Pensiero laico e libertà individuali
di Franco Cardini - 18/08/2014
Fonte: Franco Cardini
Comincerò con la confessione di quello che - per quanti hanno la benevolenza e il tempo da perdere necessari a seguire le cose che penso e che scrivo: e ignoro se e quanto ne valga la pena - è un segreto di Pulcinella. Sono sempre stato, per inclinazione personale e per educazione familiare, rispettoso di chiunque e di qualunque idea; d’altronde, la mia professione di fede cattolica (per quanto io debba continuamente combattere con la debolezza di quella stessa fede: ma credo che questa sia condizione comune a molti) m’impone di credere nell’esistenza di una sola Verità assoluta, ardua a comporsi con la considerazione delle molte e differenti - sovente contrastanti - verità che si presentano e si confrontano nel mondo e nella storia. A livello religioso, una risposta mi viene dall’idea - desunta da Nicolò di Cusa e da Erasmo da Rotterdam - che esista una religio perennis nella quale tutte le religioni convergono e si compendiano: ma credo che ad essa si possa storicamente attingere non già aderendo a forme e ad esperienze di tipo sincretistico, bensì restando coerentemente fedeli alla propria tradizione pur vissuta nella dinamica storica che distingue - sul piano fenomenologico, se non su quello sostanziale - ciascuna tradizione.
Confesso che, se tale convinzione mi rende facile il dialogo con i portatori di altre fedi religiose - soprattutto con quelle più prossime al cristianesimo, cioè con gli ebrei e i musulmani -, essa non mi favorisce granché nel dialogo (che pur ritengo importante e che in buona fede perseguo) con i laicisti, cioè con quanti ritengono che si possano costruire società civili che astraggano dal fondamento sacro della civiltà e dall’origine metafisica dell’etica: le società che possono “fare a meno di Dio”, che per me non è l’Assoluto, il Divino, l’Ente Supremo, ma una persona spirituale che attraverso la Rivelazione ha fatto irruzione nella storia. Il Dio di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe, di Gesù e di Muhammad, il Patto stretto dal Quale col genere umano è sancito da una Scrittura Sacra.
Mi rendo perfettamente conto che un atteggiamento del genere mi rende non perfettamente libero secondo gli standards di giudizio laicistici e liberal-liberisti. Il mondo laicista è libero di accettare qualunque scelta gli sembri ispirata da ragione, in piena libertà di coscienza; il credente trova che la sua ragione e la sua libertà sono obiettivamente limitate dalla fede - il contenuto della quale va oltre la ragione - e dalla Rivelazione. Sul piano fenomenologico, questa differenza ordinariamente non osta alla comprensione reciproca, alla concordia di fini e d’intenti, alla collaborazione nello sforzo di edificare la città terrena secondo un progetto che può essere largamente comune; sul piano assoluto, tuttavia, il soggetto e l’oggetto della ricerca del credente non sono esclusivamente l’uomo, lo scopo della sua vita non è esclusivamente umano, le sue valutazioni non dipendono mai soltanto dall’esame di realtà immanenti e di valori storici e politici. Credo pertanto che la chiave per consentire un’intesa e una collaborazione feconda tra credenti e laicisti consista essenzialmente nell’evitare tutti quei campi del vivere e del pensare nei quali il credente non può impedire che il piano assoluto esca dall’àmbito della sua coscienza personale.
D’altronde, queste considerazioni mi conducono a chiedere agli amici laicisti uno sforzo che credo, per loro, pesante fino ai limiti dell’insostenibilità: quello di mettere quanto meno concettualmente da parte la loro radicata convinzione che i traguardi conseguiti dalla moderna società laica e liberale siano obiettivamente i migliori possibili, i più giusti in senso assoluto. Il che potrebbe esser plausibile se solo la storia avesse un senso immanente: e ormai il tramonto delle ideologie e i progressi nello stesso campo della ricerca hanno dimostrato che tale senso non esiste. Il vecchio Dostoesvskji ha espresso bene il fondamento del pensiero laico nella sentenza: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”, ma l’elaborazione etica di tale pensiero ha posto un limite all’arbitrio dell’agire - l’aristocratico arbitrio della cultura libertina - nell’esercizio del rispetto per i diritti individuali. La tolleranza e i diritti dell’uomo (e poi della donna, del bambino, dell’ammalato, degli animali, della natura e via dicendo) - che hanno costituito lo sviluppo di elementi già presenti nell’etica cristiana, la quale ha sintetizzato elementi ebraici ed elementi ellenistici: ma che sono nati all’interno di una logica già moderna, per la quale l’etica e la politica erano autonome rispetto alla fede: e che quindi non era più cristiana, nel senso che aveva abbandonato l’idea che il progetto cristiano potesse servire da legittimo fondamento per la vita civile e sociale, accordandogli un àmbito di legittimità solo al livello individuale, quello delle singole coscienze - sono state accettate oggi dalle Chiese cristiane storiche, dopo un lungo periodo di tensioni e anche di ostilità specie da parte di quella più gerarchicamente strutturata, la cattolica. Questo non toglie però che il pensiero e la prassi laicisti riposino ancora su una delle tesi, la n.58, condannata dal Sillabo, che così nel suo italiano ottocentesco la esprime: ”Non sono da riconoscere altre forze da quelle in fuori, che son poste nella materia, ed ogni disciplina e onestà di costumi devesi riporre nell’accumulare ed accrescere pere qualsivoglia maniera la ricchezza e nel soddisfare le passioni”.
Ma a questo punto - e direi che la tesi 58 è ancora una delle pochissime che, del Sillabo, possiede una forza teologica e morale irrinunziabile per i cattolici - il problema si fa essenzialmente esegetico: e tutte le questioni che ancor oggi dibattiamo vi appaiono, in sintesi, incluse. Quali e che cosa sono le forze poste “nella materia”. Ora che nessuno o quasi crede più che ad esempio la storia abbia un senso e una direzione finalistica, e che ad esempio vada verso l’abolizione della proprietà privata e la società senza classi? Se il progresso tecnologico e scientifico - che in àmbito laicista molti tendono a pensare come normativo anche in campo etico: ritenendo cioè che tutto quel che tecnicamente si può fare sia lecito anche in campo morale - consente il superamento di limiti che la rivelazione propone come invalicabili, chi dalla Rivelazione trae il fondamento delle sue scelte morali sfuggirà all’accusa di essere un ottuso fanatico, un integralista o, come oggi si dice, un “fondamentalista”? Ecco: ho l’impressione che la scienza e il progresso tecnologico, al pari dello sviluppo materiale, del profitto, del consumo, dell’utile, siano trattati dai laicisti non come obiettivi ch’essi ritengano primari nell’àmbito delle loro scelte, ma che essi hanno l’aria di credere obiettivamente primari, per una sorta di ontologia che essi abbiano cacciato dalla porta rinunziando a stabilire nella metafisica il fondamento della loro etica ma ch’è poi rientrata dalla finestra e che ormai non si fonda più neppure sulla convinzione che esista un senso nel processo storico, e quindi una “ragione” in esso.
La domanda, tuttavia, si pone: se non c’è un fine al progresso, allo sviluppo, al consumo, al profitto, al benessere, può esserci ad essi una fine? Ma se progresso, sviluppo, consumo, profitto, benessere hanno come scopo il raggiungimento della felicità, ed essa è per definizione irraggiungibile - se non altro perché il perfetto conseguimento di essa urta con la coscienza della finitezza dell’essere umano e con l’angoscia della sparizione che da tale coscienza fatalmente deriva -, il progetto laico non ne risulta inficiato in partenza nella misura in cui insegue una mèta irraggiungibile? Non sono per definizione il progresso, lo sviluppo, il consumo, il profitto, il benessere, per loro natura sempre perfettibili, sempre imperfetti, e tali dunque da generare un’insoddisfazione, quindi un’angoscia, quindi una mancanza di felicità senza limiti? E non è pertanto la via imboccata dall’Occidente moderno in contrasto con il fine stesso della ricerca della felicità, ch’esso si pone come valore primario?
L’anello debole del pensiero laicistico - che non mi sembra abbia mai prodotto valori davvero forti: che produce semmai valori duri, ma appunto per questo fragili - sta a mio avviso nel suo limite ultimo e più grave, l’individualismo. I valori eticamente più alti prodotti dall’Occidente moderno sono leggibili in termini di diritti: ma non sono mai diritti che sia possibile godere comunitariamente, che si fondino quindi sulla rinunzia di una parte dei diritti individuali a vantaggio di quelli altrui. Il risultato concettuale, è la compresenza di diritti individuali illimitati, come cerchi il centro dei quali sia l’individuo e la circonferenza non esista. Ma, nella pratica, l’esercizio dei diritti individuali si traduce in una legge della giungla che può essere anche in apparenza ordinata ed educata - come appare in molti ambienti del nostro Occidente -, la sostanza della quale però si traduce in una durissima mancanza di equità.
Il punto è che l’individualista occidentale è anche un convinto etnocentrista: per malafede, o per ignoranza, o per calcolo, egli astrae totalmente dal fatto che le realizzazioni scientifiche, tecnologiche, finanziarie ed economiche degli ultimi decenni - nei quali il loro rispettivo progresso è cresciuto in progressione geometrica - hanno scavato non già un fossato, bensì un abisso tra le condizioni di quel circa 20% di cittadini del nord e dell’ovest del mondo che - in modo sia pur molto disuguale fra loro - controllano e gestiscono l’80% delle ricchezze e delle risorse del pianeta , e il restante 80% della popolazione mondiale (che si avvicina ormai ai cinque miliardi di persone), condannata a vivacchiare sul 20% corrispondente. L’illusione - credo fondata sulla malafede - che questo benessere, col tempo, potrà diffondersi in tutto il mondo, fa parte della perdita da parte dell’Occidente della cultura del limite, ma consente agli occidentali di continuar a ostentare fiducia formale nel loro way of life e nel sentirsi nel contempo a posto con la loro coscienza: secondo un paradosso avviato nel XVIII secolo, allorché con espressioni quali “diritti dell’Uomo” s’intendeva in teoria coinvolgere tutta l’umanità mentre si sapeva bene di voler interessare, sul piano storico definito e concreto, solo alcune classi giuridiche e sociali del mondo europeo e dell’élite sparsa nel mondo ma ad esso afferente.
Con la globalizzazione, l’egemonia di alcuni gruppi e individui sull’occidente e quella di essi - quinsi di alcuni occidentali - sul mondo è divenuta evidente e, per quel che si può vedere e prevedere almeno in tempi brevi, irreversibile. Ma una cultura dei diritti individuali, che faccia coincidere solo con essi i valori, può ragionevolmente dirsi equa rispetto alla morale del secolo XXI, che risente ancora tanto dei valori storici dello stesso Occidente, fondati sul senso cristiano della giustizia e materiati profondamente dell’aspirazione socialista all’uguaglianza? Del fatale trinomio della Rivoluzione francese, a parte l’utopia cristiana e massonica della Fraternité - che troppo spesso si risolve in un valore teorico e retorico, destinato a riproporsi solo in episodiche circostanze emozionalmente vissute ma refrattario a tradursi in termini istituzionali e sistematici -, dalla lotta durata due secoli è emerso che la Liberté ha vinto sull’Egalité: ma il prezzo di questa vittoria è che il primo valore si va affermando in misura tanto più ristretta ed élitaria quanto più fenomenologicamente intensa, mentre il secondo - che per sua natura non esiste se non è generale - è stato di fatto abbandonato. Appare storicamente difficile immaginare una situazione di questo tipo che possa non dar luogo a tragici contraccolpi, neppure troppo lontani nel futuro - e alcuni sintomi di ciò già si scorgono, ad esempio negli inquieti flussi migratori e nel nascere di nuovi radicalismi religiosi e politici -, ove il sistema nato dalla globalizzazione non sappia elaborare al riguardo adeguate risposte protettive: prima fra tutte, la ridistribuzione delle ricchezze, delle risorse e del know how tecnologico, non privo della necessaria autonomia decisionale atta a utilizzarlo. Ma è proprio a ciò che l’élite che attualmente governa il pianeta - e della quale noi siamo parte, o rispetto alla quale siamo dei subalterni funzionali e in vario modo privilegiati - non sembra disposta ad acconsentire.