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Un disastro ecologico nel Mediterraneo

di redazione - 22/08/2006

 
L’ambiente non va in guerra, non lancia missili, non conosce confini, eppure è vittima di molti nemici. Nel caso specifico, è toccato ad almeno 120 chilometri di costa mediterranea, dal Libano alla Siria, fino a Cipro e alla Turchia, inondati da 30 mila tonnellate di olio combustibile: un cocktail chimico composto di idrocarburi policiclici, benzene, benzopirene, tuolene e policlorobifenili (pcb). Nomi astrusi accomunati dall’alta tossicità. Tante ne conteneva la centrale elettrica di Jiyyeh, a 30 chilometri da Beirut, bersaglio strategico bombardato ripetutamente dalle forze israeliane il 13 e il 15 luglio. E tante ne sono finite in acqua, provocando i tristi e consueti danni delle maree nere: animali marini incatramati a morte, fondali uccisi da un velo vischioso e insolubile, spiagge ridotte a una mortifera poltiglia nera. Al combustibile fuoriuscito dai serbatoi della centrale, secondo alcune fonti, si sarebbero aggiunti quello di una fregata militare israeliana colpita da missili Hezbollah e le acque di lavaggio di due petroliere in transito che avrebbero, per così dire, approfittato dell’occasione. In più, non si tratta di soli gabbiani e granchi: quello libanese è un litorale intensamente popolato, almeno 3 milioni di persone costrette a inalare il micidiale aerosol di sostanze altamente cancerogene sprigionato dall’incendio e diffuso nell’aria. Le conseguenze in questo caso possono essere avvertite anche a decenni di distanza. Il paragone più immediato è il disastro ecologico scatenato nel Golfo Persico nel 1991 quando i soldati iracheni, ritirandosi, diedero fuoco ai serbatoi di petrolio e in mare si riversarono otto milioni di barili di oro nero. Ma la storia recente è ricca di drammi di questo genere, a cui la guerra spesso è estranea, come l’affondamento della petroliera Exxon Valdez o della Torrey Canion. La differenza, in questo caso, è l’ormai enorme ritardo negli interventi di bonifica: in genere entro 48, 72 ore, è possibile mandare sul posto unità specializzate. Ma la guerra e l’embargo hanno bloccato a lungo l’accesso al Libano e ogni normale attività. L’8 agosto l'Icram, il punto di riferimento per le emergenze petrolifere in Italia, aveva già dato disponibilità a intervenire e due giorni dopo la task force aveva iniziato il lavoro sulla costa siriana ma solo da domani potrà iniziare il lavoro nella parte libanese.

A ruota è seguita l’Unione europea inviando dalla Norvegia i mezzi del Mic, il centro per il monitoraggio della protezione civile europea. In pratica, però, l’azione di disinquinamento sulle coste libanesi è diventata un’opzione praticabile e non una mera dichiarazione d’intenti solo dopo il cessate il fuoco. Finora l’unico intervento è stato quello, coraggioso e utopico, di un pugno di ambientalisti libanesi dell’associazione Linea Verde che, armati di secchi e pale, hanno cercato di ripulire alla meglio la spiaggia di Ramlet el-Bayda, vicina a Beirut. A loro giudizio per riparare i danni del «peggior disastro ecologico nel Mediterraneo» ci vorranno almeno sei anni. Di sicuro ci vorranno, secondo le stime degli esperti, almeno 50 milioni di euro, una cifra calcolata per difetto sulla base di quella spesa quando, nel 1991, la petroliera cipriota Haven riversò nel Golfo di Genova 20 mila tonnellate di greggio contaminando la costa sino al Sud della Francia. Stime da prendere sempre con beneficio d’inventario perché il danno al mare e alle coste è solo l’aspetto più evidente del problema, complicato dalla geografia della costa densamente popolata dove centri abitati e coltivazioni si mescolano senza soluzione di continuità. Non a caso i primi provvedimenti presi dal governo libanese sono stati quello di vincolare a una serie di test il consumo dei prodotti agricoli provenienti dalle zone prossime alle aree costiere colpite e il divieto di ogni tipo di pesca. Ingenti i danni ambientali, di cui si comincia appena ad avere notizia. La marea è arrivata fino alla Riserva naturale marina delle isole Palm, Sanani e Ramine, al largo di Tripoli, un sito protetto dal 1992 dove fanno tappa 156 diverse specie di uccelli migratori e dove si possono, o per meglio dire si potevano trovare anche la foca monaca e la tartaruga marina Caretta caretta, le due specie a maggior rischio di estinzione dell’intero Mediterraneo. Inoltre, a lungo termine il mix di olii velenosi può essere letale per i delfini, che si avvelenano sia attraverso la catena alimentare sia assorbendo le sostanze attraverso lo sfiatatoio per la respirazione,e per le foche. Nell’immediato, l’olio si deposita sul fondo, uccidendo all’istante larve e uova: in una comunità umana sarebbe un genocidio. E poi ci sono i veleni che lavorano nell’ombra, inquinano e si diffondono. Il guaio peggiore di questa, come di tutte le catastrofi marine provocate dal petrolio e dai suoi derivati, è la difficoltà di circoscriverne l’impatto. Tanto più arduo in un mare chiuso, con poco ricambio come il Mediterraneo. Chi pensa che siano affari altrui può riflettere sui dati del Programma ambiente dell'Onu: gli idrocarburi sono responsabili del 70/95 per cento delle infezioni gastrointestinali derivate dal consumo di pesce.