cesare Andrea in arte Julius Evola. Ostinato attaccamento, mancanza di personalità di riferimento o qualcos’ altro? Né la acritica adulazione (la tanto deprecata “evolomania”) né le periodiche critiche da parte di quanti ne vedevano un ottuso reazionario (criticò il ’68!…..), il deprecabile detrattore del luminoso Verbo fasciofuturista o addirittura l’oscuro negromante, nel ruolo di ispiratore occulto delle varie scelte strategiche del terrorismo nero da cinquant’anni a questa parte (dalla vicenda dei FAR, alle accuse di collusione di certi ambienti ordinovisti con la Cia, sino alle scelte “spontaneiste” della fine degli anni ‘70), né le altre ridde di accuse, sono state però in grado di conferire un giusto inquadramento alla figura di questo autore ed a porre un punto fermo sull’intera “vexata quaestio” sulla natura e sul destino di un ambiente e di una visione del mondo, che sembrano essere caratterizzati da un legame di indissolubile dipendenza dalla figura evoliana.

Va detto, anzitutto, che Evola è figlio del Novecento e di tutte le sue tormentate contraddizioni. In lui si riassumono i cento volti di un pensiero non conforme e delle sue altrettante tentazioni, attraverso un tortuoso percorso nei meandri di un animo umano, sempre in bilico tra la ricerca di una dimensione trascendente, in grado di supportare la piena autorealizzazione del Sè ed il Chaos delle infinite possibilità. Evola parte da una iniziale fase di estetizzante sperimentazione artistica, caratterizzata dall’adesione all’ avanguardia dadaista ma anche da quella ad un idealismo assoluto di schellinghiana memoria le cui venature magiche ci portano più verso i vari Novalis, Schleiermacher e via discorrendo che non verso un’incondizionata ed accademica adesione ad uno dei vari mostri sacri del pensiero, quali Kant, il già citato Schelling o l’ultragettonato Hegel.

E’ il periodo della frequentazione del sodalizio magico di Ur, a cui aderiranno a vario titolo i più svariati ed insigni rappresentanti del pensiero magico-esoterico italiano di quel tempo. Dal pitagorico Arturo Reghini a Giovanni Colazza, passando via via per Guido De Giorgio, Leone Caetani, Emilio Servadio ed altri ancora, pitagorici, teosofi, massoni, occultisti e seguaci della psicanalisi sopra le righe, tutti insieme appassionatamente, nel nome della folle pretesa di poter esercitare una qualsivoglia influenza sulle scelte di campo del Fascismo, indirizzandone in un senso più prettamente pagano-romano le scelte politiche e religiose, attraverso la pratica magica. I contrasti interni, che porteranno alla fine di quel sodalizio, condurranno anche ad una ulteriore svolta del pensiero di Evola che, si farà in breve cantore di quel particolare filone di pensiero i cui prodromi sono da ravvisarsi nelle elaborazioni di Lamennais, De Bonnald, De Maistre ed in quelle del suo contemporaneo Renè Guenon.

Julius Evola si appropria delle categorie del pensiero tradizionale e le trasferisce sul piano dell’azione meramente politica. Al pari del francese Renè Guenon, Evola vede nella Modernità ed in tutte le sue manifestazioni, l’ineludibile segno di una decadenza connaturata ad un’epoca, contro cui poco o nulla si può fare, se non rimanere in piedi, come “uomini tra le rovine”, senza però tralasciare il tentativo di far combaciare una visione del mondo “tradizionale”, con la realtà di un’epoca in cui spirano impetuosi i venti del cambiamento.

Rimodellare il mondo sensibile secondo l’immutabile ordine del mondo delle idee, diviene così per Evola una ineludibile priorità. La tradizione si fa archetipo in base alla quale dare ordine e senso ad un mondo oramai senza più alcuna direzione, trascinato verso le bassezze del più abbietto materialismo. Ridare un senso al mondo, orientandone ed ispirandone vita e i ritmi, secondo un ordine che guardi verso l’alto, il trascendente, rimodellandone pertanto le coordinate in un senso profondamente disugualitario, piramidale, gerarchico. A tal fine diviene necessario identificare il tipo umano che dovrà guidare il nuovo ordine. Sarà l’ “uomo differenziato” colui a cui spetterà il compito di farsi carico di educare e riumanizzare le masse abbrutite dal materialismo. Promuovere l’idea di uno stato frutto di un’impostazione organica, al cui interno ognuno trova spontaneamente la propria collocazione, in un ordine gerarchico che vuol riflettere in terra l’ordine celeste. Attaccamento, abnegazione e fedeltà al pari di valori quali ordine, gerarchia, lealtà, coraggio, nel portare avanti uno stile di vita impostato su quei valori che dell’archetipo tradizionale costituiscono gli ingredienti il cui maggiore o minor dosaggio, determinano quegli ordini, quelle aristocrazie dello spirito, il cui compito è quello di guidare ed ispirare il novello stato organico.

La ricerca evoliana andrà più volte concentrandosi sul tentativo di identificare via via, quali tra i candidati possano essere i prescelti per un ruolo di elites-guida in quel progetto volto all’edificazione di uno stato organico. L’aristocratico disprezzo per le masse, la ricerca di un’aristocrazia dello stile e dello spirito, la malcelata diffidenza per la Modernità, fanno di Evola un autore sicuramente in controtendenza con lo spirito dell’ufficialità fascista, da cui fu debitamente tenuto ai margini della vita culturale. Nella Germania nazionalsocialista incarnante con maggior fedeltà gli ideali della disciplina prussiana, Evola troverà sicuramente più ascoltatori che in Italia, ma non senza rimarcare anche qui delle non irrilevanti differenze con l’ufficialità nazionalsocialista. Il razzismo anzitutto. Evola rifugge dalla facile tentazione di qualunque razzismo biologista, a suo dire frutto del medesimo materialismo che anima il moderno spirito sovversivo. A fare l’uomo è l’aderenza ad uno stile di vita, ad uno spirito, che deve esser mostrato con la quotidiana pratica e stile di vita, e non con l’appartenenza sic et simpliciter ad un qualsivoglia gruppo razziale. Lo stesso paganesimo panteista e naturalista, alla base di certo pangermanesimo, così come da autori come Rosenberg ed altri enunciato, è visto da Evola con diffidenza. Un paganesimo frutto di una visione immanentistica del rapporto dell’uomo con la trascendenza, non è compatibile con il carattere di totale separazione rispetto al mondo materiale che caratterizza la concezione evoliana.

Il lascito della sconfitta dell’ultimo conflitto mondiale, non sarà solamente materiale. La vitale spinta verso il futuro, incarnata nella gentiliana etica del lavoro, la mobilitazione delle masse attorno ad un’idea di nazione “altra”, abbandonate e tradite da un ceto intellettuale approdato alle suggestioni ed alle sirene del marxismo togliattiano e del cattolicesimo dei vari Don Sturzo, lascia, nel manipolo degli orfani del fascismo, spazio ad un cupo pessimismo, ad uno spirito da ultimo ridotto, che solo uno scrittore quale Julius Evola, proveniente dalle fila del più esasperato ed aristocratico esoterismo, poteva interpretare.

Pertanto, lo spirito che anima gli scritti di Evola, ben si adatta al mutato clima del dopoguerra, tanto che ben presto quest’ultimo sarà eletto a nuovo “maitre a penser” della Destra Radicale nostrana. Il percorso esistenziale di Evola, farà così tutt’uno con le vicende dell’ambiente della destra radicale italiana. Di fronte alle deludenti vicende politiche di un ambiente sempre più frazionato e diviso, il percorso intellettuale evoliano andrà sempre più allontanandosi dalla ricerca di una elite attraverso la quale realizzare lo Stato Organico, sempre più muovendo invece in direzione di una ricerca che rinsaldi e rinforzi lo status interiore di uomo differenziato, divenuto oramai l’unico possibile obiettivo perseguibile in un mondo oramai alla deriva. L’ultima fase del pensiero evoliano è, sicuramente, quella che maggiormente presta il fianco ad una lettura ambigua, a più voci. Da una parte viene posto l’accento su una dimensione più intimistica dell’esistenza, dall’altra si invita ad agire in un mondo che si giudica estraneo, ma di cui si accettano “in toto” le profonde contraddizioni.

Qualcuno ha intravisto nelle enunciazioni evoliane un più o meno implicito invito ad intraprendere la via della lotta armata. In tal modo, Evola sarebbe divenuto l’ispiratore occulto delle formazioni che, nell’ambito dell’estremismo nero italiano, intrapresero tale scelta sul finire degli anni ’70.

Il grande autore è stato molto spesso fatto oggetto di banalizzazioni di ogni genere e tipo su cui nemmeno vale la pena di soffermarsi. Nel caso dell’accusa di cui sopra, è però necessaria una precisazione che abbraccia la sua intera impostazione. Ben lungi dall’assunzione dello sgradevole ruolo di ispiratore occulto, Evola ed il suo pensiero si intersecano strettamente con l’intera vicenda di un percorso che caratterizza un’intera generazione, tutta all’insegna dell’antagonismo. Qui, al di là del colore politico, dalla ricerca di un appiglio di ordine metafisico, si finisce con l’approdare nello sconfinato mare del nichilismo.

Le sollevazioni giovanili occidentali, inizialmente partite all’insegna di un ribelle vitalismo, cercano, a partire dal ’68, di dare alle proprie istanze un carattere metafisico, totalizzante, andando a rivestire l’intero contenuto della propria esistenza di un significato politico “totale”, in grado di coinvolgere qualunque lato dell’esistenza. E poi le manifestazioni di massa, la militanza, una robusta visibilità mediatica. Tutto sembrava spingere in direzione di un nuovo totalitarismo occidentale. L’appiglio metafisico offerto dall’erigere i “valori” (di destra e di sinistra) a scudo e difesa dell’ineluttabilità di un impetuoso divenire all’insegna di un esasperato economicismo, mostrerà ben presto la propria illusorietà.

I grandi sistemi ideali della Modernità, con il confluire di quest’ultima verso la Post Modernità, vanno via via assumendo il carattere di parole vuote, il cui significato verrà invece cercato nell’azione, di cui la lotta armata, fine a se stessa, rappresenterà la massima realizzazione. Qui allo spirito propositivo che caratterizzava la prima fase dei totalitarismi novecenteschi (sino al ’45) si sostituisce una volontà di totale azzeramento ed annichilamento. La lotta armata prepara inconsciamente la fase ultima della civiltà occidentale, in cui alla perdita di un significato univoco del mondo viene sostituita la possibilità di una molteplicità di significati, altrettanto relativi ed intercambiabili. L’economia in quanto organizzazione teorica del profitto, assurge ad unico anti-significato che avvolge inestricabilmente il mondo tra le proprie spire.

Evola di tutto ciò è l’anticonformista testimone. A suo favore ed a quello di autori come un De Maistre, un René Guénon, va riconosciuta la capacità di rielaborare in senso archetipico quell’insieme di conoscenze e saperi che vengono raccolti sotto la qualifica totalizzante di “tradizione”, di modo che assurgano ad un ruolo preminente nella formazione interiore dell’ individuo.

Questo piano di lettura della realtà, se da una parte porta in sé il fascino di una potente carica evocatoria, rappresentata dall’esistenza di un piano superiore a cui tutto viene rimandato, dall’altra trova in questo elemento il proprio insuperabile limite che ne impedisce una visione d’assieme più ampia in grado di abbracciare contemporaneamente anche altri piani della realtà.

Il tradizionalismo in questo modo, finisce con l’entrare a far parte a pieno titolo (anche se in una versione anticonformista) di quel problema sinora senza vie d’uscita, rappresentato dalla metafisica occidentale, il cui percorso, negli ultimi e più agitati scorci di Novecento,  da Destra a Sinistra, da Evola a Marcuse, va in un solo senso: quello nichilista. A tal fine, Julius Evola ed Herbert Marcuse, due autori che, all’apparenza, più lontani non potrebbero essere, possiedono molte più analogie di quello che si potrebbe pensare. Ambedue vivono con la consapevolezza di un’epoca votata al più totale disincanto, in cui ad esser protagoniste di radicali cambiamenti non possono essere le masse, oramai sedotte dalle sfavillanti luci del benessere, bensì dei gruppi esclusivamente minoritari. Per Marcuse tali gruppi saranno rappresentati dal “lumpenproletariat”, cioè da quell’assieme di entità marginali presenti all’interno delle società dell’Occidente industrializzato, quali i “senza tetto”, i barboni, ed altre simili realtà umane, espressioni del disagio sociale. In Evola la stessa impostazione “minoritaria” riguarda l’elaborazione di uno stato apertamente definito “aristocratico”, espressione di quelle “elites”, che in guisa di una vera e propria minoranza illuminata sono gli unici soggetti a cui può esser affidato il potere; tra loro e le masse vi è quindi uno iato incolmabile, che può esser sistematizzato solo tramite l’impostazione di una società organizzata secondo una ferrea gerarchia. I progetti politici di Evola e di Marcuse tendono ad una realizzazione che, vista la connotazione negativa dei tempi che ne rende assai difficoltosa e lontana l’attuazione, tende ad avere un valore più simbolico che reale, traducendosi in uno scontro totale con una realtà con cui non può esservi alcun atteggiamento conciliatorio.

La disparità delle forze in campo e l’impossibilità di condurre una lotta di un certo tipo, hanno molto spesso portato all’isolamento in splendide “torri d’avorio” molti di coloro che si sono fatti portavoce di determinate tematiche. La progressiva trasformazione in senso settario di molti gruppi d’ispirazione antagonista (sia quindi di “destra” che di “sinistra”) è un evidente sintomo di quanto qui detto e fa parte di una più articolata trasformazione della società occidentale che, a partire dagli Stati Uniti ha avuto i propri prodromi. Assurgendo il Totalitarismo ad una dimensione puramente mitica, non può che conseguirne che determinate categorie (quali Destra e Sinistra, in primis) sono ora divenute solamente archetipi comportamentali, non più sufficienti di per sé a caratterizzare nuovi percorsi di pensiero, senza ricadere nel problema della metafisica occidentale. Per questo, quella di Evola è una vicenda tutta da reinterpretare all’insegna del nichilismo, sotto la cui lunga ombra l’autore muove i suoi passi, attraverso le intemperie di quel Novecento di cui, si può ben dire, egli è  il magico interprete.

Troppo spesso, però, si è cercato di inquadrarne la figura nelle sempre più strette categorie politologiche destra-sinistra o fascismo-antifascismo, cercando di ravvisare nel grande autore quei punti che lo potessero in qualche modo omologare all’una o all’altra categoria. Tutto questo senza capire che Evola è probabilmente stato l’ultimo mago del Novecento, colui che ha cercato di applicare le coordinate di pensiero guenoniane alla Modernità, vivendo appieno sulle proprie spalle, tutta la contraddizione di una scelta simile. Sua unica e vera eredità, quella “parole obscure du paysage interieur”, quale esempio di “scrittura vivente”, ancora in grado di spalancare il nostro animo a dimensioni e mondi stupefacenti, con cui lo sterile accademismo dei vari professorini malaticci di una smunta “evolomania” e l’ipocrita asservimento a tristanzuole logge, loggette o ad asfittiche “famigliole” politiche nostrane, non ha proprio nulla a che vedere.